Waldinger Institute: qui formiamo persone felici

Formiamo persone felici

“Spesso la mancanza di infelicità è scambiata per felicità.”

Mentre aspettava che la fotocopiatrice terminasse il suo lavoro, Josie pensò che quelle scarpe erano state decisamente un acquisto sbagliato. Continuava a spostare il peso da un piede all’altro per cercare sollievo temporaneo. Le portava solo da qualche ora e le sembrava di trascinare due macigni con enorme sofferenza. Forse non aveva più l’età per certi tacchi.
Guardò fuori dalle ampie vetrate dell’ufficio: negli stretti spazi tra i palazzi si scorgeva un cielo terso e quella mattina uscendo di casa non c’era stato bisogno del suo fedele poncho in lana. Le vacanze di primavera, e la Pasqua che la sua famiglia festeggiava, si stavano avvicinando. Doveva chiamare sua sorella per organizzare il rientro: gli impegni l’avevano trattenuta nella capitale per tutto l’inverno e chissà in che condizioni avrebbe trovato la vecchia casa, chiusa da mesi.
All’improvviso la fotocopiatrice s’inceppò, con uno stridore dei rulli che non riuscivano ad afferrare la carta ed uno sbuffo d’aria dal vassoio d’uscita, finché non terminò con il solito avviso acustico.
“Di nuovo, accidenti!” Cliccò sul bottone per confermare l’apertura del blocco ottico superiore e accedere al vano interno.”Ehi Miki, quando passa l’assistenza?” gridò per farsi sentire dal collega in fondo al lungo open space.
“Non prima di martedì…”
Imprecando e tirando il lembo di carta che si intravvedeva, riuscì a disincastrare il foglio intero. Sarebbe stato un danno ben maggiore se si fosse strappato perché avrebbe davvero dovuto far smontare la macchina dal tecnico e non aveva tempo: doveva spedire le copie in giornata ai diversi dipartimenti, rigorosamente in cartaceo. Certe istituzioni vivevano ancora nel secolo scorso.
“Ancora noie con quell’aggeggio?” le chiese il direttore uscendo dalla sala riunioni con i redattori dell’economica.
“Si, ma l’ho tolto.” Sollevò il documento colpevole come prova. “Oh guarda…”
Lo osservò distrattamente per un momento: stava fotocopiando pagine fitte di testo, ma in quel foglio le parole via via distorte e le macchie di colore dei rulli sporchi avevano prodotto un’immagine, un bellissimo volto di donna stilizzato, con un’espressione melanconica.
Richiuse il coperchio della macchina, e ricominciò con le stampe mancanti, rimanendo affascinata a contemplare quello straordinario volto.
“Non è meraviglioso?” chiese al collega quando raggiunse la scrivania al suo fianco.
“Cosa?”
“Non la vedi?”
L’uomo scosse la testa. “Vedo solo un pezzo di carta stropicciato…”
“Non vedi il viso della donna, qui? e qui?”
“Senti Josie, da quant’è che non fai una visita oculistica? Lo sai che ce l’abbiamo gratuita per contratto? Basta che lo dici giù in segreteria e si arrangiano loro a prenotartela.”
“Mah…si, hai ragione, forse sono un po’ stanca” concluse frettolosamente. L’arte non si può spiegare alle menti chiuse, diceva sempre il suo professore.
Tenne da parte quell’insolito disegno, unico e raro, frutto del caso, e si mise ad ordinare le altre fotocopie, tutte uguali, tutte così ben definite, per inviarle con il corriere pomeridiano.
Il cellulare squillò impaziente dall’angolo in cui era in carica e il display mostrava la foto di sua sorella Rebecca in ospedale con in braccio Alyssa, il giorno in cui era nata tre anni prima. Era un orario insolito perché la chiamasse, ma la rassicurò subito.
“Volevo chiederti Josie…non potresti anticipare le tue vacanze? Volevo dare un pranzo la prossima domenica.”
“Beh, è un po’ complicato…” Fece un riassunto mentale di tutti gli appuntamenti della settimana. Avrebbe potuto anche spostarli, ma avrebbe ritardato alcuni progetti.
“Non te lo chiederei, se non fosse importante.” Cogliendo il silenzio come un diniego, continuò: “Abbiamo bisogno del tuo aiuto, si tratta della…felicità, di David e Alyssa. E abbiamo solo un mese per decidere.”
“Di cosa..? E’ successo qualcosa?”
“No, no, non ti preoccupare. Stanno bene. Adesso. Ma dobbiamo pensare al loro futuro. Tu vuoi che siano felici, vero?”

 

