Racconti da spiaggia - Contest letterario estivo

Riportiamo di seguito, in ordine di arrivo, i racconti inviati dai partecipanti non blogger per il contest Racconti da spiaggia di webnauta. L’elenco completo dei concorrenti in gara nell’articolo Racconti da spiaggia, un contest letterario per l’estate! Venite a festeggiare l’estate insieme a noi!

 

 

Fermarsi all’ovvio

di Vecchio viaggiatore di panchine

Cominciò tutto da una panchina.
Non capivo assolutamente perché ma mi avevano fissato appuntamento proprio lì, sulla passeggiata lungo il fiume, quel sabato mattina poco dopo l’alba. Ero stato convocato pochi giorni prima dall’ufficio marketing e la cosa mi aveva da subito incuriosito: era un gruppo di persone con cui entravo in contatto solo una volta all’anno, all’aperitivo della vigilia di Natale. Per gli altri trecentosessantaquattro giorni ricevevo come gli altri dipendenti le loro mail aziendali interne, che spiegavano qualche nuova operazione pubblicitaria. Io mi occupavo di numeri, rendiconti e tassazioni: niente di così spettacolare per i nostri clienti finali. Non capivo quindi cosa volessero da me così all’improvviso.
“Ci hanno detto che lei scrive molto bene e noi stiamo cercando un narratore.” Qualcuno dei miei colleghi aveva parlato. Non che fosse un segreto per carità, ma di sicuro non sarebbero mai arrivati nemmeno a cercarmi. Avevano letto qualche mio racconto e gli era piaciuto il mio stile. Emozionale, l’hanno definito. Come se ci fossero storie senza emozioni, poi. “Lei renderebbe vivo e passionale anche il manuale di istruzioni di un tostapane.”
Per farla breve, avevano pensato a me per un nuovo esclusivo progetto: come un moderno bardo avrei dovuto raccontare le incredibili gesta del mio Lord, il presidente della società in cui lavoravo. E per questo mi avrebbero dato un sontuoso extra, una cifra a quattro zeri solo per cominciare. Avrebbero lasciato anche il mio nome in copertina della biografia, non sarei rimasto nell’ombra. Quel che mi si chiedeva era di renderlo sulla carta umanamente interessante.
Avrei dovuto essere contento dell’opportunità, ma temevo mi si sarebbe ritorta contro. Di persona l’avevo visto poche volte, ma la sua nomea lo precedeva: il suo era un carattere adamantino, così duro e irreprensibile da risultare antipatico a qualsiasi livello, anche ai suoi consiglieri più stretti. Il Presidente sapeva farsi odiare da tutti, non solo dagli avversari. Non sembrava esserci molta polpa per una storia coinvolgente.
Non potevo comunque rifiutare. Così quel mattino mi toccò una bella levataccia.
Non ero abituato a quell’orario e nemmeno allo stress che mi generava quell’incontro. Dopo una notte passata a rigirarmi inquieto nel letto, mi svegliai con un’entropia di sintomi e malanni: mal di stomaco, giramenti, cefalea, vista annebbiata, schiena dolorante e cervicali infiammati. Mi imbottii di pastiglie con la certezza che la giornata sarebbe stata un fiasco.
Arrivai alla panchina che il sole si era appena staccato dall’orizzonte e piano piano il cielo si tingeva d’azzurro. Sul lungofiume un anziano camminava tranquillo lasciandosi sorpassare dagli sportivi in corsa. All’inizio non lo riconobbi, ma uno di questi assomigliava proprio all’uomo che stavo aspettando. Rallentò l’andatura fino a fermarsi davanti a me. Respirò a pieni polmoni.
“Una bella giornata, vero?” e mi sorrise, probabilmente divertito dall’espressione ebete che doveva sfuggire al mio volto. Si tolse un piccolo zaino dalle spalle e lo poggiò sulla panchina. Ne estrasse un cartoccio. Si avvicinò alla riva del fiume e iniziò a spargere briciole, o qualcosa di simile. Un imponente gabbiano si accostò e cominciò a mangiare dal pelo d’acqua, battendo le ali, spostandosi sul bordo, garrendo e stridendo probabili ringraziamenti.
“Lui è Ondivago. Gli porto pane secco e acciughe tutte le mattine. A volte mi segue mentre corro.”
Annuii senza proferire parola. Questa persona, totalmente diversa dal manager che avevo scorto in rare occasioni in ufficio, mi incuteva quasi più timore e reverenzialità. Cos’altro nascondeva sotto giacca e cravatta?
Al marketing mi avevano detto che, visti gli impegni del Presidente, avremmo potuto lavorare sulla stesura solo le mattine e qualche weekend. Una bella serie di alzatacce. E avevamo solo tre mesi per tutto.
“Ho portato qualcosa anche per noi. Faccio sempre colazione qui all’aperto.” Dallo zaino estrasse un contenitore per alimenti in plastica colorata. “Clafoutis fatta da mia moglie, ciliegie biologiche e crema pasticcera fatta in casa, niente buste pronte. Assaggi!”
Mentre mangiavamo quella delizia, mi raccontò i suoi inizi di carriera: le difficoltà a scuola, era stato bocciato al primo anno di liceo, gli studi universitari ritardati per la malattia del padre, mai guarito completamente, la grande sofferenza alla perdita del fratello minore in un grave incidente d’auto, la scelta dell’estero per respirare aria nuova. Quella fu, disse, la sua fortuna. O la sua disgrazia: rinunciò a dipingere, una vera grande passione, per sviluppare le sue attività imprenditoriali.
“Ha presente i due enormi quadri in entrata, vicino ai divanetti in pelle? Sono miei…”
Non riuscii a trattenere una domanda. E del resto, dovevo iniziare a scriverla quella storia, le domande erano d’obbligo anche se indiscrete. “Perché allora lei in azienda è così rigido? Mai un sorriso, un attimo di distensione, empatia con i propri collaboratori… lo dico anche per lei. La vedo più rilassato oggi. Gli altri giorni dev’essere molto più stancante.” Speravo di non essermi spinto troppo oltre.
Sospirò, con un velo di malinconia degli occhi. “Un capo deve fare il capo. Ci si aspetta esattamente questo da lui. E poi ci sono giorni in cui non ho proprio voglia di ridere. La settimana scorsa non sono riuscito ad acquistare e assorbire una piccola azienda di duecento persone. Non potevo alzare l’offerta, ero già al nostro massimo, non potevamo andare più scoperti. Non hanno accettato, hanno preferito mandare tutto in fallimento, con non so quale accordo governativo, e oggi ci sono duecento persone senza lavoro. Non dico che li avremmo salvati tutti, ma ci avremmo provato seriamente.”
“Decisioni difficili, senza dubbio.”
“Sono decisioni difficili per chi se le prende a cuore. La nostra concorrenza questi scrupoli non se li fa di certo. I clienti ci valutano i più costosi sul mercato, sebbene molto più affidabili. I nostri processi di produzione però sono puliti, il nostro impatto ambientale è nullo. Quanto incide questo sul prezzo finale rispetto ai nostri competitor asiatici? Lei lavora in contabilità, lo saprà meglio di me.”
Dietro a quest’uomo incredibilmente brillante, che smuoveva progetti e capitali per l’intera Europa, sfidando colossi americani e cinesi, io avvertivo una profonda solitudine. Quanto può essere solo un capo, al vertice della piramide?
Da quel giorno ho smesso di fermarmi all’ovvio delle persone. C’è molto di più sotto la scorza. Su quella panchina mi resi conto che ci sarebbe stato molto da raccontare di ognuno di noi.

 

 

Il Bardo

di Daniel Cutroth

Agosto 1819

Il dottor Joseph Gall diede alla stampa il suo prezioso manoscritto, un’opera ponderata approfonditamente e, soffrendo, se ne stava per separare affidandolo alla casa editrice. “Anatomia e Fisiologia del Sistema Nervoso in Generale, e del Cervello in Particolare, con Osservazioni sulla Possibilità di determinare varie Disposizioni Intellettuali e Morali nell’Uomo e nell’Animale, grazie alla Configurazione del loro Cranio“ era un titolo pomposo, impegnativo, ma era immagine di un manuale importante. I suoi studi erano frutto di grande amore e sacrificio e il suo allievo, Gaspar Spurzheim, lo aveva appoggiato in ogni singola ricerca. Il teschio che aveva elaborato era in origine stato lavato, pulito perfettamente e lucidato: su di esso avevano tracciato linee perfette, colorate che individuavano varie aree del cranio e quindi del cervello: per esempio, se le dimensioni dell’”acquisività” fossero state notevoli, ciò comportava una significativa propensione all’accumulo, più o meno lecito, di beni materiali. Osservò ancora un istante la sezione della comprensione, che giaceva accanto a quella della sensibilità e della natura criminale. Senza più esitare, passò il manoscritto all’editore e, intimamente, sospirò.

 

