L'uomo nell'alto castello. The Man in the High Castle di Philip Dick

L’uomo nell’alto castello. The Man in the High Castle di Philip Dick

Sì, erano i giovani di questa nuova generazione emergente, senza il minimo ricordo dei tempi prima della guerra, e nemmeno della guerra stessa: erano loro la speranza del mondo. Per loro, la diversa provenienza non aveva alcuna importanza.
Finirà, pensò Childan. Prima o poi. L’idea stessa di provenienza. Non governati e governanti, ma persone.
L’uomo nell’alto castello, Philip Dick

Ci ho provato. E ci ho provato in tutti i modi. Volevo capire questo romanzo, comprenderne la filosofia e coglierne i segreti, trovare delle risposte, o quanto meno una direzione, ai diversi interrogativi che pone.
Probabilmente proprio perché il discorso era rimasto ancora aperto tra di noi, il libro vagava ancora tra la mia scrivania e il tavolino delle letture in attesa o incomplete. All’inizio era lì per ricordarmi che avevo una serie televisiva da vedere, ricavata proprio dalle sue pagine, e sulla quale contavo proprio per dipanare i miei dubbi. Dopo è rimasto ancora lì, incapace di trovare posto tra gli scaffali della mia libreria.
Dovevamo parlarci di nuovo. Soprattutto io dovevo scrivere le mie riflessioni qui sul blog, uno spazio che concedo solo a quei romanzi che mi hanno colpito in qualche modo, talvolta anche in senso negativo, ma ai quali non sono rimasta indifferente. Dunque, eccoci qua. Perché in questi giorni di una nuova Guerra fredda alle porte, L’uomo nell’alto castello è quanto mai tristemente attuale.

La proposta di una nuova lettura condivisa con Marina Guarneri e Darius Tred era arrivata in occasione del mio compleanno, l’11 dicembre 2023: Marina proponeva di leggere insieme questo romanzo di fantascienza che le avevano regalato tempo addietro, “La svastica sul sole” di Philip Dick. E voleva riprovare l’avventura della nostra lettura, con diversi punti di vista, della Guida galattica per gli autostoppisti. Conoscevo più o meno la storia di questo nuovo romanzo: comincia dal “E se la Germania nazista avesse vinto la guerra?” Pubblicato in Italia in primis come “La svastica sul sole” (la svastica per la Germania, il sole per il Sol Levante, il Giappone, le due potenze in lotta in questa storia), fu poi ristampato come “L’uomo nell’alto castello”, traduzione del titolo originale inglese, da cui la famosa serie su Amazon Prime “The Man in the High Castle”, con un cast di attori eccezionale, e di cui tutti, ma proprio tutti, me ne avevano parlato.
Nonostante la mia ritrosia iniziale, perché quello del Nazismo è un periodo storico che evito volentieri, per le atrocità e le sofferenze, abbiamo cominciato a leggere nella primavera successiva.

Un paio di note sul suo autore: Philip Dick è considerato da tutti come “lo scrittore che ha inventato il futuro”. Ha scritto 44 romanzi e circa 121 racconti, tutti del genere fantascienza, e molti dei quali sono diventati poi dei film di culto: dal suo romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? è stato tratto il celebre Blade Runner di Ridley Scott con Harrison Ford; Minority Report di Steven Spielberg con Tom Cruise è liberamente tratto dall’omonimo racconto Rapporto di minoranza, della raccolta Le presenze invisibili ; da un altro racconto della stessa antologia, Ricordiamo per voi, è stata ricavata la sceneggiatura di Total Recall – Atto di forza di Paul Verhoeven con Arnold Schwarzenegger; sempre dalla stessa antologia, il racconto Non saremo noi, ha ispirato il film Next diretto da Lee Tamahori con Nicolas Cage.
Uno scrittore prolifico di fantascienza, ma non solo: la sua narrativa ha esplorato varie questioni filosofiche e sociali, come la natura della realtà, la sua percezione, la natura umana e l’identità. Ha anche creato personaggi in lotta contro gli elementi, naturali e non, come realtà alternative, mondi illusori, corporazioni monopolistiche, diffusione e abuso di sostanze, governi autoritari e stati alterati di coscienza.

Uno dei romanzi più celebri Philip Dick è proprio L’uomo nell’alto castello, pubblicato per la prima volta nel 1962 e vincitore del Premio Hugo nell’anno successivo. Questo libro è considerato una delle ucronie più influenti della letteratura contemporanea, un romanzo di storia alternativa dove Philip Dick immagina un mondo in cui le potenze dell’Asse hanno vinto la Seconda guerra mondiale. Siamo nel 1962, quindici anni dopo la fine della guerra nel 1947, in quelli che furono gli Stati Uniti, ora divisi in quattro nazioni distinte: il Giappone imperiale governa gli Stati Americani del Pacifico; ad est la Germania nazista mantiene formalmente il nome di Stati Uniti d’America per i territori del nord, mentre gli stati meridionali, considerati più razzisti, sono chiamati solo “il Sud”; in mezzo gli Stati delle Montagne Rocciose, politicamente neutrali e rifugio degli americani liberi, agiscono da cuscinetto tra le altre due zone occupate verso le coste. In questa suddivisione cupa e oppressiva, da una parta quanto dall’altra, sopravvivono diversi personaggi, adattandosi all’ideologia totalitaria e al rigido controllo sociale. Il titolo al libro, L’uomo nell’alto castello, si riferisce ad un misterioso scrittore diventato popolare per aver pubblicato un romanzo proibito, La locusta si trascinerà a stento (in altre traduzioni è La cavalletta non si alzerà più), dove egli racconta una storia alternativa e sovversiva della guerra, per la quale gli Alleati hanno vinto la guerra, Germania e Giappone sarebbero stati sconfitti. Un romanzo ucronico all’interno di un romanzo ucronico, questo lo rende interessante.

Ancora più particolare è la presenza dell’I-Ching, l’antico Libro dei Mutamenti, in questo contesto.
Nei Ringraziamenti dell’autore è citata infatti la versione dell’I-Ching tradotta in tedesco da Richard Wilhelm, in seguito resa in inglese da Cary F.Barnes e pubblicata nel 1950 dalla Bollingen Foundation. Philip Dick ha infatti utilizzato l’I-Ching in due diversi contesti: come romanziere, per elaborare i temi, la trama e la storia di The Man in the High Castle; come i suoi personaggi, che consultano a loro volta l’antico libro per guidare le proprie decisioni all’interno della storia stessa. Lo stesso scrittore, nella sua vita quotidiana, si era appassionato alla saggezza dell’oracolo cinese da affidargli le questioni più importanti, compresa la scelta di una nuova auto per la famiglia o l’apertura di un negozio di bigiotteria per la moglie Anne, e pure quelle più effimere, come la marca dei cereali per colazione.
Così anch’io, per capire meglio gli esagrammi contenuti nel romanzo di Philip Dick, mi sono minuta dell’I Ching, con una traduzione in italiano di Bruno Veneziani e A.G.Ferrara per Adelphi Edizioni. Nemmeno ricordo come mai ce l’ho dentro la mia libreria…