Agosto 2018

L’afa avvolgeva Padova in una cappa infernale.
Il Museo della medicina, aperto anche ad agosto, offriva refrigerio e cultura ai turisti fiaccati dall’arsura.
Il Bardo entrò dalla porta a vetri e l’aria fresca lo investì sollevando il suo lieve affanno. Gettò una rapida occhiata alla piccola sala e alla donna anziana seduta dietro al banco della reception.
La salutò educatamente e la donna rivolse all’uomo un sorriso cordiale. L’uomo trattenne a stento una smorfia di disgusto: i denti sporchi della donna facevano supporre che l’avesse sorpresa mentre sgranocchiava qualcosa, forse una crostatina con la marmellata. L’occhio cadde su una macchia umida che si stava lentamente allargando sulla camicetta dell’anziana. Lei seguì lo sguardo del giovane uomo affascinante e ben vestito che le torreggiava davanti e vide sgomenta quella patacca che assomigliava una nebulosa. “Mi scusi, signore, avevo fame. Mi ero portata da casa una fetta di Clafoutis ai frutti di bosco, la mia preferita.” Il Bardo si trattenne dal commentare ma lasciò che il suo sorriso cortese aleggiasse comprensivo sulle sue labbra e porse il biglietto alla signora la quale staccò il talloncino e claudicante, sorretta da un nodoso bastone, lo accompagno con moto ondivago verso la sala A, illustrandogli che al piano terra avrebbe avuto la possibilità di ammirare i testi antichi che veneravano la medicina di Padova mentre al secondo e terzo piano avrebbe potuto interagire con diversi dispositivi. La donna anziana, così paffuta quanto impacciata gli fece quasi tenerezza, ma poi lo sguardo tornò sulla macchia che ora aveva colato lievemente verso il basso: ogni moto di simpatia nei confronti di quella insulsa donnina era sparito per sempre. Il Bardo ringraziò ma nulla di quello che aveva riferito l’anziana poteva essergli utile per il semplice motivo che lui aveva già studiato la planimetria del museo e tutti gli oggetti in esso conservati. Quello che in realtà cercava era un teschio nel reparto di fisiologia al secondo piano: un cranio speciale su cui erano state tracciate linee che suddividevano il capo in aree in cui erano ubicate le funzioni ospitate nella mente umana: l’intelligenza, la memoria, la cordialità, la capacità di provare sentimenti quali il disgusto che il Bardo aveva trattenuto dal manifestarsi davanti alla signora anziana. Affabile ringraziò con un lieve inchino e si diresse come altri turisti poco prima di lui verso la sala A. Nel frattempo ripassava il piano che aveva elaborato.
Sarebbe arrivato al secondo piano, senza aver saltato una sola teca: doveva apparire un visitatore attento e scrupoloso, come se fosse stato un giovane professore, non un assassino e un ladro.
La visita lo avrebbe portato al compimento del suo percorso, fino al frammento di osso che celava un arcano da svelare solo ai suoi occhi di storyteller. L’evento avrebbe scatenato l’inferno e nessuno poteva salvare sé stesso dalla tragedia che avrebbe causato un aumento dell’entropia di tutta la nazione. La verità sarebbe stata svelata una volta per tutte e nessuno avrebbe potuto arrestare il meccanismo.
Passo dopo passo, lungo il percorso espositivo del piano terra, il Bardo si diresse verso le scale dopo aver letto ogni singola didascalia e bussato alle porte virtuali per ascoltare Giovanni Battista Da Monte e la dama Sibilia De Cetto. Ascoltare la dama che raccontava come aveva voluto, lei insieme al marito, la costruzione di un ospedale libero da tutto e da tutti, sia dal vescovo che dalla repubblica veneziana. Il Bardo sorrise: quanto si era sbagliata la dama che lo osservava dal suo portone. Il male era entrato in quel luogo sacro votato a chi aveva fatto il giuramento di Ippocrate e la sacralità del luogo dedito alla pura scienza medica era venuta meno quando un ladro aveva infranto i sigilli e nascosto nel teschio di Gall un piccolo documento con una miniatura preziosa. Quanti uomini pii ne erano a conoscenza?
Due rampe lo dividevano dai tre teschi frenologici autentici, utilizzati dal professor Gall.
Giunto finalmente davanti all’aula D che ospitava il teschio, venne dirottato da un volontario: Loris, così diceva il badge appuntato al taschino, lo invitò a seguire il percorso nel verso corretto, onde evitare di perdere il senso logico proposto dagli ideatori del museo per garantire al visitatore un itinerario oculato tra le meraviglie della medicina. Paziente, il Bardo sfoderò il suo miglior sorriso condiscendente e si avviò alla sala C, senza fretta. Sapeva tutto, lui che era vissuto fianco a fianco di studiosi della criminologia, fedeli seguaci di Lombroso, che aveva fatto della frenologia una scienza utilissima nella comprensione della mente rea. Come osava quell’omuncolo rivolgersi a lui, spiegandogli quali erano i passi corretti nella storia della medicina? Quell’essere alto, dinoccolato, con la camicia chiazzata dal sudore, colato dal collo e dalle ascelle nonché dalla sua schiena molliccia? “Ma chi sei, tu omino?” disse pieno di ribrezzo a sé stesso, pensiero fugace carico di disgusto dietro una maschera perfetta di circostanza? Passò davanti ai modelli realizzati con arti e organi reali, incerati con una tecnica speciale (“Ottima idea, se voglio uccidere lasciando una traccia indelebile nelle altrui insulse menti!”). Fissò lo specchio magico e salì, ammirando il suo scheletro e i suoi organi interni: non aveva bisogno di ammirare la perfezione delle immagini prodotte virtualmente dal computer. Il Bardo era un uomo bello, perfetto, elegante, sano agli occhi dei suoi spettatori, che trepidanti attendevano di sentire la sua armoniosa voce baritonale mentre narrava capitoli dei suoi romanzi. Lo avevano soprannominato “The perfect storyteller”, sbagliando… eh beh, certo: lui era il Bardo, che finalmente entrava passando davanti al volontario che con sorriso e mezzo inchino con la testa sembrava volergli dire: “Ecco, bravo! Così la sala D te la gusti meglio e con consapevolezza!”.
A destra trovò subito quello che cercava: “Oh, caspita: la disposizione era diversa da quella che aveva minuziosamente memorizzato. Ma dove stava scritto? Qual è quello giusto?”. Sentì il caldo afoso salirgli nuovamente alle tempie e un pulsare si faceva largo in quale zona? ah, ecco, guardando il teschio che aveva davanti agli occhi vide che era quella dove dimorava la causticità, insieme allo spirito d’arguzia. Una luce brillante si accese nella sua mente e capì che il ladro doveva aver nascosto il minuscolo manoscritto nel cranio, celandolo dietro una delle aree che avrebbero avuto un senso. Doveva riflettere un’ultima volta: non si era mai troppo sicuri. La vita serba numerose sorprese e non avrebbe mai voluto ritrovarsi con un pugno di mosche in seguito ad una scorretta valutazione della personalità criminale del ladro. Con la manopola a lato della teca, faceva ruotare il cranio lentamente, leggendo e soppesando ogni singola scrittura sull’osso lucido. Ogni sezione aveva un suo preciso significato. Aveva studiato Lombroso con molta attenzione e, come criminologo, il Bardo non aveva nulla da invidiare a nessuno.
Nel suo cuore adamantino ripensò al ladro mentre moriva ai suoi piedi: lo aveva torturato sino ad estorcere il segreto del manoscritto rubato all’abbazia di Santa Maria Arabona e che sarebbe stato fonte di ispirazione per il suo nuovo romanzo. Lo aveva scavalcato mentre soffocava nel suo sangue, prestando attenzione a non scivolare o a calpestare i fluidi di quell’individuo sciatto. Riconosceva e ammirava la sua intelligenza e cultura in vari ambiti, medico compreso, ma lo disprezzava per la trasandatezza. Che nausea!
Tornò a ruotare il cranio e fece scorrere lo sguardo su ogni zona: memoria dei volti, senso della musica, astuzia …senso dell’architettura e della meccanica: era quello giusto. Lo sapeva da giorni e giorni ed ora, mentre fissava quella piccola area, ne era certo. La mappa si trovava dietro quella scheggia di osso.
Ora doveva solo aprire il teschio e prendersi la mappa.
“Ho tanta sete! Non si lavora in questo stato!” e si avviò veloce verso il bagno. Il pavimento era bagnato e puzzolente di urina fresca. Il Bardo riuscì a fermarsi in tempo con il piede a mezz’aria. “Il punto ristoro alla reception!” e con passo agile scese le due rampe, attraversò il portico che circondava il cortile interno dell’antico ospedale patavino e girò l’angolo. Lo scontro fu inevitabile: un sudaticcio giovane olandese stava girando l’angolo con la sua bicicletta, equipaggiata di bagaglio ai lati. Il Bardo inciampò sul pedale sporgente e cadde sbattendo a terra con violenza.

Il medico legale esaminò il corpo perfetto dello sconosciuto elegante e decretò: morte per frattura al cranio, area del “senso dell’architettura e della meccanica”.

 

 

Il sonno di Ossian

di Agata Minucci

L’inverno non si era fatto attendere a lungo nella regione dell’Occitania, a nord di Tolosa. Montauban era spazzata da un vento gelido che alzava le ultime foglie morte cadute dai meravigliosi alberi delimitanti i giardini pubblici. Le folate percuotevano violentemente le membra della giovane donna, che cercava disperatamente un riparo. Il volto rigato dalle lacrime era sconvolto dal gelo e dallo sconforto. Tentò di rifugiarsi sotto l’arco di un portone, quando gli occhi caddero sull’insegna di una pinacoteca, l’Ingres, ricordando che l’accesso era gratuito. Incespicando si avviò correndo verso l’entrata. Non se l’era sentita di cercare rifugio e conforto in Notre-Dame-de-l’Assomption, si sentiva sporca dentro, nell’anima.
Una volta entrata, salutato con un soffio di voce il signore all’ingresso, si avviò lentamente verso le sale, scoprendo il capo. La mantella con cappuccio di grossa lana viola non bastava a far fronte alla stagione fredda, ma Dora non aveva soldi, nemmeno per mangiare. Si sentiva debole e la voce le mancava spesso a causa di una laringite che la stava tormentando da molti giorni. Non era stato il tempo inclemente, non era un male di stagione: erano le urla che la soffocavano graffiando la gola come unghie affilate. La disperazione del giorno si trasformava in sonni agitati e gli incubi si facevano via via più veritieri. Non aveva scampo: il passato era troppo doloroso e la faceva sentire inerme nei confronti della vita.
Con passo malfermo, avanzava osservando i dipinti di Jean- Auguste- Dominique Ingres, nativo di Montauban, noto pittore francese, pregiatissimo esponente della pittura neoclassica. Dora sorrise tra sé, mentre nella mente sussurrava le nozioni di storia dell’arte che insegnava all’università a Tolosa. Ma quella era un’altra vita.

 

Sono stanca. Non riesco a darne fuori con questi lunghi e tediosi esami. Possibile che gli studenti siano così poco ispirati dal mondo meraviglioso che il buon Dio ci ha donato e che loro abitano da stolti? Santa pazienza!
Non arrivo più a casa, oggi! Quanto pesano queste borse! Perché ho acquistato tutto questo cibo, se alla fine vivo sola e non ho nessuno ospite a cena? Mai? La vita è così complicata da capire per me? Basta così! Dai, Dora, sbrigati ad aprire questo portone ed entra in casa, prima di schiacciare il prezioso dolce che hai acquistato nella mitica Maison Mauranes, al numero 19 di Rue du Général Sarrail, un clafoutis succoso di frutta e gelatina. Mmm, ho l’acquolina in bocca. Divano, copertina e fetta di torta: dai, ce la possiamo fare!
Oh, no! Ascensore fuori uso! Ma perché non ci penso quando faccio acquisti pesanti?! Accidenti a me e a tutta la mia vita!
Quattro piani a piedi, otto rampe, ottanta gradini: non contarli, Dora, come quando eri piccola, fai le scale a testa bassa e non guardare in alto! Così arrivi senza accorgertene. Vai, Dora!

La porta non è chiusa a chiave. Non mi sono ricordata di chiuderla o Etienne ha deciso di continuare la nostra liason amorosa? Ecco, Dora, idea brillante è stata allacciare una pericolosa relazione con un tuo studente. Suo padre è stato categorico, ieri mattina: “Lasci stare mio figlio! Avrà anche vent’anni, ma lei ne ha trentotto e la sua non è esattamente la levatura sociale alla quale ambisco per mio figlio. Noi siamo i Degres, notai da secoli. E lei, chi è?”
Vedi Dora, devi startene fuori. Sarà stato anche magico, alterare il tuo tedioso tran tran quotidiano, con una relazione non solo sessuale, ma semplicemente stimolante e birichina, come solo l’infatuazione di un giovane alto, moro, occhi chiari… e basta, non posso sempre pensarci: devo andare avanti e tornare lucida. Ma come si fa? Sento ancora le sue mani, tremanti sulla mia pelle, il suo respiro fresco sulla base del collo, le sue parole così adeguate alle circostanze, raro per uno studente.
Concentrati Dora: cosa cuciniamo per cena?

Joffrey si era nascosto in camera. Suo figlio Etienne aveva urlato parole incomprensibili, mentre la bava filava tra le labbra, mescolandosi alle lacrime calde e disperate. Si era sentito raccontare quanto Dora fosse impagabile: nessuna era come lei, semplice, pulita, intelligentissima, non faceva pesare nulla del suo essere così colta. Innamorata del tramonto e di Gaugain, appassionata di musica operistica e di Toulouse Lautrec… e i suoi occhi: sia benedetto il suo sguardo appagato nell’amplesso sublimato nelle dolci frasi sussurrate con le sue labbra di rosa.
Joffrey non poteva permettere che suo figlio continuasse nella sua follia di abbandonare gli studi di giurisprudenza e dedicarsi all’arte. Come padre sentiva salirgli la rabbia al volto offuscandogli la vista e ottenebrandogli i pensieri. La furia lo fece salire in auto e guidare come un pazzo per le vie di Tolosa. Non sapeva come era finito nell’appartamento della professoressa Dora Autielle. Le aveva fatto visita nel suo studio all’università e aveva alzato la voce, intimandole di uscire dalla vita di suo figlio. Era arrivato ad offrirle un cospicuo compenso in denaro pur di togliersela dai piedi.
“Se ne vada, ha capito? VADA VI-A!”
Uscì sbattendo la porta, mentre le falde del cappotto svolazzavano attorno alle sue possenti cosce. Non avrebbe voluto arrivare allo scontro. Ma non era la prima volta. Niente donne insulse per Etienne. Prima la ragazzetta sedicenne, figlia del calzolaio e sua compagna di liceo. Ricordava ancora con quanto ribrezzo aveva assistito al nascere di un amore così fresco e pulito, ma per Joffrey era troppo: la figlia di un ciabattino qualunque, ma per piacere?!
Poi, è stata la volta del suo compagno di banco: Alain, ecco come si chiamava. Un ragazzo sveglio, intelligente con una famiglia insulsa, che non si poteva permettere la retta della scuola e quindi elemosinava dal vescovo una sovvenzione per gli studi del figlio. Ridicolo! Etienne doveva frequentare il bel mondo, quello che poi avrebbe rappresentato, i giusti clienti per il loro studio notarile. Ed ora, già da due anni allievo promettente della facoltà di Giurisprudenza, per caso sente parlare del corso di arte tenuto da Dora Autielle e che fa, questo figlio ingrato? Segue due lezioni e resta folgorato come Saul sulla strada di Damasco.
Era troppo: ora Joffrey aspettava quella sciacquetta dietro la porta della camera da letto. Una lezione esemplare le spettava di diritto, lei che aveva declinato l’offerta molto generosa e aveva promesso comunque di lasciare Etienne. Ma un buon notaio conosce come va il mondo: ondivago sui suoi piedi, ponderava sul rifiuto della professoressa di accettare tutti quei soldi ed era certo che senza compenso non si fa mai nulla. Cercava di respirare silenziosamente, cercando di controllare l’agitazione che gli sconvolgeva i visceri.

Guardo quegli occhi feroci, puntati su di me e penso: “Dora, che hai fatto mai?” Mi odia così tanto da volermi far male! Sono stanca, glielo vorrei dire, ma la voce mi muore in gola. Come nel peggiore degli incubi, vorrei gridare aiuto, ma non esce un solo suono dalle labbra che sento secche per il gelo e per la paura. Non volevo che finisse così: ero stata arrendevole e gli avevo promesso di riflettere, anche se ero conscia, e glielo avevo fatto notare, che la relazione con Etienne non poteva durare. Avevo quasi quarant’anni e lui, così bello, così giovane, avrebbe presto realizzato che non ero abbastanza per lui, anche se ora mi dichiarava amore infinito. Effettivamente ero la causa del suo voltafaccia alla carriera scolastica e allo studio notarile di famiglia, lo sapevo e lo avevo detto con rammarico a quel padre preoccupato e indubbiamente arrabbiato. Ma forse non ero stata abbastanza convincente e non avevo scalfito la sua certezza: io per lui ero un’arrampicatrice sociale, una pazza maniaca, una depravata che si trastulla con il ventenne.
Joffrey mi fissa senza parlare, con una furia cieca si avventa su di me. Vorrei guadagnare l’uscita e scappare per sempre da Tolosa, ma lui ha piani diversi dai miei.

Mi risveglio due ore dopo, in un lago di sangue: gli ematomi all’interno delle cosce sono segno della violenza inaudita con cui mi ha stuprato fino a farmi svenire. Mi ha conficcato qualcosa nella mia intimità: mi muovo a stento, ma non riesco nemmeno a mettermi seduta. Piego verso di me le ginocchia e, con pollice e indice, afferro l’oggetto umido, lo sfilo dolorosamente e lo porto all’altezza dei miei occhi. Una banconota da cinque euro! E una scritta sopra il cinque, sotto la bandiera europea: “Non vali di più”.

In piedi davanti all’olio su tela “Il sogno di Ossian” Dora trattenne il fiato. Sul monte Cromla il Bardo, profondamente addormentato sulla sua arpa, elabora in sogno parole che avrebbero riscritto la realtà, facendo emergere luminosi eroi da uno sfondo di tenebra, mentre la luce adamantina scivola sui loro corpi, creando la magica energia che avrebbe alterato l’ordine delle cose, con un forte gradiente di entropia. Dora sorrise ripensando all’ultima fetta di dolce che avrebbe placato la desolazione della perdita. Perdere era un’arte che non le apparteneva. “Bardo, portami via: narra per me una nuova storia, piena di luce. Cancella Etienne, Joffrey… cancella Dora Autielle!”

Daniel Bastianeau, il direttore, era stato chiamato urgentemente da uno dei guardiani notturni che stavano per prendere servizio: una donna vestita in modo dimesso stava seduta composta davanti al quadro del Bardo. Sembrava che la signora si fosse profondamente addormentata mentre ammirava il prestigioso quadro che donava lustro alla città di Montauban. Chini su Dora, osservavano basiti l’incarnato d’alabastro e la serenità del volto esanime.

 

 

Distopia paradossale

di Calogero Salvaggio

Capo e Cane, due temponauti provenienti dal futuro, vengono inviati dalla Legione Clandestina in missione nell’anno 2018 per trovare il Bardo, l’unico che con la sua magniloquenza possa convincere il parlamento europeo a bocciare la nuova Direttiva sul diritto d’autore nel mercato unico digitale che minaccia di cancellare la libertà d’informazione e di pensiero che ha dato il la a un futuro distopico nel quale i diritti degli esseri umani e dei cani, divenuti intanto senzienti, sono stati soppressi.
A bordo di un vecchio ondivago temporale rimesso in sesto alla buona, uno scafo equipaggiato con un congegno che gli permette di solcare le onde dello spazio-tempo, si apprestano ad approdare nei pressi del periodo tristemente ascritto agli annali come Il Dì Della Perduta Libertà.
– Come facciamo a riconoscere il Bardo, Capo?
– Etci! Sniff! Dannata rinite. Non riesco nemmeno a sentire gli odori. Credo di essere allergico a te, Cane. Comunque… La Legione ci ha fornito i dati biometrici del Bardo, basterà effettuare una scansione. Stando alle poche informazioni che abbiamo, il 12/09/2018 alle 9:17 in punto dovrebbe trovarsi a Parigi, in Rue Des Pâtisseries. Dobbiamo prelevarlo, rivelargli l’importanza del ruolo che riveste e portarlo a Strasburgo affinché si rivolga alla Plenaria.
– Piuttosto semplice.
– Affatto. Qualora dovessimo mancare l’aggancio potremmo tentare di rimediare, certo, ma ci rimarrebbero 2 tentativi appena.
– Spiegati meglio.
– Nel dossier che ci hanno rifilato vi sono altre coordinate spazio-temporali che individuano la sua posizione in altri luoghi e tempi, ne sceglieremo una sperando di avere miglior sorte. Il problema sta nel fatto che il brillante stabilizzatore, la pietra che ci permette di restare ancorati in un tempo diverso dal nostro, ha un’entropia molto accelerata; la sua energia degrada velocemente e quando sarà esaurita ci ritroveremo automaticamente nel nostro tempo, che abbiamo completato la missione o no. Ci siamo, preparati allo sbarco.
– Gli abiti che abbiamo indosso sono ridicoli, mi sento a disagio.
– È la moda dell’epoca. Dobbiamo confonderci. Ricorda: abbiamo pochi secondi per individuarlo.
Il portello dell’ondivago si aprì con un sussulto. Misero piede nel 2018. Nell’aria frizzante aleggiava un aroma fragrante di dolci e frutta. Cane annusò lungamente. “Odore di Clafoutis ai millecucchi. Da dove arriva?
– Cosa ti prende? Non è il momento di incantarsi, questo.
– Niente, Capo… stavo solo…
Una giovane donna in divisa da pasticciere passò loro innanzi. Reggeva in braccio una cagnetta dall’aria fru fru. Cane ne rimase folgorato. Il cuore cominciò a battergli a un ritmo da musica minimal.
– Ti ho detto che non è il momento di incantarsi. Su, torniamo a bordo. Si riparte. La scansione ha dato esito negativo. Dobbiamo fare un altro tentativo.
Ripartirono all’istante. Cane si era fatto taciturno.
– So a cosa pensi, pulcioso. Sei uno stupido. Ti sei innamorato di quella. Ho visto come scodinzolavi.
Nessuna risposta.
– Non capisci che il vostro è un amore impossibile? Appartenete a epoche diverse. Cerca di essere realista.
– Dove si va? – chiese mestamente Cane.
– Stessa data, ore 12:22, Place Des Fleurs.
In Place Des Fleurs la scena si ripeté analogamente a prima. Odore di clafoutis ai millecucchi, scansione negativa, ancora quella donna e la sua cagnetta. Fece gli occhi dolci a Cane, che si sciolse come un sorbetto nel Sahara. Capo lo trascino dentro l’ondivago tirandolo per la collottola.
– Vuoi metterti in quel cranio adamantino che voi due non potete…
– Ma lei è così… – sospirò. – Sì, so bene che il nostro amore è una chimera. Meglio cambiare argomento. Come ci muoviamo?
– Ci rimane un solo tentativo. Il dossier dice che una blogger dell’epoca ha conosciuto il bardo, pertanto potrebbe essere in grado di metterci sulle sue tracce. La sottopongo a profilazione sfruttando i dati in nostro possesso, per capire con chi avremo a che fare.
Pochi secondi di attesa e il profilo completo apparve sull’olomonitor.
– Per tutti i crateri della Luna!
– Problemi?
– Da qui ai Pilastri della creazione non esiste una stronza come questa donna. Ho una rara allergia agli stronzi patologici: mi fanno grattare come se avessi le pulci.
– Sì, pure a me. Propongo di fare senza questa tizia. In alternativa mi andrebbe bene anche fallire la missione.
– Concordo. Preferisco sopportare l’oppressione piuttosto che l’acidità congenita. Destinazione Rue Beauregard allora. Ore 15:55.
Nuova tappa, vecchia solfa.
Ancora quell’odore di clafoutis. È così intenso che dovrebbe sentirlo perfino Capo, nonostante la rinite. E… ancora… Lei.
– Si torna a casa, Cane. Abbiamo fallito. Il Bardo non è neppure qui.