Per la lettura condivisa invece ho acquistato L’uomo nell’alto castello nell’edizione di Mondadori, Oscar Moderni Cult, con la statua della libertà in copertina. Stavo cercando la copertina con l’orologio da polso di Topolino (che cavolo mai significherà, mi chiedevo) ma poi in negozio mi attendeva quest’altra. L’ho presa per la fascetta di colore Pink Barbie che annunciava la prefazione di Emmanuel Carrère. Ho pensato fosse un segno per la sottoscritta, che quel giorno aveva lo smalto delle unghie proprio della stessa tonalità (no, non ridete! Philip Dick ha scritto un romanzo consultando un oracolo e io non posso scegliere un libro seguendo il mio smalto?! 😀 )

Poi abbiamo cominciato la nostra lettura condivisa, scambiandoci via mail le prime impressioni, dall’incipit al capitolo 2 per entrare nella storia, e dandoci appuntamento all’incirca ogni cinque capitoli, visto che il romanzo ne comprende 15 alquanto lunghi, per le successive riflessioni. Questa volta ci siamo trovati alquanto d’accordo, sia sulle sensazioni che ci lasciavano quelle pagine, sulle difficoltà riscontrate tra ambientazione e stile dell’autore e sui tanti dubbi che ci rimanevano alla fine.
Come resoconto della nostra avventura potete leggere i post già pubblicati dai miei colleghi nei loro blog: Marina Guarneri con il suo Lo so io dove la metterei la svastica! – Lettura condivisa di “La svastica sul sole” di Philip K. Dick e Darius Tred con La trama debole di Philip.

Le mie conclusioni le avevo invece rimandate al termine dell’estate, riservandomi il tentativo di vedere la serie televisiva The Man in the High Castle prodotta da Amazon Prime nel 2015. Me ne avevano davvero parlato in tanti di quella serie, 4 stagioni complete per un totale di 40 episodi, acclamata anche dalla critica internazionale per l’ottimo sviluppo di un romanzo così complesso. Speravo quindi di trovare lì quelle linee di collegamento che mi erano mancate durante la lettura.
Come dicevo all’inizio, io ci ho provato. Eccomi dunque qui con il mio resoconto completo.

Intanto, il motivo per cui su alcune copertine italiane compare quell’orologio da polso di Topolino lo scopriamo all’incirca a pagina 50 del romanzo. Perché Topolino è un simbolo, rappresenta la spensieratezza dell’infanzia, insieme a quel vecchio sogno americano, di magia e grandezza…

«Signore, desidero ringraziarla con un dono» disse il signor Tagomi.
«Prego?» fece Baynes.
«Per accattivarmi la sua benevolenza.» Il signor Tagomi infilò una mano nella tasca del paltò e tirò fuori una piccola scatola. «Scelto fra i più raffinati objets d’art disponibili in America.» Gli porse la scatola.
«Be’,» disse Baynes. «Grazie.» E la accettò.
«Svariati funzionari hanno vagliato le alternative per tutto il pomeriggio» spiegò Tagomi. «Questo è un pezzo assolutamente autentico della vecchia e morente cultura degli Stati Uniti, un raro manufatto che conserva ancora il sapore dei giorni felici di un tempo.»
Il signor Baynes aprì la scatola. All’interno, poggiato su un cuscinetto di velluto nero, c’era un orologio da polso di Topolino.
Forse il signor Tagomi era in vena di scherzi? Sollevò lo sguardo e vide il volto teso, ansioso del funzionario giapponese. No, nessuno scherzo. «Grazie infinite» disse Baynes. «È davvero straordinario.»
«Di autentici orologi di Topolino del 1938 come questo ne sono rimasti pochissimi, forse dieci in tutto il mondo» illustrò il signor Tagomi studiandolo, assimilando con avidità la sua reazione, il suo apprezzamento. «Nessun collezionista di mia conoscenza ne possiede uno, signore.»

La svastica sul sole di Philip Dick. Fanucci Editore

L’uomo nell’alto castello
o La svastica sul sole

Siamo a San Francisco, negli Stati Uniti del Pacifico, nel 1962. Qui conosciamo Robert Childan, proprietario di un negozio di antiquariato specializzato in oggetti americani per una clientela giapponese, uomini d’affari che usano i manufatti culturali dei vecchi Stati Uniti come fossero opere d’arte contemporanea, per stabilire il loro stato sociale in questa nuova realtà. Uno dei suoi maggiori clienti è Nobusuke Tagomi, giapponese di Hokkaido, funzionario commerciale di alto rango, che cerca un regalo per una visita importante, un industriale svedese di nome Baynes in arrivo dall’Europa.
Nella stessa città conosciamo Frank Frink, un ebreo nascosto, veterano di guerra, operaio appena licenziato dalla fabbrica di metalli Wyndam-Matson. Rimasto senza lavoro, sembra per alcuni oggetti d’antiquariato contraffatti, accetta di avviare un’attività di produzione e vendita di gioielli con il suo ex collega Ed McCarthy. Nel frattempo ripensa a sua moglie Juliana, che lo ha lasciato per rifugiarsi negli Stati delle Montagne Rocciose.

I primi due capitoli sono uno scoglio da superare: mi incuriosiscono alquanto, ma ho delle difficoltà oggettive a seguire la storia, perché mi mancano alcuni concetti basilari per comprenderla. Sto provando anche a tenere l’I-Ching sottomano, per controllare gli esagrammi, ma non è che ci si capisca molto altro. I responsi dell’oracolo sono troppo criptici, non sembrano davvero fornire una direzione per una scelta. L’interpretazione stessa mi pare dipendente dall’umore del personaggio.
Soprattutto manca, a mio avviso, una mappa geopolitica, una semplice mappa che mostri come si sono suddivisi i territori in questa ucronia. Lo so che se cerco in rete la trovo, banalmente anche su Wikipedia, ma secondo me doveva essere l’autore a inserirla in appendice. Proprio come fece J.R.R. Tolkien con le sue mappe della Terra di Mezzo per Il Signore degli Anelli.
E il riferimento al nostro italiano Pinocchio? I “pinoc” sono i pupazzi del governo degli Pacific States of America (ho verificato nella versione inglese: “the puppet white government at Sacramento”) e usano proprio un’abbreviazione di Pinocchio per indicare il pupazzo. Non so se esserne orgogliosa, suona comunque come offensivo.
Proseguo fino al capitolo 5, lasciandomi anche trascinare finalmente dentro la trama. Provo un brivido quando Frank Frink racconta di quanto accaduto in Africa.