Anno del Signore 2374.
– Non riesco a capire, Capo. Abbiamo fallito: com’è possibile che la distopia si sia corretta? Guardati attorno. Le persone in strada comunicano tra loro. Sono perfino felici. Una cosa che non si vedeva da secoli. E gli sbirri in divisa del regime? Spariti.
– Già, non v’è ombra di quei vigliacchi dei censori né dei loro inibitori vocali. Mi sfugge qualcosa.
– Ho un’idea. Interpelliamo gli archivi. L’intervento del Bardo alla Plenaria potrebbe esserci stato lo stesso, in qualche modo.
Trovata la registrazione del 12/09/2018 Cane cominciò a scorrerla velocemente.
– Non riesco a crederci! Il Bardo è… Lei.
Lei? La stessa di cui ti sei invaghito?
– Lasciami riflettere. Dunque… cominciamo dagli indizi. Abbiamo effettuato tre sbarchi. Lei c’era ogni volta ma lo scanner biometrico non l’ha mai riconosciuta. Che sia a causa di un malfunzionamento?
– Impossibile. L’ho revisionato di persona prima di partire. Funziona perfettamente.
– Tre sbarchi –, riprese, – e ogni volta quell’odore…
– Odore?
– Clafoutis ai millecucchi.
– Cosa? Vuoi dire che altri viaggiatori del tempo hanno seguito le stesse tracce a bordo di un ondivago temporale? Accidenti a te e al tuo fiuto canino, ma perché diavolo non me l’hai detto subito, tonto pulcioso?
– Pensi che l’aroma di clafoutis provenisse dagli scarichi di un ondivago?
– E da dove vorresti che venisse? Sai bene che il serbatoio dell’ondivago va riempito di clafoutis ai millecucchi: è il carburante che lo fa funzionare. Le hai fatte le elementari? Lo sanno anche i cuccioli.
– Quindi…
– … anche nell’altro ondivago c’eravamo noi. I noi di adesso. Sono stati i nostri alter ego del futuro a trovare Présqué, il Bardo, e a farla intervenire alla Plenaria.
– Ciò significa…
– … che dobbiamo ripartire e completare la missione, o tornerà tutto come prima. Una nuova vecchia dittatura del silenzio. Stavolta dovremmo riuscire. A fallire saranno i nostri alter ego del recente passato, proprio come noi nel primo viaggio a ritroso. Adesso sappiamo chi cercare e dove trovarlo. I dati biometrici che la Legione Clandestina ci ha fornito appartengono sì al Bardo, ma in età avanzata, perciò lo scanner non ha trovato riscontri. All’epoca, come abbiamo visto, era ancora una giovane.
– Mentre noi cercavamo qualcuno di età avanzata.
– Procura un cristallo stabilizzatore, presto. Si va a salvare il mondo. Cani e umani torneranno a essere liberi.

Come intuito, il secondo viaggio ebbe successo. Il Bardo comprese la situazione. Insistere non fu necessario. Rivolse un accorato appello alla Plenaria, soprattutto per far piacere a Cane, per il quale nutriva un forte sentimento, era evidente.
L’Europarlamento, toccato dalle sue parole più che persuaso, si espresse contro la direttiva a maggioranza schiacciante. I diritti dei senzienti erano salvi. Il mondo non avrebbe conosciuto e sofferto la dittatura del silenzio.
Giunse l’ora dei saluti, l’ora in cui Cane e Présqué avrebbero dovuto dirsi addio. Capo si fece un giro per lasciare loro qualche istante. Quando fece ritorno, pochi minuti dopo, Cane era già a bordo, da solo, e lo stava aspettando.

Anno 2374.
– Siamo stati bravi. Non era niente facile. Abbiamo liberato i nostri simili ed evitato di creare pericolosi paradossi.
– Beh, Capo, veramente…
– Oh no. Non dirmi che hai combinato uno dei tuoi soliti pasticci.
– Il fatto è che… mi avanzava un cristallo… così l’ho messo al polso di Présqué e…
– Lei è qui? Nel nostro tempo?
– L’ho nascosta nel vano arsenale.
– E le armi?
– Ho dovuto lasciarle nel passato.
– Magnifico! È un miracolo se le civiltà umana e canina non si sono autodistrutte. Sei un pericolo pubblico, Cane. Dovrei farti mettere in gabbia.
– Le ho disattivate prima di darle a dei ragazzini. Si sa che i piccoli rompono tutto.
– È inutile discutere con te. Fa’ uscire il Bardo da lì.
Venendo fuori dall’ondivago, il Bardo, Adrienne Présqué, pasticcera parigina del XXI secolo, sfiorò distrattamente il pannello di controllo, attivando la guida automatica. Fece appena in tempo a saltare fuori prima della chiusura del portello.
L’ondivago scomparve nel passato, destinazione ignota, la ricetta del clafoutis ai millecucchi firmata in calce, cadutale di tasca, in bella mostra sul pavimento della navetta.
Così, e proprio a lei che si deve l’invenzione della macchina del tempo a clafoutis di millecucchi. L’invenzione che ha strappato via la museruola a uomini e cani, per la quale è ricordata e celebrata.
– Dunque non era dagli scarichi dei nostri alter ego che proveniva l’aroma di clafoutis; è Adrienne a esserne impregnata perché ne prepara tutti i giorni. Dev’essere così.
– Non riesco a capire, Capo.
– È semplice: nella terza tappa del primo viaggio non siamo stati preceduti dai noi futuri, bensì seguiti. La riprova sta nel fatto che nella seconda visita a Rue Beauregard siamo arrivati giusto nel momento in cui loro ripartivano per tornare al loro tempo. Per cui in Rue Beauregard non avrebbe dovuto esserci odore di clafoutis.
– Ma c’era.
– Perché c’era Adrienne.
– È tutto così complicato…
– Ma che cavolo, Cane! Possibile che voi umani siate così lenti a capire?
– Scusa, Capo, ma che colpa ne ho io se voi cani ci battete in intuito…
– Ma allora perché ti chiami Cane?
– Minchia, io Cosimo mi chiamo, siculo sono! In che lingua te lo devo dire, abbaiando? Solo tu mi chiami Cane! E che schifìo!

 

 

Settembre caldo

di Minnie

“O mio bardo…”
“O mia dea…”
I nostri incontri iniziavano sempre così, in un saluto carico di attese, dove gli sguardi anticipavano le nostre urgenze caricandoci di desiderio. E finivano in una delle nostre camere d’albergo, in un turbinio di corpi e sensazioni mistiche. La prima volta mi strappò il vestito, letteralmente: non poteva attendere la chiusura lampo inceppata. Io al contrario me la presi comoda con ogni bottone della sua camicia: sapevo che questo lo faceva esasperare al punto giusto. Liberato l’ultimo occhiello, ero già adagiata sul letto, compressa sotto i suoi muscoli, trafitta dalla sua spada.
Ci incontrammo sulla spiaggia, due solitari di settembre che correvano con la ventiquattrore a godersi l’ultimo sole sul lago. L’unico elemento positivo di una trasferta di lavoro. Dopo lunghe e tediose riunioni, il fruscio lento delle onde della sera era un ristoro appagante. La stagione era ancora buona e la temperatura sopra la media lasciava l’acqua tiepida per concederci un bagno. Mi ero appena seduta e accoccolata nell’asciugamano dopo una nuotata, quando lo vidi uscire a sua volta. Statuario contro la luce del tramonto.
Ogni fibra del suo corpo stava sgocciolando e mi immaginavo di raccogliere una ad una quelle piccole perle lucenti o assaporarle direttamente sulla sua pelle. Non dovevo essergli indifferente e quel costume non riuscì a nascondere la cosa. Ma non se ne vergognò affatto. Mi sorrise e negli occhi gli lessi un invito.
Si distese sul suo telo a pancia in giù, continuando a guardarmi. Il cellulare mi salvò dalla tentazione. Raccolsi velocemente le mie cose, mentre discutevo del solito impiccio di casa, brusco ritorno all’entropia della mia vita.
Un’ora dopo ci ritrovammo alla reception dello stesso albergo e la distanza di cortesia non gli impedì di conoscere il mio cognome e soprattutto il mio numero di camera. Mi scappò uno sguardo nella sua direzione. Un altro sorriso carico di promesse. Avrebbe usato quel numero? Non trovai alcuna scusa per rimanere oltre e sentire chi fosse e dove dormisse. Un vero peccato. La mia sorte era solo nelle sue mani.
Decisi di cenare al ristorante del piano terra, anche se in genere preferivo una pizzeria sul lungomare, spartana ma allegra. Stavo ancora leggendo il menù quando lo sconosciuto si avvicinò al tavolo. Il completo scuro esaltava i suoi occhi blu screziati di grigio, un mare in tempesta.
“Credo che nessuno, in una sala così bella e con questa musica in sottofondo, dovrebbe cenare da solo, non crede? Posso unirmi a lei?” Non riuscii a dire di no, sventurata come tante.
La cena era pagata dalle rispettive società per cui lavoravamo. Anche lui era un commesso viaggiatore come me, io però mi occupavo di vendite, lui preferiva le acquisizioni. Questa fu l’unica cosa che svelammo delle nostre vite quotidiane quella sera, lasciandole fuori da quella camera, insieme alle nostre inibizioni.
La sua lingua non lasciò inesplorato nemmeno un centimetro del mio corpo. E anch’io mi saziai del suo a più riprese, fino allo sfinimento. Non avevamo chiesto nulla all’altro, ci eravamo offerti totalmente e scoprimmo un’intesa naturale e perfetta, come a pochi è concesso. Sapeva portarmi all’estasi solo sfiorandomi. Mio marito non era così brillante.
Quando mi entrò dentro, sentii di essere tornata finalmente a casa, la mia vera casa, e che la mia esistenza fino a quel momento era stata un’inutile girovagare a vuoto, fingere qualcosa che non ero.
Il nostro era un rapporto ondivago, in balia degli impegni lavorativi e degli imprevisti famigliari. Tra un compleanno dei bambini, il ricovero d’urgenza della suocera, le vacanze all’estero con la moglie, riuscivamo a vederci una volta al mese. Quand’eravamo molto fortunati, anche due. E giocando con i chilometri e con i clienti, riuscivamo anche a strappare un paio di notti nello stesso albergo, indisturbati. Le mie occhiaie si allungavano al pari dei miei orgasmi. Tra le sue braccia vivevo immersa tra le stelle.
Avevo anche rischiato di perderlo. Un aeroporto chiuso per maltempo e un altro intero mese di solitudine davanti a noi lo avevano messo a dura prova. Soprattutto non sopportava più di dividermi con qualcun altro. Era pronto a mollare tutto per avermi in esclusiva. Divisi eravamo infelici, uniti eravamo invincibili.
Quell’ultima mattina insieme, lo vidi armeggiare con il carrello della colazione appena portato dal cameriere. Mi porse il piattino con la mia solita fetta di Clafoutis, la mia torta preferita che ordinava appositamente per me. Questa volta in mezzo alle ciliegie un anello con un cuore luccicante, adamantino come la nostra passione, formulava una domanda ben precisa.
“Lascialo. E rimani con me.” Mi sussurrò all’orecchio. Più che una richiesta, una supplica. Lo guardai negli occhi: era sincero e triste, perché temeva la mia risposta. Conosceva tutte le implicazioni e gli impedimenti.
“Non me lo prepari il caffè stamattina?”
Il caffè? Vedevo le sue labbra muoversi in maniera sconnessa rispetto al sonoro.
“Non ti svegli, dormigliona?”
Ma io sono sveglia. Qualcosa però mi tirava la manica della vestaglia… o della maglietta sotto le coperte? Sollevai leggermente l’occhio destro, perché il mio cervello aveva subodorato la cruda realtà. Attraverso il velo delle ciglia, intravidi il cassettone consunto di fronte al vecchio letto e le tende verdi sbiadite alla finestra della nostra camera. Un sogno, era solo un sogno.
Poi una mano s’infilò sicura dentro le mie mutandine. Conoscevo quel tocco, delicato e imperioso al contempo. Pochi secondi e stavo già annaspando in cerca di ossigeno, le mie dita ancorate al cuscino per non scivolare giù, giù, sempre più giù. Proprio quando stavo per inondarmi di piacere, si bloccò, lasciandomi mugolante d’insoddisfazione.
“Ho la tua attenzione adesso?”
Spalancai gli occhi insofferente, ma lui era lì. Il blu del mare in tempesta mi osservava placido, un’onda alla volta. Qualcosa doveva essere successo se quest’uomo mi prendeva completamente anche nei sogni, dopo quindici anni di matrimonio e tre figli già grandi. Con un movimento repentino, mi rovesciai addosso a lui, bloccandolo al suo lato del materasso. Lo sfidai con lo sguardo mentre piano piano mi acquattavo sotto il lenzuolo, dentro i suoi boxer. Il caffè avrebbe aspettato.

 

 

La tormenta

di Filippo Ferraretto

I miei scarponi sprofondano nella neve fresca, i miei passi sono sempre più pesanti, la mia vista si sta annebbiando, la mia speranza si sta affievolendo. La tempesta graffia il mio viso, lo zaino spezza la mia schiena. Un’ombra squadrata risalta in lontananza, uso le mie ultime forze per avvinghiarmi all’idea di una casa, di un rifugio: incomincio ad avanzare più velocemente, in modo goffo e ridicolo, più di una volta mi ritrovo col viso immerso nel manto nevoso ma il mio istinto di sopravvivenza mi fa rialzare e continuare. Finalmente riesco a vedere distintamente il rifugio: una porta ed una piccola finestra sbarrate e le mura fatte di semplici mattoni. Busso, busso ancora e ancora, ma nessuno risponde, continuo a colpire la porta sempre più forte ma all’interno non sento niente. La mia forza svanisce, le mie gambe cedono e cado sulle ginocchia, la neve si accumula sulle mie spalle, freddi artigli strisciano sul mio viso, la mia testa sbatte sulla porta, che stavolta però si apre: un eremita mi aiuta ad entrare, mi leva lo zaino e mi distende sul suo giaciglio.
La casa è di un’unica stanza molto spartana: di fronte a me c’è un piccolo camino la cui fiamma sta venendo ravvivata. Sia la mia mente che il corpo sono distrutti perciò mi addormento in pochi minuti: i miei sogni non sono tranquilli ma incubi costellati da figure mostruose che mi attendono nella tormenta, lontane quanto basta per apparire come ombre ma vicine quanto basta per osservarmi con pazienza e crudeltà. Al mio risveglio la tormenta ancora imperversa, l’eremita mi ha preparato del cibo, che non riesco a riconoscere, provo a ringraziarlo ma parliamo lingue diverse e non riusciamo a capirci perciò penso che il massimo che possa are sia essergli cordiale ed accettare la sua ospitalità. Il suo cibo è insapore e con una strana consistenza ma la fame e la fatica lo fanno sembrare dolce quanto un clafoutis. La tempesta non accenna a smettere perciò il mio ospite prende un libro da un piccolo scaffale e lo apre sul tavolo: è scritto sempre in una lingua che non conosco ma sono presenti vari disegni da cui posso intuire cosa succede, sembra essere un libro sacro, riconosco scene che potrebbero appartenere ad una genesi ma oltre ciò non riesco a capire, alberi genealogici che potrebbero essere le discendenze degli dei, bardi che dilettano le divinità penso per avere grazie o benedizioni ma oltre a questo non capisco quasi niente; l’ eremita se ne accorge e mette via il libro per poi sporgersi dalla finestra: mi fa cenno di andare a vedere. La tormenta è cessata, il cielo è limpido e la visibilità è ritornata normale. Provo a ringraziarlo, lui sembra capire e dopo essermi ripreso me ne vado.
Procedo con convinzione ed ottimismo, il sole brillante nel cielo fa scintillare la neve adamantina; la scalata continua nella bellezza e misticità della montagna: ora un panorama inonda i miei occhi, ora ammiro un crepaccio di ghiaccio azzurro. Il cielo pian piano si avvicina e la strada che mi separa dalla cima si accorcia ad ogni mio passo, la fatica viene soffocata dalla magnificenza di questo luogo: al di sopra delle nuvole, fuori dalla nostra concezione. La maestosità del mondo mi riempie i polmoni mentre le gambe stanche compiono gli ultimi passi per la cima, finalmente riposeranno per un po’ ed anch’esse potranno bearsi di quanto siamo piccoli nel mondo, di quanto lo siano le nostre menti ed i nostri problemi.
Purtroppo non posso rimanere per sempre a contemplare il vuoto che tanto ci attira e che tanto ci spaventa: all’orizzonte grandi nuvole nere si avvicinano minacciose, devo sbrigarmi a scendere: il vento si è alzato e nonostante il giaccone la mia pelle è sempre più fredda. Con calma inizio la discesa per poi accelerare lentamente ma non basta: ormai il cielo ceruleo ha lasciato posto ad ammassi di corpi neri che mi osservano minacciosi, pronti a colpirmi con un’altra tormenta. La neve candida incomincia a fioccare, il vento si alza e come una spada mi trafigge senza ritegno, ciò che era mistico ora è cupo, ciò che ammiravo ora è letale, nessun luogo mi è più famigliare, nessun luogo mi distacca più dai problemi della vita, nessun luogo è più sicuro. La tormenta cresce, cresce e cresce fino a diventare una gabbia che mi racchiude impedendomi di fuggire. Dovunque provi ad andare mi sento sempre più perso e disorientato: mi ritrovo in una zona pianeggiante di cui non ricordo, la tempesta continua imperterrita, strane sagome si muovono intorno a me leggiadre ed eleganti danzando nella tormenta accompagnate dal vento. Queste sagome si riuniscono in una di fronte a me, troppo distante per vederla chiaramente e troppo vicina per far finta che non esista. Con un filo di voce chiedo aiuto ma il suono viene portato via dalla tempesta, quasi strisciando mi avvicino alla sagoma: diventa più distinta, più femminile, più aggraziata. Lunghi capelli bianchi le cadono sul viso coprendolo, non sta soffrendo il freddo come me; chiedo di nuovo aiuto, lei mi porge la sua mano: è fredda, fredda più del ghiaccio e pallida, pallida più della neve che sferza la mai pelle, la mia, la sua è liscia ed immacolata. Mi rialzo, più mi avvicino a lei più una sensazione di calore mi avvolge ma una di gelo si espande dentro di me, lei si sposta i capelli rivelando degli occhi impassibili color ghiaccio, le sue labbra sono sottili, la sua voce tagliente ma soave:- Ti dimenticheranno, ci dimenticheranno, tutti saranno dimenticati, il tuo nome sarà sopraffatto dalla sua stessa entropia, una persona diventerà solo un nome, un nome diventerà solo una parola, una parola diventerà niente, tu diventerai niente, tutti diventeremo niente; come la neve in una tempesta: è impossibile trovare un preciso fiocco di neve, nonostante siano tutti diversi tra di loro e come un fiocco di neve anche tu ti accascerai qui, finché non sarai portato via dal vento.- mentre parla le sue dita aggraziate mutano in acuminati artigli di ghiaccio – Non siamo altro che ondivaghi in una tempesta, temiamo ciò che ci circonda, ma senza ciò che ci circonda non saremmo altro che pazzi in un deserto. Resta qui, non sei stanco? Non hai freddo?- la sensazione di gelo che cresce dentro di me diventa più pungente mentre il calore che mi avvolge diventa ustionante –Non hai paura del freddo dentro di te? Non ti piace il calore? Qui sarai al sicuro … Qui il freddo non ti raggiungerà.- Il suo ghiaccio inizia ad avvolgermi la mano la quale è colta da una da un brivido di freddo, un freddo ustionante. Cerco di liberarmi ma la sua stretta si fa più potente, la mia speranza è stata congelata dal freddo che cerca di sopraffarmi dall’interno.
Mi affido a ciò che è rimasto della mia mente, mi offro al gelo: il ghiaccio che mi imprigionava si frantuma, lascio la donna cadaverica nella sua staticità ed indifferenza per addentrarmi nella tormenta che fa sanguinare le mie guance. Per almeno altre due ora sono in balia del vento e della neve, cerco di mantenere una direzione, ad ogni mio passo pianto gli scarponi nel terreno, più di una volta rischio di fare un passo che mi potrebbe essere fatale. Il mio corpo e la mia mente sono allo stremo, la tormenta incomincia a calmarsi, la speranza si riaccende in me: anche se non ho più forze residue allungo il passo e dopo pochi minuti intravedo delle altre sagome, delle tende, il campo base dove potrò finalmente riposare.