E poi pensò all’Africa, e all’esperimento nazista che portavano avanti laggiù. Il sangue gli si bloccò nelle vene, ed esitò un momento prima di riprendere a scorrere.
Quella immensa, desolata rovina. […]
Cristosanto!, disse fra sé. L’Africa. Per tutti gli spiriti delle tribù defunte. Spazzate via per farne una terra di… di cosa? Qualcuno lo sapeva? Forse perfino i sommi architetti di Berlino non lo sapevano. Un branco di automi, laggiù, a costruire e a sgobbare. Costruire? A frantumare, semmai. Orchi usciti da una mostra di paleontologia, tutti presi a ricavare una tazza dal teschio del nemico, con l’intera famiglia che si industriava a raschiarne il contenuto, ovvero il cervello, per divorarlo crudo. Per non parlare dei preziosi utensili con le ossa delle gambe degli uomini. Ottimo senso di parsimonia, pensare non solo di mangiare quelli che non ti andavano a genio, ma di farlo dal loro stesso cranio. Tecnici dei primordi! L’uomo preistorico nel camice bianco e sterile di un qualche laboratorio dell’Università di Berlino, impegnato in esperimenti sui possibili usi cui destinare cranio, epidermide, orecchie e grasso di altre persone. Ja, Herr Doktor. Un nuovo utilizzo dell’alluce, vedete, è possibile adattare la giuntura per il meccanismo a scatto di un accendino. Ora, se solo Herr Krupp riuscisse a produrne in quantità…
Un pensiero che lo fece inorridire: l’antico, gigantesco cannibale, quasi-uomo adesso prosperava e tornava a governare il mondo. Abbiamo passato un milione di anni a fuggire da lui, e ora eccolo di nuovo qui. E non come semplice avversario… ma come padrone.

The Man in the High Castle - Mappa degli USA da Wikimedia Commons
The Man in the High Castle – Mappa degli USA da Wikimedia Commons

 

Nelle pagine seguenti ci spostiamo a Canon City, negli Stati delle Montagne Rocciose, dove vive Juliana Frink, l’ex moglie di Frank che lavora come insegnante di judo, in attesa di qualcosa non ben definito nel suo futuro. In un bar del luogo conosce Joe Cinnadella, un camionista italiano di passaggio e reduce di guerra, proprio delle battaglie svoltesi in Africa. Si fermerà in città e anche nell’appartamento di lei, prima di intraprendere insieme un lungo viaggio verso il Nord.
A San Francisco intanto è atterrato il signor Baynes dalla Svezia, per incontrare non solo il signor Tagomi, ma una terza misteriosa parte in arrivo proprio dal Giappone. Intanto viene avviata la produzione di gioielli di Frank Frink e Ed McCarthy e nel capitolo 4 ci spiegano diverse sfaccettature della produzione di falsi storici, manufatti che poi finiscono purtroppo anche nel negozio di Robert Childan. Si direbbe tutto collegato tra i diversi personaggi, anche quando appaiono come semplici coincidenze. Infatti Philip Dick cita pure la Teoria della sincronicità ma la attribuisce ai fisici, invece che a Carl Jung, padre della psicoanalisi. Un errore voluto oppure una banale svista?

Dopo questi primi 5 capitoli, devo dire che la trama mi sta quasi prendendo. Oltre all’ambientazione particolare e alla differenza introspettiva dei diversi personaggi, c’è la questione dei falsi storici, tra il negozio di Childan e la fabbrica di Wyndam Matson, che ho trovato intrigante. Forse la chiave è lì o forse no. Poi questo signor Baynes dalla Svezia, che non sa parlare nè tedesco nè svedese. Potrebbe una spia o un fuggitivo? E poi la storia tra Juliana Frink e l’italiano Joe Cinnadella, definito un wop, termine dispregiativo usato dagli americani verso gli immigrati italiani (anche questa è una scoperta per me).
La domanda però è: dove vuole andare a parare l’autore?!
Penso che lo snodo centrale sia nel libro La locusta si trascinerà a stento di Hawthorne Abendsen (in altre traduzioni diventa La cavalletta non si alzerà più), che ci viene presentato nel capitolo 5, quando Rita, l’amante di Wyndam Matson, scorge una copia del romanzo nella sua libreria e gli chiede se lo ha letto. Il titolo è un riferimento alla Bibbia, dal libro dell’Ecclesiaste: “quando si avrà paura delle alture e degli spauracchi della strada; quando fiorirà il mandorlo e la locusta si trascinerà a stento, e il cappero non avrà più effetto, poiché l’uomo se ne va nella dimora eterna e i piagnoni si aggirano per la strada;” Mi sfugge però perché sia stato preso proprio questo passo, all’interno dell’Ecclesiaste, una lunga riflessione sulla contrapposizione del bene e del male, dal tono un po’ pessimista, o quanto meno fatalista.

Hanno un problema con il sesso, decise: negli anni Trenta, hanno fatto del sesso qualcosa di disgustoso, e poi la cosa è andata peggiorando. E’ stato Hitler a cominciare, con… chi era lei? La sorella? La zia? La nipote? E la sua era già una famiglia endogamica, sua madre e suo padre erano cugini. Tutti loro commettono incesto, tornando al peccato originale di bramare le proprie madri. Ecco perché quelle checche d’élite delle SS sfoderano quegli angelici sorrisi melensi, quella bionda innocenza infantile. Si stanno preservando per mammina. O l’uno per l’altro.
E chi è mammina per loro?, si chiese. Il leader, Herr Bormann, che pare stia morendo? O… l’Ammalato.
Il vecchio Adolf, che si dice sia in una casa di cura da qualche parte, a vivere i suoi ultimi anni in paresi senile. Sifilide cerebrale, risalente ai suoi miseri giorni da barbone, a Vienna… Un lungo pastrano nero, biancheria sudicia, albergacci di infimo ordine.
Era la vendetta beffarda di Dio, ovviamente, uscita da qualche film muto. Quell’uomo orribile falciato da una lordura interiore, storico flagello della depravazione umana.
E che l’attuale Impero Tedesco fosse un prodotto di quel cervello era l’aspetto più tremendo. Prima un partito politico, poi una nazione, e infine la metà del mondo. Ed erano stati i nazisti stessi a diagnosticare la malattia, a individuarla. Quel ciarlatano d’un erborista che aveva curato Hitler, quel dottor Morell che gli aveva somministrato dosi di un rimedio miracoloso chiamato “pillole antigas del dottor Koester”, in origine era stato uno specialista di malattie veneree. Lo sapevano tutti, eppure i discorsi a vanvera del Leader erano ancora sacri, ancora presi per Vangelo. Visioni che avevano ormai infettato un’intera civiltà, e adesso quelle bionde, accecate checche naziste stavano sciamando dalla Terra verso gli altri pianeti, diffondendo il contagio come spore maligne.
Questo si eredita dall’incesto: follia, cecità, morte.