 

 

Colonia estiva: il racconto di una prigionia

di Marco Bottaro

ATTENZIONE: se qualcuno leggerà mai il mio diario di bordo, è pregato di farlo con un tono da carcerato ascoltando una colonna sonora drammatica.

Giorno di prigionia numero 1:
Eccomi qui, in un autobus con altri trentanove deportati, diretto alla più orribile di tutte le prigioni per ragazzi: la colonia estiva. Solo perché i miei genitori volevano un po’ di tempo per loro: canaglie! Devo fuggire da qui e gli altri ragazzi sembrano nutrire i miei stessi pensieri: forse potremmo aiutarci a vicenda.

Le nostre celle sono già pronte e presentano ancora i segni delle povere anime che le abitavano prima di noi: gomme da masticare di contrabbando nascoste nell’imbottitura dei materassi e le tacche incise sulla parete che segnavano lo scorrere dei giorni.

Il primo giorno si è svolto in maniera tranquilla, ad eccezione della sera, quando avviene un macabro rituale che consiste nel costringere i ragazzi del campo ad ascoltare dei suoni disumani, che dovrebbero essere i tormentoni dell’estate corrente, emessi da un adulto (poco probabilmente umano) che suona una chitarra scordata.
I risultati sono: una totale incapacità di dormire per il trauma subito ed il dover lavare i cuscini il giorno seguente per via del sangue perso dai timpani.

Giorno di prigionia numero 2:
Oggi la sveglia è scattata alle sei in punto e le guardie, vestite con la loro uniforme: pantaloncini color cachi e maglietta con il logo della colonia, hanno scortato noi prigionieri alla “mensa”.
Lo spettacolo che ho visto rimarrà scolpito nella mia memoria: quaranta ragazzi, ridotti a zombie dall’insonnia si dirigevano verso il banco delle vivande con moto ondivago ed erano costretti a mangiare dei cibi che qualunque cuoco non esiterebbe a classificare come rifiuto tossico.
La condizione non migliorò né a pranzo né a cena, la pasta sembrava argilla sia per aspetto sia per sapore, la carne aveva la consistenza della carta, con il risultato che provocava tagli alle labbra degli sfortunati che l’avevano assaggiata, in compenso potevi disegnarci sopra.
Le verdure poi, avrebbero potuto tranquillamente essere usate come armi chimiche.
L’unica cosa decente era il clafoutis: il dolce in sé aveva un sapore discreto, mentre le ciliegie erano dure come sassi (nonostante fossero immangiabili le abbiamo usate per giocare a biglie e per caricare le fionde).
Per fortuna tra noi ragazzi c’era un eroe che vendeva cibo di contrabbando ventiquattro ore su ventiquattro: eravamo talmente disperati che in un solo giorno ha acquisito denaro sufficiente per comprare un grattacielo a Montecarlo.
Dovrò smettere di scrivere per un po’ viste le ispezioni periodiche delle celle.

Giorno di prigionia numero 6:
Si registrano i primi segni di cedimento da parte di alcuni compagni che hanno avuto la brillante idea di scavalcare il muro e fuggire: naturalmente sono stati catturati subito e rispediti in cella senza cena ma questa “punizione” incoraggiò sempre più ragazzi a fuggire (in quanto evitare un pasto alla mensa è stato visto più come una benedizione), aumentando a dismisura il livello di entropia all’interno del campo.
Come loro, anche io ho nostalgia di casa, ma mi serve un piano, perciò continuerò ad essere il bardo della situazione, narrando le atrocità che dobbiamo subire.
In questi giorni sono iniziate le attività di gruppo: un subdolo stratagemma per privarci della nostra ora d’aria che consiste in torture di vario tipo.
Alcune torture sono fisiche, come lo sport intensivo, il cui unico scopo sembra prepararci per le olimpiadi, altre, come l’ascolto compulsivo di tormentoni estivi sono progettate per logorare lentamente il nostro spirito, ma la tortura peggiore combina queste due tipologie creando così i balli di gruppo; in cui ci si muove in maniera casuale ascoltando canzoncine per bambini di tre anni ottenendo come unico risultato la perdita totale della propria dignità.

Giorno di prigionia numero 7:
Oggi ho scoperto che non esiste limite al terrore in questa colonia, quando è arrivata l’ora delle docce, o meglio “la” doccia, una sola per quaranta ragazzi con l’acqua a meno venti gradi.
Alcuni ragazzi si sono ibernati e li scongeleranno alla fine del periodo del campo: che fortunati!
Dopo essere sopravvissuto all’ipotermia ho incontrato tre ragazzi e tra noi si è subito stabilito il classico legame di chi possiede dei traumi in comune.
Insieme abbiamo progettato lo scavo di una buca per passare sotto alla recinzione posteriore che ci porterà fuori di qui ed abbiamo radunato qualunque cosa potesse servire per scavare: badili
d’acciaio, palette di plastica, cucchiai, unghie finte ed abbiamo iniziato i lavori il più silenziosamente possibile.
Presto saremo a casa.
Sto finendo lo spazio per scrivere, perciò aggiornerò questo diario solo al termine dello scavo.
Auguro ai deportati ancora presenti nel campo ogni bene.
Addio.

Giorno di libertà numero 1:
Oggi, finalmente sono riuscito ad evadere dopo sette giorni di scavo, ma mentre stavo correndo verso la libertà, ho notato in lontananza un’automobile, color grigio adamantino, dei miei genitori venuti a prendermi per la fine del periodo in colonia.

Giornata normale:
Lascerò a chiunque troverà questo diario l’arduo compito di indovinare quante e quali imprecazioni snocciolai sul momento (non furono poche).
Saranno passati anni da quei giorni in pri…ehm, colonia ma ricordo ancora tutto nei minimi dettagli: le giornate passate a carbonizzarci al sole, le alleanze stipulate per garantire la sopravvivenza e soprattutto la magnifica sensazione, dopo aver lasciato quel luogo infernale di vedere tutto tornare alla normalità, eccetto me.

 

 

La fine di una crudele

di Riccardo Moncada

Finalmente ho realizzato: sono stronza come un uomo, e crudele, crudele come solo una donna può esserlo.
Da neanche un mese sono stata nominata dirigente di un reparto e già ho scompigliato il mondo. Alle mie dipendenze lavorano trenta impiegati, tutti uomini. La prima volta che mi hanno vista, sghignazzavano fra gomitate e sorrisi. L’idea di un capo in minigonna e tette, li eccitava. Adesso, fra lacrime d’odio, maledicono l’infausto giorno di mia madre e mio padre. Sono contenta di esercitare il potere su di loro, di trattarli come stracci. Occorre marcare le distanze per considerarli quel che sono: uomini inutili inetti. Devono soffrire come dei dannati, tacere ai miei ordini.
Sarò ai limiti del mobbing, ma ne sono felice.
I miei capi sono soddisfatti. Dal mio arrivo la produttività del reparto è schizzata a livelli mai raggiunti.
Il direttore, in confidenza, mi ha detto: «Brava, lei farà una brillante carriera.»
L’ho guardato di sottecchi. Godi coglione, sapessi con quanta voglia farei ruzzolare pure te giù dalle scale.
Seduta alla scrivania, a volte, mentre compilo giudizi punitivi e programmi sfiancanti, mi soffermo fra le carte. Avverto un ribrezzo verso me stessa. L’acido corrosivo del senso di colpa che sussurra: “Forse esageri, potrebbe essere diverso.”
Ma poi, il pensiero ondivago torna a condensarsi nel ribollire della rabbia, fra i solchi non sopiti del dolore.
Mio marito aveva una relazione stabile con un’altra donna, da tre anni ormai. Condivideva con me le abitudini, la forma; con lei la passione.
«Non ho amato nessuna così come amo lei», mi ha urlato in faccia mentre piangendo imploravo un disperato perché.
Stare con me e desiderare un’altra.
Negli attimi di abbandono, non riesco a reagire alla rassegnazione. Sono una donna perduta. Per questo devo proseguire la mia guerra. La devo a me, alle donne umiliate dalle menzogne di un uomo che pur giurando amore, ha tradito.
Fra tutti i miei sottoposti però, ce n’è uno che mi turba. Un bravo ragazzo, da poco sposato, gentile e disponibile con i colleghi martoriati. Sembra l’uomo perfetto. Quello premuroso e attento che ogni donna meriterebbe. L’ho preso volutamente di mira. Lo bacchetto anche senza colpe, quasi aspettassi un suo perché da urlarmi in faccia. Invece subisce a sguardo chino. Accetta la mia condanna con dignità.
A fine lavoro la moglie lo viene a prendere. Lui sale in auto, si baciano e nella libertà sorride, quasi chiudesse una porta alle sue spalle.
Stamattina il mio ex mi ha mandato un messaggio: “tu sei stata il più grande sbaglio della mia vita!”
Come si sopravvive a una ferita mortale?
Annientata fin dentro l’anima, avvertivo la necessità di reagire. Il mio sottoposto perfetto è in malattia da cinque giorni. Lo immaginai abbracciato a sua moglie, felice.
D’impulso afferrai il telefono. Non potendo colpire il mio ex, avrei potuto punire lui mandandogli l’ispezione medica a casa.
Le dita tremanti composero il numero. Con il cuore che rimbalzava forte dentro al petto attesi gli squilli…
«Pronto» intonò cupa la voce dell’ispettore sanitario. «Dottoressa, riconosco il numero. Mi dica, chi dobbiamo inculare questa volta?» Rise, volgare.
Rigida lungo la schiena chiusi gli occhi e abbassai la cornetta.
Non ero più in grado di contenere il fiume di dolore, che privo di argini penetrava fra i ricordi che in questi anni avevo provato a dimenticare.