Io sono prossimo a quest’uomo in termini razziali? si domandò Baynes. Al punto da essere simile sotto ogni aspetto? Allora, c’è anche in me quella vena psicotica. Quello in cui viviamo è un mondo psicotico. I pazzi sono al potere. Da quanto tempo è che lo sappiamo? Da quant’è che ci facciamo i conti? E… quanti di noi lo sanno? Lotze, no di certo. Forse se sai di essere pazzo, allora pazzo non sei. Oppuredalla pazzia stai finalmente guarendo. Ti stai svegliando. Immagino che ben pochi siano consapevoli di questo. Qualche persona, qua e là. Ma le grandi masse… Che cosa pensano? Le centinaia di migliaia che vivono qui in questa città. Credono forse di vivere in un mondo sano di mente? O non scorgono, invece, anche solo fugacemente, la verità?
E poi, rifletté, che significa “pazzo”? È una definizione legale. E per me, cosa significa? La percepisco, la pazzia, la vedo, ma che cos’è?
È qualcosa che fanno, qualcosa che sono. È la loro inconsapevolezza. La loro scarsa cognizione degli altri. La loro incapacità di rendersi conto di quello che fanno al prossimo, della distruzione che hanno causato e che continuano a causare. No, pensò. Non è questo. Io non lo so, però lo avverto, lo intuisco. Ma la loro è una crudeltà… intenzionale… è questo, forse? No. Dio, pensò, non riesco ad afferrarlo, a fissarlo con chiarezza. Ignorano parti della realtà? Sì. Però c’è di più. Sono i loro progetti. Certo, i loro progetti. La conquista di altri pianeti. Una frenetica follia, com’è stata la loro conquista dell’Africa, e prima ancora quella dell’Europa e dell’Asia.

«Dovresti leggerlo.»
Con l’aria ancora contrariata, afferrò il libro e gli gettò un’occhiata. La locusta si trascinerà a stento. «Non è uno di quei libri proibiti a Boston?»
«Proibiti in tutti gli Stati Uniti. E in Europa, naturalmente.» Si era diretta alla porta, adesso, fermandosi in attesa. […]
«Ho sentito parlare di Hawthorne Abendsen», disse lui, ma in realtà non era vero. Tutto quello che ricordava del libro era… be’. Che in quel momento era di gran moda.[…]
«È una storia di guerra.» Mentre camminavano verso l’ascensore, aggiunse: «Dice la stessa cosa che dicevano mia madre e mio padre.»[…] «La sua teoria è questa. Se Joe Zangara lo avesse mancato, lui avrebbe tirato fuori l’America dalla Grande Depressione e l’avrebbe armata, così che…» S’interruppe. […]
«La teoria di Abendsen è che Roosevelt sarebbe stato un presidente straordinariamente energico. Almeno quanto Lincoln. Lo dimostrò durante il suo unico anno di presidenza, con tutte le misure che introdusse. Il libro è fiction. Nel senso che è in forma di romanzo. Roosevelt non viene assassinato a Miami, sopravvive e viene rieletto nel 1936, sicché è presidente fino al 1940, fino a guerra iniziata. Non capisci? È ancora presidente quando la Germania attacca l’Inghilterra, la Francia e la Polonia. E lui assiste a tutto. Con la sua guida l’America si fa forte. Garner è stato un presidente davvero pessimo.
Molto di quanto è successo è colpa sua. E poi nel 1940, al posto di Bricker, sarebbe stato eletto un democratico…»
«Sempre secondo questo Abelson» la interruppe Wyndham-Matson.[…]
«La sua idea è che nel 1940, dopo Roosevelt, invece di un isolazionista come Bricker sarebbe diventato presidente Rexford Tugwell.» Le luci del traffico si riflettevano sul suo bel viso liscio,illuminato dalla vivacità: gli occhi si erano fatti più grandi, e parlava gesticolando animatamente. «E sarebbe stato molto attivo nel proseguire la politica antinazista di Roosevelt. Pertanto la Germania avrebbe avuto paura ad accorrere in aiuto del Giappone nel 1941. Non avrebbero onorato il loro trattato. Capisci?» Si girò sul sedile verso di lui e, afferrandogli con forza la spalla, aggiunse, «E quindi, Germania e Giappone avrebbero perso la guerra!»
Lui scoppiò a ridere.

The Man in the High Castle - Mappa del mondo da Wikimedia Commons
The Man in the High Castle – Mappa del mondo da Wikimedia Commons (clicca per ingrandire)

 

Mi fermo poco dopo il capitolo 7 per sfogare la mia frustrazione. Perché mi sta bene l’utilizzo dell’I-Ching all’interno del romanzo, ma va spiegato meglio a un lettore completamente digiuno della materia. L’I-Ching è un antico libro divinatorio cinese, quelli che sono riportati sono gli esagrammi (perché vengono disegnate 6 linee), e combinazioni possibili sono 64 e quindi c’è un elenco di 64 “disegni” con i relativi responsi. E’ tuttora considerato un libro di saggezza e studiato anche dal punto di vista filosofico-matematico. Premetto che non vado a leggere nel mio I-Ching perché sia proprio necessario, ma solo per mia curiosità personale. Spero che la spiegazione degli esagrammi mi aiuti a capire meglio la trama, perché troppi concetti sono dati per scontati. Ad esempio, conoscevo solo il metodo dei lanci delle 3 monete, ma c’è anche quello dei bastoncini di Achillea. Solo che né Philip Dick né la mia edizione dell’I-Ching spiegano bene questo procedimento. Il risultato è questa serie di linee, alcune fisse (un trattino lungo) e alcune mobili (due trattini o una linea spezzata), impilate una sopra l’altra. Se ci sono solo linee fisse, è un responso statico. La presenza di linee mobili indica un movimento, un evolversi, anche se non sappiamo bene in che direzione. Leggendo poi sulla mia copia dell’I-Ching i vari significati, tutti in forma straordinariamente poetica, in quanto ad affidabilità, mi sembra peggio dell’oroscopo! Qualcosa ci azzecca, ma chissà cosa!!

Un’altra difficoltà che riscontro riguarda il particolare periodo storico. Non conoscendo così bene la storia delle due guerre mondiali e del periodo nazista, soprattutto per distinguere i personaggi di finzione da quelli realmente esistiti, a capo di questo o di quell’altro organismo militare, fatico a comprendere la parte politica del romanzo. Quindi devo documentarmi per forza per conto mio, interrompendo così la lettura. Come andava inserita una mappa geopolitica, anche un’appendice con una biografia striminzita di questi personaggi sarebbe stata un valido aiuto per il lettore. Cercando banalmente su Wikipedia, leggo che Herr Bormann era il vero segretario personale di Hitler, Goebbels  era un altro fedelissimo di Hitler, considerato il numero due del nazismo. Heydrich, Göring e pure Seyss-Inquart sono tutti realmente esistiti. Ma se Philip Dick abbia o meno rispettato il loro profilo storico, questo non lo so proprio dire.
Poi si ritorna a parlare dell’Africa e qui faccio fatica, mi si rivoltano proprio le viscere, sebbene non ci siano dettagli concreti. Lo scrittore ci lascia intuire, per confronto agli orrori che conosciamo dai nostri libri di Storia sul nazismo, quello vero, quanto più grandi siano quelli della sua ucronia.