Ero seduta al tavolino del bar, intenta a scrivere la tesi di laurea. Lui, raggiante, lindo nella sua divisa di cuoco, poggiò sul tavolino un piatto e una conchiglia.
«Cosa sono?» chiesi infastidita, fissando quello sconosciuto.
«Questa è la conchiglia che ho pescato oggi dal mare. Mentre nel piatto c’è una fetta di Clafoutis, la mia torta preferita, l’ho preparata appositamente per te.»
«Grazie, ma non posso accettare.»
«Hai mai guardato oltre la realtà apparente delle cose? Io l’ho fatto in questi giorni. Ti ho scrutata da quella finestra della cucina e mi sono innamorato di te. Non m’importa se tu non mi amerai. Io continuerò a guardarti e ad amarti. È questo ciò che desidera il mio cuore.»
«Non puoi amarmi, nemmeno mi conosci!»
«Per amare non occorre un perché. Si ama perché si ama.» Mi mandò un bacio con le dita e si voltò per rientrare.
«Sappi che sei il ragazzo più odioso che abbia mai conosciuto. E da oggi, per prenderti in giro, ti chiamerò come questa tua torta: Clafoutis.»
Lui impenitente sorrise: «Non chiedo di meglio, dolcissimo amore mio.»

L’ufficio riapparve nella sua luce grigia.
Il mio cuore smise di battere.
Come se il mondo fosse su di uno spigolo precario, mi alzai di scatto. Senza prendere la borsa e la giacchetta del tailleur, con la foga di una ladra corsi via sotto gli sguardi increduli dei miei sottoposti.
Fra i singhiozzi che sgretolavano le roccaforti del mio dolore, continuai a correre per strada.
«Clafoutis» sussurravo ai passanti che si scansavano.
«Clafoutis» urlai al semaforo rosso che voleva bloccare l’entropia dell’odio che come ruggine si scrostava dalla mia pelle.
Rapida, con i polmoni sovraccarichi di respiro, imboccai il lungomare.
Con un balzo saltai la ringhiera. I tacchi si conficcarono nella sabbia, caddi e a piedi nudi ripresi la mia ultima corsa verso il mare.
Clafoutis era lì, ad attendermi.
L’incontro di quell’estate. Il nostro primo bacio. Il ragazzo impertinente che ti stringe e che ti ama solo perché è amore. Clafoutis, lui, l’uomo che mentre annegavo fra la tempesta delle onde, ha rinunciato alla sua vita per salvare la mia.
Entrai nell’acqua.
Con l’impeto che non deve più risparmiare forze, bucai la coltre tinta di blu.
In quella dimensione ovattata, distante dai suoni e ogni altra materia, con i tailleur che mi affondava, fra le dune del deserto di sabbia del fondo, intravidi il bagliore adamantino di una conchiglia. In un ultimo sforzo tesi il corpo, allungai la mano e la strinsi, forte.
Sopra di me, oltre la volta delle acque vidi l’ultimo baluginio del sole.
Chiusi gli occhi, aprii la bocca: “Perdonami, amore mio.”

I sensi, torpidi, ripresero a fluire lentamente. Aprii gli occhi e fui accecata da una luce color panna.
Sopra di me, sagome scure si agitavano e mi scuotevano il corpo.
«Signora!»
«Signora!»
«Si sente bene?»
Sentii una mano forte battere sulla mia schiena e vomitai acqua salata.
«Signora… signora.»
«Respira, fermi respira.»
Attorno a me vidi un gruppo di giovani. I visi sbarbati, le mascelle pronunciate, le spalle forti.
Provai ad alzare il braccio. Era pesante. Uno di loro allungò la mano.
«Cerca questa, la conchiglia? La teneva stretta nel pugno.»
Annuii. Feci segno di volermi alzare.
L’uomo con la conchiglia delicatamente mi afferrò da sotto le ascelle e mi mise seduta.
In silenzio, guardandosi l’un l’altro, attesero che mi riprendessi.
«Adesso sto bene» dissi, «potete andare, grazie.»
Li vidi allontanarsi correndo lungo la battigia. Adesso avrebbero avuto qualcosa da raccontare.
Svuotata di tutto, restai a guardare il mare.
«Mi hai fatto spaventare» intonò una voce alle mie spalle.
Mi voltai. Uno di loro era rimasto a controllarmi.
Si sedette al mio fianco e giochicchiò con la conchiglia lanciandola da una mano all’altra.
«Che ci fai ancora qui?» dissi sgomenta. «Raggiungi i tuoi amici.»
«Loro se la caveranno, preferisco restare qui.»
«Perché?» indicai il mare. «Hai paura che mi butti di nuovo?»
«No… figurati…» piegò di lato la testa. «Invece sì. Sembri la classica matta disposta alla reiterazione.»
«Anche se fosse? A te cosa importa?»
«Sono stato io a tirarti fuori dalle onde.»
«Ti ho già ringraziato.»
«Non basta. Voglio essere certo che stai bene. E poi, diciamo che devo tutelare l’investimento della mia fatica.»
«Sei uno sciocco. Se volessi togliermi la vita di nuovo, potrei tornare domani e ti avrei fregato.»
«Vuol dire che aspetterò fino a domani. E se occorresse anche dopodomani e quello dopo ancora.»
«Non valgo le tue premure. Ti confesso un segreto: io sono una donna crudele.»
«Crudele quanto?»
«Parecchio. Odio tutti gli uomini e li tratto pure male.»
«Ciascuno ha i suoi difetti» mi diede un colpetto con la spalla e scoppiò a ridere.
Lo fissai per la prima volta. Era giovane… bello… troppo odioso per lasciargliela vinta.
«Vuoi andartene?»
«No.»
«Mi stai facendo stalking.»
«Stalking antisuicidio vostro onore, ho le attenuanti.» Scosse la testa. «Da qui non mi schiodo, arrenditi Donna Crudele.»
«Se vuoi provarci, sappi che non sono una milf e potrei essere tua madre.»
«Ma non sei una milf, così come non sei mia madre. E poi non potrei andarmene. Sei stata tu a farmi promettere di restare.»
«Io? Vaneggi!»
«Mentre ti riportavo a riva. Mi hai detto: Clafoutis, abbracciami forte. Non mi lasciare più, promettilo.»
Restai a bocca aperta. «Io, io… Ho detto questo? Non dovevo… e tu, tu non dovevi ascoltare… Ti prego, dimentica.»
«Mi dispiace. Si può dimenticare solo ciò che non si sa. A proposito, chi è questo formaggio di Clauu…»
«Clafoutis, è una torta.»
«Appunto, visto che dubito che una che sta annegando dica a una torta abbracciami, presumo che ti riferivi a un bardo giovane che…»
«Non posso dirti nulla. Ogni donna in fondo al proprio cuore custodisce segreti che non potrà mai confessare.»
«Le cose cambiano. Fossi passato da questa spiaggia un minuto troppo presto o un minuto troppo tardi, tu saresti morta annegata. Ciò che abbiamo vissuto o ciò che vivremo, tutto è connesso. Avevi scelto di morire, merito di sapere da cosa ti ho salvato. Magari ascoltandoti scoprirò qualcosa di me che non sapevo.»
«Tu sei matto!»
«Anche tu!»
«La mia… è una storia lunga.»
«Beh, se devo vegliarti oggi e domani e chissà per quanto… credo d’avere parecchio tempo!»
Fra i palmi delle mie mani, vi accucciò la conchiglia.
Strusciai il pollice su quel dorso rugoso sottratto al mare. Guardai il perpetuo rincorrersi delle onde. Scrutai l’uomo seduto al mio fianco. Lui sorrise e io… oltre i turbini che si infrangono fra gli specchi dell’odissea chiamata vita, dopo tanto, dopo tanto molto tempo, io sorrisi.

 

 

Il Gatto Bardo

di Lucia Filetti

L’autunno era alle porte e i gerani andavano messi al più presto a dimora. Nuvole oscure, foriere di tempesta, si affacciavano dal versante orientale del colle e questo era segno che l’estate era davvero giunta al termine. Una folata improvvisa di vento odoroso di pioggia ed elettricità aveva indotto Zelda ad alzare gli occhi.
Un rombo cupo scese dal cielo, interrompendo la malinconia dei ricordi. Elisabetta si affrettò a rialzarsi, senza dare retta alle lamentele della schiena. Chiuse il cancelletto dell’orto e, incespicando goffamente, attraversò il giardino. Il vento scuoteva il rosmarino che cresceva rigoglioso nella fioriera delle erbe officinali: le infiorescenze ormai rinsecchite dell’origano intrecciavano il loro profumo con quello del timo limonino.
L’anziana scrittrice entrò quasi correndo sotto il portico e avanzò nel tinello con passi incerti, che le conferivano un andamento ondivago. Quella mattina era intirizzita e indolenzita: aveva lavorato china nell’orto, per sistemare gli ultimi ortaggi, cavolfiori, broccoli, radicchio. Ne aveva raccolto davvero in quantità e per fortuna sua cugina Franca, esperta di rimedi erboristici e sperimentatrice di audaci ricette, le aveva girato via email le singolari indicazioni per una composta di radicchio da consumare con formaggi stagionati, quali un distitu o un tinnias sardi, che faceva arrivare da Dorgali ormai da trent’anni, da quando Corrado, suo marito, le aveva fatto scoprire quella terra aspra e generosa, profumata di mirto. Sorrise amaramente, pensando alle estati trascorse alla Maddalena o a Cala Gonone. Corrado era un brillante ingegnere. Aveva girato il mondo per lavoro e portava Elisabetta con lui. Lei era affascinata dalle persone che incontravano durante il peregrinare continuo da un continente ad un altro, innamorata della vita e di un uomo fantastico. Non avevano mai pensato ad avere un figlio e, quando avevano preso in considerazione la possibilità di farlo, era troppo tardi.
Elisabetta si tolse il cappello in paglia di Firenze e scosse i riccioli argentati che erano sfuggiti dall’elaborato chignon.
Aveva acquistato i pomodori verdi che arrivavano dalla Spagna. Le servivano per realizzare una ricettina che aveva letto in un romanzo francese: un clafoutis. Bastava mescolare insieme pochi ingredienti, accendere il forno e godersi la piacevole armonia di profumi che sarebbero scaturiti.
Ofelia, un pastore scozzese femmina, richiamò la sua attenzione: quella mattina era inquieta e scodinzolava avanti e indietro dalla recinzione al portico. Uggiolava. Abbaiava. Correva fuori di nuovo e di nuovo tornava in casa. Elisabetta non capiva l’ansia del cane: come si poteva star tranquilli così? Fuori si stava per scatenare un temporale coi fiocchi ed Ofelia non sentiva ragione: continuava a richiamare l’attenzione della sua umana verso il giardino. Infine, la padrona cedette: sotto il cespuglio odoroso di salvia, un piccolo fagottino nero rabbrividiva ad ogni soffio di vento. Ofelia la leccava con la sua lucida lingua rosa e la piccola creatura girò la testina verso un’incredula Elisabetta, aprì una piccola e umida bocca sdentata lasciando cane e padrona senza fiato: un gatto, anzi un micetto appena nato. La donna, emozionata, si raddrizzò e apri le labbra per chiamare il marito, ma la voce le morì in gola: Corrado era mancato a luglio e lei non si era ancora abituata all’idea. Quanto le mancava! Negli ultimi istanti di vita, prima di spirare, si era voltato verso di lei, pallido sul cuscino della loro stanza, mentre il medico era uscito dopo l’ennesima visita a casa loro, ormai un amico.
“Hai finito il romanzo su Taliesin il Bardo? Devo fare in tempo a leggerlo, sai che ci tengo ad essere io il primo.” Corrado era il suo critico più severo.
“Amore, finirà che, come Tomasi di Lampedusa, il mio romanzo verrà pubblicato postumo, se vado avanti di questo passo. Non ho spunti! Tante ricerche su antichi scritti e mi ritrovo arenata come una goletta su una secca”. Elisabetta sospirò.
“Tomasi di Lampedusa: è singolare che tu lo citi ora. Stavo pensando che, quest’anno, per cambiare, potevamo andare a trovare i nostri parenti in Sicilia.”. Ebbe un piccolo singulto ma continuò: “Però, Elisabetta, non lasciarti travolgere dal caos delle idee. Lo so come sei fatta e lo percepisco nell’aria: non smetti anche tu come il salto di entropia stia sconvolgendo l’aura che aleggia attorno a te?”
Inspirò a fatica e le rivolse un sorriso mesto: “Sei il mio Bardo preferito, Elisabetta. È tanto che te lo volevo dire, mio prezioso gioiello, con questi riflessi adamantini che brillano nei tuoi occhi e mi emozionano ogni volta! Non lasciare che questo ti scalfisca, promettimelo, Elisabetta!”
Una lacrima gli rigó il volto, trascinando via l’ultimo respiro.
Elisabetta guardò quel batuffolo nero come l’ebano e mormorò: “Tu, piccola creatura… ti chiamerai Gatto Bardo. Benvenuta nella nostra vita!” e avvolse il piccolo micetto nel suo grembiule a quadretti Vichy.
L’anziana scrittrice rientrò in casa, aprì il forno e pose il profumato clafoutis sul tavolo di legno. Era tardi, ma aprì lo scrittoio e riprese il romanzo di Taliesin, mentre Gatto Bardo le dormiva in grembo.

 

Comments (19)

Calogero

Set 06, 2018 at 1:22 PM Reply

Complimenti, Vecchio. Lessico e scorrevolezza del testo davvero invidiabili. A dimostrazione che si può scrivere bene anche senza inventare trame complesse e intrecci dedalei.
Spero di aver imparato qualcosa, ché sarebbe il caso di approfittarne.

IlVecchio

Set 06, 2018 at 5:45 PM Reply

Grazie. Vorrei dire esperienza, ma mi toccherà dire vecchiaia.

Calogero

Set 06, 2018 at 6:28 PM Reply

Troviamo un buon compromesso: anzianità di servizio mi sembra appropriato. 🙂

Calogero

Set 06, 2018 at 1:25 PM Reply

Ops, dimenticavo di farti un imbocca al lupo, Vecchio, o se preferisci… in quel posto alla balena. 🙂

IlVecchio

Set 06, 2018 at 5:46 PM Reply

E speriamo che il cetaceo non esali i suoi profondi effluvi proprio al passaggio.
Meglio il lupo. 🙂

Calogero

Set 06, 2018 at 1:43 PM Reply

Solo a titolo di critica non gratuita: si vede, Daniel, che sei preparato, tuttavia, secondo me, ci hai messo assai pompa e tecnicismi, con il risultato di renderlo troppo serioso (mi sembra di averne lette centomila di battute). Comunque mi pare che nel complesso sia scritto abbastanza bene.
Finale macabro, per chi riesce a cogliere le sfumature dello houmor nero.

In bocca al lupo anche a te.

Calogero

Set 06, 2018 at 2:02 PM Reply

@Agata: Non è esattamente lo stereotipo del racconto estivo, ma non c’erano paletti a riguardo.
Trasmette, rabbia e dolore. Bene! Uno scritto che trasmette sentimento vuol dire che è fatto bene.

Preferisci l’anteriore del lupo o il posteriore della balena? 😉

Barbara Businaro

Set 06, 2018 at 7:54 PM Reply

Ahi ahi ahi signor Calogero, lei mi distrae i concorrenti! O sta cercando di influenzare la giuria?
I giurati li abbiamo rinchiusi. Da tre mesi stanno in cambusa, climatizzata, ogni tanto arieggio anche, ma sono senza rete e contatto umano. Ricevono solo da me i racconti da leggere! 😀 😀 😀

Calogero

Set 06, 2018 at 11:05 PM Reply

I concorrenti hanno fatto molto prima di me, mi rimane ben poco da distrarre, oramai. Posso giusto fare spionaggio letterario celato da PR 😉 Lo dico senza modestia, il lavoro sotto copertura è la mia specialità, particolarmente nel periodo invernale.

La giuria è influenzabile? Grande notizia, spargerò la voce. Ai giurati piace il clafoutis? No, perché mia mamma lo fa benissimo… magari gradirebbero un assaggio. Tu hai ascendente sulla giuria (praticamente è la tua): ti piace il clafoutis ai millecucchi? In questo periodo sono a giusta maturazione.

Barbara Businaro

Set 07, 2018 at 11:55 AM Reply

La giuria tutta è a dieta, soprattutto di zuccheri, ti va male pure lì! 😛

Calogero

Set 07, 2018 at 9:50 PM Reply

@Minnie: ecco perché sconsiglio caldamente le vacanze separati (a meno che il/la compagno/a di vita non stia chiuso/a tra le mura di una solida cella per la durata della vacanza. (Ops, questo non avrei dovuto dirlo)).
Odio a morte i traditori in tutte le salse, leggere il tuo racconto mi ha sucitato davvero molto fastidio… Brava, ottimo lavoro 😉

Minnie

Set 08, 2018 at 10:24 AM Reply

Buongiorno e grazie. Se ha però suscitato fastidio temo di non aver scritto sufficientemente bene. Il tema non è il tradimento, al contrario qui c’è una donna talmente innamorata che pure nei sogni tradirebbe un marito immaginario (o l’idea di un matrimonio di costrizione) con il marito reale, al suo fianco da quindici anni.

Calogero

Set 08, 2018 at 5:31 PM Reply

Al contrario. Se la narrazzione degli eventi è riuscita addirittura a infastidirmi sta a significare, senza ombra di dubbio, che sei riuscita a coinvolgermi (in qualità di lettore), e quindi che hai lavorato bene; diversamente non saresti riuscita a conquistare il lettore che vive in me. Non commettere il gravissimo errore di sottovalutarti. La parola d’ordine è FIDUCIA, in te e nelle tue capacità, che con l’esercizio possono essere ulteriormente affinate.

Il tradimento, anche se non è il tema principale, comunque c’è, ed è l’elemento che suscita l’emozione più intensa. Più dell’amore.

Calogero

Set 08, 2018 at 5:41 PM Reply

Scusa, Minnie, ho dimenticato per ben due volte di farti un in bocca al lupo; spero per te e il Vecchio viaggiatore di panchine che sia un buon segno 🙂

Calogero

Set 08, 2018 at 5:38 PM Reply

Bravo Filippo. Se questo è il tuo primo racconto mi aspetto anche un secondo, un terzo, un quarto, fino alla stesura di un intero romanzo. E, mi raccomando, occhio ai refusi.

In bocca al lupo.

Calogero

Set 12, 2018 at 6:11 PM Reply

Bravo, Marco. Hai fatto della sagacia la tua arma più affilata. Esasperare i concetti, anche rasentando la comicità demenziale (grande invenzione!), è un ottimo sistema per spiegare in modo lampante anche a chi non riesce mai a capire.

In bocca al lupo. Anzi, no: mi sembri più tipo da balena… 😉

Barbara Businaro

Set 13, 2018 at 7:24 PM Reply

Il racconto di Marco mi ha fatto sorridere non poco, perché anch’io sono stata in colonia e caspita, pare che la prigionia sia proprio uguale per tutti!
E soprattutto non è cambiato nulla rispetto all’era geologica in cui ci sono stata io! 😀

Calogero

Set 12, 2018 at 7:04 PM Reply

@ Riccardo: non l’ho capita molto (forse mi aspettavo un finale diverso), comunque ha il suo perché.

In bocca al lupo per il contest.

Calogero

Set 12, 2018 at 7:12 PM Reply

@ Lucia: il tuo racconto ha un che di bucolico. Molto curato nei particolari. Complimenti e in bocca al lupo.

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