«Nella nostra società non abbiamo risolto il problema degli anziani, il cui numero accresce di pari passo al progresso dell’assistenza sanitaria. La Cina, giustamente, ci insegna a onorare i vecchi. Tuttavia, i tedeschi fanno apparire la nostra negligenza un’assoluta virtù. Mi risulta che loro i vecchi li eliminano.»
«I tedeschi,» mormorò Baynes, massaggiandosi di nuovo la fronte. Aveva fatto qualche effetto quella pastiglia? Provava un certo sopore.
«Essendo della Scandinavia, senza dubbio lei ha avuto frequenti contatti con Festung Europa. Per esempio, si è imbarcato a Tempelhof. Come si può adottare un simile atteggiamento? Lei è neutrale. Mi dia la sua opinione, se lo ritiene.»
«Non capisco do quale atteggiamento stia parlando» disse Baynes.
«Di quello verso i vecchi, gli infermi, i deboli, i malati di mente, gli inutili in tutte le varianti. “A che serve un bambino appena nato?” si dice che abbia chiesto un filosofo anglosassone. Ho affidato questa domanda alla mia memoria e ci ho meditato sopra di frequente. Signore, non serve a niente. In linea di massima.»
Baynes emise un mormorio, facendone un suono di evasiva cortesia.
«Non è forse vero» proseguì il signor Tagomi, «che nessun uomo dovrebbe essere lo strumento per i bisogni di un altro?» Si protese in avanti, con insistenza. «La prego, mi dia la sua opinione di scandinavo neutrale.»
«Non lo so» rispose Baynes.

Questo sembra in qualche modo prepararci a quanto racconta poco più avanti il giovane Joe Cinnadella, lasciando intendere una mostruosità senza limiti:

Dopo poco gli servì un piatto con bacon e uova, pane tostato e marmellata, e caffè. Lui cominciò subito a mangiare.
«Che cosa ti davano in Nordafrica?» gli chiese lei, sedendosi.
«Asino morto» rispose Joe.
«Rivoltante.»
Con un ghigno storto, Joe spiegò: «”Asino Morto”. Le lattine di carne di manzo riportavano stampate le iniziali AM. I tedeschi le chiamavano Alter Mann. Vecchio Uomo.»
Poi riprese a mangiare con voracità.

L’ho fatto di nuovo, si rimproverò Robert Childan. Impossibile aggirare l’argomento. E’ ovunque: in un libro che mi capita fra le mani o in una collezione di dischi, in questi portatovaglioli di osso… Un bottino accumulato dai conquistatori. Saccheggiato alla mia gente.
Guardiamo i fatti. Cerco di fingere che questi giapponesi siano uguali a me. Ma nota bene: anche quando dichiaro la mia soddisfazione per il fatto che loro hanno vinto la guerra, mentre il mio paese l’ha persa… non troviamo comunque un punto d’incontro. Ciò che le parole significano per me è in netto contrasto con il loro modo di pensare. Hanno un cervello diverso. E così anche l’anima. Li vedi bere dalle tazzine di fine porcellana inglese, mangiare con posate d’argento americane, ascoltare la musica dei negri. Non è che superficiale. Dispongono di tutto questo grazie alla ricchezza e al potere ma, quant’è vero iddio, è pura e semplice contraffazione.
Perfino l’I Ching, che ci hanno fatto ingoiare a forza è cinese. Preso a prestito da un lontanissimo passato. Chi vogliono ingannare? Se stessi? Rubacchiano usanze a destra e a manca, il modo di vestire, di mangiare, di parlare, di camminare, come per esempio il gusto per le patate al forno servite con panna acida ed erba cipollina, un piatto dell’antica tradizione americana che hanno aggiunto al loro bottino. Ma non ci casca nessuno, potete credermi: e io meno di tutti.
Solo le razze bianche sono dotate di creatività, rifletté. Eppure io, sangue del sangue di queste razze, devo chinare il capo fino a terra per questi due. Pensa come sarebbe stato se avessimo vinto noi! Li cancellati dall’universo. Niente più Giappone, con gli Stati Uniti d’America quale unica, splendente potenza del mondo intero.

Ci fermiamo al termine del capitolo 10 per fare il punto della nostra lettura. Queste sono le mie impressioni a caldo:
1. Posso definirlo “interessante” come romanzo, ma superata la metà del libro sto cominciando a chiedermi perché è definito un “cult”. A meno di sconvolgimenti eccezionali degli ultimi 5 capitoli che ci mancano, non capisco l’aurea attorno a questo romanzo. Mah.
2. Robert Childan, che all’inizio mi sembrava un pavido alla Don Abbondio, vaso di terracotta americano in mezzo ai vasi di ferro giapponesi, ora mi risulta veramente antipatico. Viscido e subdolo, opportunista negli affari quanto con le persone.
3. Joe Cinnadella è un colpo al cuore. Per un attimo ci avevo sperato, come eroe romantico della storia. Italiano per giunta. Vista quella penna nascosta nella borsa e i tanti soldi a sua disposizione senza un vero lavoro, mi era balenata l’idea fosse lui quell’Abendsen che ha scritto il “romanzo nel romanzo”, La locusta si trascinerà a stento. Peccato. Anche se fino all’ultima pagina non è detto.
Confido di non arrivare a un finale scontato o, peggio ancora, incomprensibile. Come l’ultimo episodio della serie televisiva Lost, che ancora oggi non ho capito (e nessuno può, è volutamente aperta a qualsiasi infinita interpretazione) ma continua a mietere lunghe discussioni tra gli amici.

Una curiosità: per caso, ma proprio per caso, ho scoperto che uno dei miei film romantici preferiti, I guardiani del destino, con Matt Damon ed Emily Blunt (e una colonna sonora favolosa!!) è basato sul racconto Squadra riparazioni di Philip Dick. Beh, hanno ripreso solo una scena, via, il resto è tutto ricamo, ma che ricamo! Ma sto Philip Dick, non era meglio se scriveva romance… visto il cognome?! 😀

 

 

Tra le nostre riflessioni, arriva una domanda di Marina: se vi chiedessi “di cosa parla questo libro?”, in poche righe voi come mi rispondereste?
Di cosa parla questo libro? Una visione di cosa sarebbe accaduto se avessero vinto i nazisti. Ma sembra quasi che voglia dire: non sarebbe cambiato molto, perché a parte gli orrori della guerra, dall’una o dall’altra parte, a nessuno di loro importa davvero degli esseri umani, solo del potere. Conquistare e dominare. Il che è tristemente attuale.
Nota: è stata questa frase, riletta nei miei appunti, che mi ha fatto tornare indietro e decidere di scrivere effettivamente questo post per il blog. Perché comunque, con tutte le proprie pecche, credo sia un romanzo singolare, una proiezione su come sarebbe potuto essere. Soprattutto un avvertimento sul nostro futuro.

Com’è possibile?, si domandò Reiss. È dovuto solo al talento dello scrittore?
Conoscono un milione di trucchi, questi romanzieri. Prendiamo il dottor Goebbels: è così che ha cominciato, scrivendo romanzi. Fanno appello alle brame più vili che albergano nel profondo di ognuno di noi, per quanto rispettabili si possa apparire. Sì, il romanziere conosce la natura degli uomini, sa quanto siano indegni, dominati dai loro testicoli, influenzati dalla loro codardia, pronti a svendere qualsiasi causa per avidità… Lui non deve fare altro che battere sul tamburo, ed ecco qui la risposta. Intanto se la ride sotto i baffi, naturalmente, nel vedere l’effetto che scatena.
Guarda come ha saputo far leva sui miei sentimenti, rifletté Herr Reiss, più che sul mio intelletto. E naturalmente lo pagheranno pure… il denaro non manca. È chiaro che qualcuno deve averlo indotto, questo Hundsfott (ndr. figlio d’un cane), istruendolo su cosa scrivere. Sono pronti a scrivere qualsiasi cosa, dietro lauta paga. Racconta pure tutte le fesserie che vuoi, e il pubblico sarà disposto a buttar giù anche l’intruglio più puzzolente, se è ben servito. Dove è stato pubblicato? Herr Reiss esaminò la copia. Omaha, Nebraska. L’ultimo avamposto della vecchia editoria plutocratica degli Stati Uniti, un tempo situata nel centro di New York e finanziata dalla ricchezza di ebrei e comunisti…
Forse questo Abendsen è un ebreo.
Sono ancora lì che provano ad avvelenarci. Questo jüdisches Buch… (ndr. libro ebreo) Richiuse La locusta con veemenza. Magari il suo vero nome è Abendstein.

Ecco. Appena finito. E non c’ho capito una mazza. Cerco di raccogliere le idee ancora prima di chiudere la copertina.
Questo romanzo è una realtà alternativa (un mondo parallelo o un’altra dimensione, alternativa alla nostra… qua entriamo nella fisica, nella quantistica e in tutto quello che personalmente faccio fatica a comprendere anche dopo aver letto L’ordine del tempo di Carlo Rovelli, fisico teorico e scrittore) dove Germania e Giappone hanno vinto la Seconda Guerra Mondiale. Ma nel romanzo viene citato questo altro romanzo ancora, La locusta si trascinerà a stento, dove invece hanno perso la guerra, ma in modo differente dalla nostra attuale realtà, perché a un certo punto Joe Cinnadella ne parla con Juliana: Churchill resta al potere in Inghilterra per vent’anni, ad un certo punto muove guerra verso gli Stati Uniti, ritenendoli una minaccia, e l’Inghilterra vince. Quindi un’altra realtà alternativa ancora alla nostra. Un delirio.
Nelle ultime pagine, veramente ostiche da afferrare, Juliana lascia qua e là delle tracce, che per conto mio sono parole di Philip Dick stesso (a questo punto mi sento di associarlo ad Abendsen, è lui L’uomo nell’alto castello?!): “In questo libro c’è molto più di quanto lui (ndr. Joe Cinnadella) avesse capito. Cos’ha voluto dirci Abendsen? Niente a che vedere con il suo mondo di finzione.”
Qualche riga dopo aggiunge: “Ci ha raccontato del nostro mondo, pensò, mentre apriva la porta della stanza. Di questo, del mondo intorno a noi adesso.[…] Vuole che lo vediamo per ciò che è. Cosa che io riesco a fare, sempre di più ogni momento.”
E poi c’è quell’ultimo esagramma, La verità interiore, e la discussione con i presenti. Non vi dirò di più, ma vi basti sapere che ho riletto quella scena almeno tre volte e non l’ho compresa.

Ho pure cercato su Google qualcuno che spiegasse il significato di questo romanzo, ma non ho trovato nulla di convincente.
Credo abbia ragione Darius Tred nella sua analisi: aveva un senso nella sua epoca, quando è uscito. Forse gli stessi personaggi e alcuni fatti all’interno della trama richiamano qualcuno e qualcosa degli anni ’60, o quanto meno un certo “clima” dopo le due grandi guerre mondiali che non possiamo più percepire ai nostri giorni. Qualcosa ci sfugge perché non è più esattamente il suo tempo.
Se Philip Dick voleva scrivere del significato della guerra in generale, arrivava comunque tardi: ci aveva già pensato Tolstoj con Guerra e pace, e non si può aggiungere proprio niente, il caro Lev ha scritto tutto in quel romanzo, non c’era necessità di “attualizzarlo” in una nuova trama, né allora né mai.
Non so cosa altro pensare. Mi resta la sensazione di una lettura monca. Non mi ha soddisfatto appieno, ma non posso nemmeno dire che mi abbia lasciato indifferente… Mi propongo quindi di guardare la serie televisiva The Man in the High Castle su Amazon Prime, sperando che almeno con le immagini io riesca, in qualche modo, a ricollegare il tutto.

 

The Man in the High Castle
su Amazon Prime

Ci ho provato, ma non è andata molto bene. Speravo di capire qualcosa di più, invece la serie si distacca notevolmente dalla lettura.
Prima realizzazione degli Amazon Studios, con Frank Spotnitz e Ridley Scott come produttori esecutivi, la serie The Man in the High Castle conta quattro stagioni complete, da 10 episodi ciascuna: il primo pubblicato nella piattaforma di streaming Amazon Prime nel 2015 e l’ultimo, conclusivo, pubblicato nel novembre 2019. Le varie stagioni sono state ben accolte tanto dal pubblico quanto dalla critica, considerando la trama avvincente e al contempo snella di un romanzo complicato.
Scorrendo le recensioni insomma, sembravano esserci buone possibilità che guardarla mi tornasse utile alla comprensione del libro. Ma già al primo episodio comincio a perdermi perché le scene che si susseguono sono ben lontane dalla lettura.

Siamo nella New York occupata dai nazisti del 1962. Qui conosciamo il giovane Joe Blake, un biondino alquanto caruccio, che si offre volontario per servire la resistenza, guidando un camion fino alla Zona Neutrale nelle Montagne Rocciose. Non è italiano, non è un immigrato, ma guiderà un camion, e sembra proprio ricoprire il ruolo di Joe Cinnadella.
Dall’altra parte, nella San Francisco occupata dai giapponesi, ci viene mostrata una giovane donna, Juliana Crain, abile esperta di Aikidō, che vive in armonia con i giapponesi. Una sera riceve un pacco da sua sorella Trudy, che non vedeva da tempo e sapeva far parte della resistenza. Trudy è inseguita e viene uccisa dalla polizia giapponese. Juliana scopre che quel pacco contiene un cinegiornale completamente diverso da quello appena visto al cinema, un filmato impossibile dove gli Alleati vincono la Seconda Guerra Mondiale. Dunque questa Juliana Crain è la nostra Juliana Frink, ex moglie di Frank nel libro. E quello che nelle intenzioni di Philip Dick era il romanzo La locusta si trascinerà a stento, qui è diventato un cinegiornale. L’evoluzione del mondo contemporaneo, dalla carta alle immagini, mi lascia un po’ perplessa.

Incontriamo anche Frank Frink, che nella serie televisiva è il fidanzato di Juliana (quindi c’è una sorta di retrodatazione rispetto al romanzo) e la esorta ad andare alla polizia, per consegnare il filmato e dichiararsi innocente. Juliana decide invece di continuare la missione di sua sorella, mettendosi in viaggio verso la Zona Neutrale per consegnare il pacco al posto suo. A Canon City, in colorado, Juliana incontra Joe Blake e diventano amici. In questo punto, romanzo e serie televisiva sembrano ritrovarsi per un momento.
Torniamo nuovamente a San Francisco, dove il ministro del commercio giapponese, Nobusuke Tagomi, dapprima incontra l’ambasciatore nazista Hugo Reiss per finalizzare i dettagli della visita in città del principe ereditario giapponese. Più tardi riceverà Rudolph Wegener, un alto funzionario nazista che si finge un uomo d’affari svedese, quel signor Baynes del libro.
In tutto questo, tra scene sanguinolente di Frank Frink che viene preso dalla polizia giapponese, inseguimenti folli di un cacciatore di taglie nazista dietro a Juliana e Joe, che fine mi ha fatto l’antica saggezza dell’I-Ching? Il libro viene consultato solo da Nobusuke Tagomi.

Oltre alle differenze con i personaggi sostanziali del romanzo, ce ne sono altri di completamente nuovi, sviluppati solo per la serie. L’Obergruppenführer John Smith, alto ufficiale nazista interpretato dall’attore Rufus Sewell (altro buon motivo per gustarsi gli episodi 😉 ) interessato a catturare l’uomo nell’alto castello, mi dicono essere il personaggio meglio riuscito di questa produzione. Anche Takeshi Kido, l’ispettore capo della Kempeitai, la polizia giapponese, di San Francisco che si occuperà di interrogare Frank Frink. Più avanti negli episodi si incontrerà pure Adolf Hitler, anziano, riconoscibile dai suoi baffetti, ancora a capo del Grande Reich nazista.

Dopo aver cominciato praticamente tre volte il primo episodio, appisolandomi brutalmente di tanto in tanto, non sono proprio riuscita a superare lo scoglio del quarto episodio. Parlandone con colleghi e amici, sono comunque in buona compagnia. Come il romanzo, anche la serie televisiva raccoglie probabilmente un pubblico specifico. Non sono tra quelli, mi spiace. Il suo ritmo è terribilmente lento, sembra dilatare ancora di più l’azione delle pagine di Philip Dick. Però riconosco che alcune scene lasciano un certo impatto, come questa.

 

Leggerò qualcos’altro di Dick?
Chiediamolo all’I-Ching!

Nessuno di noi ha compreso appieno questa storia. Non abbiamo capito alcuni personaggi, alcuni punti della storia, nemmeno il finale, che speravamo ci fornisse l’interpretazione del tutto. Nemmeno l’uso ossessivo dell’I-Ching. Personalmente, non so cosa pensare. Mi resta la sensazione di una lettura monca. Speravo che la serie televisiva su Amazon Prime mi aiutasse a ricollegare il tutto. Tentativo inutile.
Eppure ci sono molti film tratti da romanzi o racconti di Philip Dick che ho apprezzato davvero.
Quindi, in considerazione di quest’ultimo punto, dovrei dargli un’altra possibilità?
Beh, per ogni domanda, l’autore ha consultato l’I-Ching e stavolta seguirò il suo esempio.
Lancio le monetine fino a disegnare le mie linee. Ed ecco la mia risposta:

62. Hsiao Kuo – La Preponderanza del piccolo
sopra CHÊN, l’Eccitante, il Tuono
sotto KÊN, l’Arresto, il Monte
Sentenza: La preponderanza del piccolo. Riuscita. Propizia è perseveranza. Si facciano pure cose piccole, non si devono fare cose grandi. L’uccello reca in volo il messaggio: Non è bene aspirare verso l’alto, è bene rimanere in basso. Grande salute!

 

L'Uomo nell'Alto Castello e l'I-Ching

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Comments (16)

Daniele

Mar 19, 2025 at 9:11 AM Reply

L’ho letto anni fa e non lo ricordo. Ho però visto su Goodreads che avevo dato 1 stella su 5, quindi neanche a me era piaciuto. Di Dick ho letto oltre 30 libri fra romanzi e raccolte di racconti e ovviamente non ho apprezzato tutto. Di film tratti dalle sue storie ne avrò visti un paio, credo, ma ricordo solo Minority Report.

Barbara Businaro

Mar 19, 2025 at 7:13 PM Reply

Il fatto che non lo ricordi indica non solo che non ti era piaciuto, ma che ti ha lasciato proprio indifferente. Penso che invece io me lo ricorderò, ma proprio per i dubbi che mi lascia… Magari me lo ricorderò con fastidio, ecco! XD
Ho trovato questo riepilogo interessante dei maggiori romanzi, anche antologie di racconti, di Philip Dick stilata da Il Libraio: Tutti i libri di Philip K. Dick
Ma leggendo le trame, non ce n’è uno che mi incuriosisca sul serio. A parte quelli che hanno ispirato i vari film, ma quanto il cinema si sarà distaccato dal romanzo?!

Daniele

Mar 20, 2025 at 8:42 AM Reply

A meno che una storia non mi colpisca molto, è facile che non la ricordi.
Il cinema si discosta molto dai romanzi. Pensa a “Blade Runner”, preso dal romanzo “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” (a cui ho dato 5 stelle su 5): hanno tolto la parte della religione che invece è importante nel romanzo.

Ho visto alcuni dei romanzi letti su Goodreads. Ai seguenti ho dato 4 stelle: Noi marziani, Cronache del dopobomba, L’androide Abramo Lincoln, L’uomo dai denti tutti uguali, La città sostituita, Vulcano 3, Illusione di potere, Labirinto di morte.

A questi 3: Nostri amici da Frolix 8, Redenzione immorale, L’occhio nel cielo, Follia per sette clan, Le tre stimmate di Palmer Eldritch, La conquista di Ganimede.

Barbara Businaro

Mar 23, 2025 at 5:48 PM Reply

Allora potrei proprio leggere “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”, per curiosare come Philip Dick aveva gestito proprio la parte religiosa rispetto agli androidi e cosa è stato preso per realizzare il film. 🙂

Sandra

Mar 20, 2025 at 8:40 PM Reply

Sinceramente non mi attira, (il tuo non ci ho capito una mazza non è molto invitante) eppure ho letto ben due volte un altro celebre romanzo in cui si ipotizza un mondo con la vittoria della Germania nazista, ovvero Fatherland di Harris, libro immenso che ho adorato e che mannaggia al momento non trovo tra gli scaffali delle mie 4 librerie. Barbaraaaa, ti sto odiando, così mi tocca cercarlo assolutamente, invece di svenire sul divano, com’era in programma 😉

Barbara Businaro

Mar 23, 2025 at 5:55 PM Reply

Beh, io non ci ho capito una mazza, ma magari tu potresti comprenderlo meglio di me. Sai che quello è un periodo storico che evito, forse proprio questo mi rende il pubblico peggiore per questa ucronia. Non sapevo ci fosse qualcun altro che ha tentato la strada della vittoria nazista come storia alternativa. Scopro ora questo Fatherland di Robert Harris, edizione Mondadori. Pubblicato nel 2017, ambientato nel 1964 a Berlino con Hitler ancora presente. Magari questo Harris ha fatto tesoro delle lacune di Philip Dick. Chissà, magari un giorno lo leggerò…

Marina

Mar 20, 2025 at 11:15 PM Reply

Aridaje co sta svastica! Guarda, ti faccio ridere: ho letto tutto il tuo post ed è come se scoprissi la trama per la prima volta, cioè io a distanza di due anni non ricordo un dick di quello che abbiamo letto. 😀 Tu, poi, sei stoica: cercare conferme pure nella serie televisiva… No stoica, EROICA! 😀 😀
Non ho nessuna curiosità di approfondire, ma lascio aperta la possibilità che forse non avere afferrato l’importanza di questo romanzo sia stato solo un mio limite, perché non mi spiegherei altrimenti tutto il grande successo che ha avuto. Di una cosa soltanto non mi sono pentita: di averne fatto una lettura condivisa. Mal comune mezzo gaudio.

Barbara Businaro

Mar 23, 2025 at 6:00 PM Reply

Macché stoica, macché eroica. Sono cocciuta come mio nonno!!
Forse anche un po’ masochista, in questo caso. Ma volevo tentare l’ultima carta, proprio perché questo romanzo ha avuto un grande successo. Comunque non sei sola Marina a “non aver capito un dick” di questa lettura, eravamo in tre e quanto meno ci siamo divertiti. Ne valeva la pena solo per i nostri scambi di email! 😉

Darius Tred

Mar 21, 2025 at 12:38 AM Reply

Devo riconoscere a Dick un grande merito: il romanzo Andromeda.

Che è stato scritto da uno decisamente più in gamba di lui: che di cult ne ha scritti qualcuno in più.
Dai quali sono stati tratti diversi film che tutti conosciamo.
Mica solo Blade Runner, tra l’altro molto liberamente tratto dal romanzetto delle pecore di Dick…
Che, diciamocelo, se non ci fosse stato Blade Runner, Dick sarebbe rimasto un perfetto sconosciuto.

Ma perché parlare di Crichton quando si stava parlando di Dick?
Semplice: all’epoca in cui ho letto il romanzetto di Dick, avevo maturato la convinzione che, per digerire una lettura ostica, è molto utile alternarla con una lettura brillante.

Ma ho anche capito che il mio tempo di lettura è troppo prezioso per essere sprecato in letture inutili.
Fahrenheit 451 è un altro: ma stavolta niente Crichton a fare da contraltare.
Mollato a metà senza alcuna pietà.

Ho quasi rimpianto la Guida Galattica.

(Ho detto “quasi” …)

Barbara Businaro

Mar 23, 2025 at 6:14 PM Reply

Intanto sappi Darius che ho ringraziato di persona Sandra e tu sai perché. 😎

Poi, in effetti devo ringraziare pure io Dick per un altro grande merito: La grande rapina al treno, altro romanzo di Michael Crichton.
Che mi è talmente piaciuto da comprarlo pure in cartaceo (e assolutamente con il treno in copertina), dopo averlo letto in ebook.
E ho pure il film con Sean Connery. Sì, arriverà anche un post su quel romanzo, con i miei tempi (faraonici, ultimamente).

Non mi trovi invece d’accordo per Fahrenheit 451, perché a me è piaciuto, anche se probabilmente ero sotto l’influenza della prefazione meravigliosa di Neil Gainman. Ne avevo scritto qui: Se continua così… Fahrenheit 451 di Ray Bradbury

E in quanto alla Guida Galattica…
Sto leggendo un saggio sulla sociologia di Internet e il suo autore ha guadagnato la mia simpatia a pagina 8, proprio per aver citato suddetta Guida.
Dai, lo sappiamo che ti manca Marvin… e le porte che sospirano… 😀

Darius Tred

Mar 24, 2025 at 9:51 PM Reply

Anch’io ringrazio Sandra. Tu sai perché, lei sa perché (grazie Sandra!).

Quella Guida là ha il ben poco onorevole merito di aver ispirato i neuroni bruciati di quell’oscuro individuo amico di TrAAAmp.
Si, quel tizio che si diverte con i razzi e con le macchinine elettriche…
(Ne conosco due che amano i razzi: lui e quell’altro nano che governa la Corea spenta…).

E solo per questo, quella Guida là, andrebbe bruciata come in Fahrenheit 451… 🙂

Quindi?? Quindi no: non mi manca.

Barbara Businaro

Mar 25, 2025 at 7:22 PM Reply

Lo svitato dei razzi e delle macchinine elettriche non sembra proprio aver letto bene bene la Guida, o se l’ha letta era sotto gli effetti di chissà quale sostanza psichedelica.
Poteva avere in mano la Guida o l’elenco telefonico e non si sarebbe manco accorto della differenza!
(e magari ha scambiato per razzi la pubblicità delle supposte in farmacia… 😎 )

Giulia Mancini

Mar 22, 2025 at 8:55 AM Reply

Cara Barbara, come sai ho iniziato a guardare la serie L’uomo nell’alto castello su Prime, trovo l’idea alla base della serie estremamente interessante. Il quesito “cosa sarebbe accaduto se Hitler avesse vinto la guerra?” penso sia una domanda che molti si sono posti, portandoci a scenari spaventosi del mondo. Forse anche il capolavoro di Orwell nasce da questo, chissà. La serie ha tuttavia un ritmo narrativo troppo lento per i miei gusti, ed è per questo ho deciso di abbandonarla, anche perché non avendo molto tempo preferisco dedicarlo a serie più stimolanti. Non ho letto il libro e non penso di farlo, ma ho letto con grande curiosità la tua analisi davvero completa. Spesso la trasposizione in fiction non è chiarificatrice ed è spesso poco fedele al libro, per motivazioni varie di opportunità, tempi cinematografici e altro ancora. É anche bella l’idea del libro nel libro del romanzo (o del video nella fiction) che parla di una realtà alternativa possibile. Forse Philip Dick, l’uomo che ha inventato il futuro con i suoi romanzi di fantascienza, in questo romanzo ha messo “troppa carne al fuoco” non spiegando bene nessun concetto e portando Inevitabile confusione nel lettore…

Barbara Businaro

Mar 23, 2025 at 6:21 PM Reply

Ecco, potrebbe essere proprio questa una spiegazione: Philip Dick ha messo insieme troppi temi, troppe domande e alla fine non è giunto a una conclusione valida. In un certo senso, il finale è pure aperto e infatti leggo che lo scrittore aveva dichiarato di avere cominciato un seguito, mai concluso però.
Magari mi rileggerò 1984 di George Orwell, perché la prima lettura risale ancora alle scuole medie, decisamente prematura.

Luz

Mar 30, 2025 at 12:26 PM Reply

Ricordo quella vostra lettura condivisa e anche il mancato entusiasmo che suscitò. Non ho mai letto questo romanzo, che pure presenta un tema che mi stuzzica parecchio, ma ho tentato di vederne la serie tv. Purtroppo mi sono arenata al termine della prima puntata, senza alcun desiderio di proseguire. Eh sì che si è visto tutto il dispendio della produzione (fotografia e costumi ottimi pure)… ma niente. Non ricordo se ho percepito il ritmo lento di cui scrivi tu, certo però non è scattato quel feeling.

Barbara Businaro

Mar 31, 2025 at 10:33 PM Reply

Oh ecco, nemmeno tu sei riuscita a proseguire con la serie tv. Mi è rimasto un po’ di rammarico proprio perché Amazon ci ha spesa davvero tanto su quella produzione, ma niente. Non fa per noi. 🙂

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