“Aspetti qui, il rettore Powell la riceverà subito.”
Accogliendo l’invito della segretaria, Josie sprofondò in un’enorme poltrona in pelle nera. Era stranamente in anticipo, come non le accadeva da tempo. Controllò nuovamente sul cellulare se per caso fossero giunte mail o chiamate dall’ufficio, ma niente: da quando era entrata nell’edificio l’apparecchio sembrava morto, assoluta assenza di campo.
Osservò il depliant informativo che le aveva preparato sua sorella, con segnata data e orario dell’appuntamento già fissato: sopra l’immagine di persone sorridenti e festanti campeggiava il logo del Waldinger Institute e la scritta “Qui formiamo persone felici”, la stessa grafica dell’insegna all’entrata dell’enorme parco che ospitava il polo di studio.
La porta in legno scuro si aprì e alle sue spalle comparve un uomo sulla trentina, vestito in jeans e camicia bianca con lo stemma ufficiale, dall’aria rilassata.
“Signora Wilson, sono contento che lei sia venuta.” Le strinse la mano con calore.
Giovane, assurdamente giovane per essere un rettore, pensò Josie. Ma del resto questa non era una scuola ordinaria.
L’accompagnò davanti alla sua scrivania e le offrì un vassoio di cioccolatini.
“Prego, non faccia complimenti.”
La luce calda del mattino entrava dalla finestra e si rifrangeva nel prisma pendente della lampada da tavolo, rompendosi in mille colori sulla parete. Una nota completamente stonata con la severità del mobilio e quel lieve profumo di sigaro che doveva aver impregnato le pareti negli anni, ma alquanto in sintonia con l’espressione della persona che si trovava davanti.
“E’ un bene che lei sia qui. Preferiamo che la famiglia ci faccia tutte le domande prima di cominciare il percorso, in modo da essere sostegno assoluto per l’alunno. Non ci devono essere dubbi nel nostro metodo.” Si appoggiò allo schienale alto della sedia.
“Come mai così giovani? Mio nipote David ha compiuto quattro anni e Alyssa ne ha fatti da poco tre. Non è un po’ presto?”
“No, mi creda. Prima cominciamo e meglio è. Stiamo pensando di abbassare la soglia ulteriormente. Già a due anni, nel mondo attuale, i bambini prendono troppe decisioni ogni giorno. Pensi solo alla scelta del cartone animato alla televisione o del pupazzo con cui si addormentano. Un trauma a quest’età può rendere inutile il nostro lavoro. E l’anno scorso abbiamo dovuto escludere dei bambini per questo, totalmente fuori dal nostro standard.”
Josie sentì una fitta ghiacciata alla base della nuca. Cercò di ignorarla e proseguire.
“Ma esattamente…in cosa consiste il vostro metodo? Ho letto le brochure, ma fatico a capire a livello pratico.”
“Insegniamo ai bambini a prendere la scelta giusta, quella che gli darà il successo assicurato in termini di appagamento. Vede, è il fallimento che genera stress e frustrazione, ripercuotendosi poi nelle decisioni future. Noi valutiamo le caratteristiche personali, le capacità individuali, stabiliamo degli obiettivi via via adeguati per l’alunno. Sviluppiamo le sue peculiarità in modo da inserirlo anche nel mondo del lavoro con il massimo rendimento. I nostri studenti imparano a distinguere qual è la loro portata, ciò che li renderà eternamente felici.”
Era la stessa cosa che aveva letto sul sito internet dell’istituto, con molta meno enfasi.
“E quando passano nella pubertà? L’adolescenza è la peggiore delle età, come fate a gestirla? Davvero ci riuscite?”
“Non trascuriamo nessun aspetto, né fisico né psichico. Determiniamo l’orientamento sessuale dell’alunno e tramite un’accurata selezione, incrociando tutti i dati della personalità, ad ognuno troviamo il compagno adatto per la vita. Praticamente da subito. Senza lasciare margini alla minima sofferenza.”
Lo fissò sconcertata e lui lo ritenne un invito a proseguire. “Non ci sono…appuntamenti al buio, rifiuti più o meno velati, derisione, ritorsioni, bisogni insoddisfatti, tradimenti, divorzi violenti. Le nostre sono coppie solide e felici. Potrà conoscerne qualcuna personalmente, negli incontri settimanali organizzati per i nuovi iscritti.”
“I vostri studenti finiscono col lavorare qui dentro?”
“No, se non lo desiderano loro. I nostri alunni non sono mai abbandonati: l’inserimento è richiesto dai tre fino ad almeno i venticinque anni di età, dato che li seguiamo anche nel percorso universitario con le nostre sedi distaccate in tutti gli stati. Alla fine diventano i nostri stessi sostenitori, a volte si mettono anche a disposizione per le attività di orientamento delle nuove reclute.”
Josie storse la bocca involontariamente.
“Ci tengo a precisare che non facciamo distinzione di genere. Nel nostro microcosmo convivono felicemente eterosessuali e omosessuali, perché i problemi legati ad una sessualità oppressa generano ulteriore frustrazione e infelicità. Quindi li formiamo anche per non vedere queste differenze. Ci siamo dovuti adeguare, almeno fino a quando la Scienza non troverà rimedio alle deviazioni sessuali. Nel qual caso abbiamo già pronto il piano di aggiornamento del sistema.”
“…l’aggiornamento del…sistema?” chiese inorridita.
“Nulla di fatale, mi creda. I nuovi alunni utilizzeranno i protocolli aggiornati e dunque ogni deviazione sarà curata sul nascere. Ma potremo anche intervenire sul pregresso, accompagnando le coppie omosessuali al divorzio consensuale ed elaborando successivamente nuovi abbinamenti eterosessuali. Ma temo ci vorrà ancora qualche decennio per il progresso scientifico.”
Lo stomaco di Josie ebbe un sussulto, sentiva l’acido gastrico gorgogliare al pari della sua rabbia. Cercò però di ricordare che era lì per amore dei suoi nipoti, e nient’altro.
“Quale dovrebbe essere il mio ruolo in tutto questo?”
“Chiediamo a tutta la famiglia di partecipare al processo, in maniera più allargata possibile. Per questo sua sorella le ha chiesto di venire alle riunioni di orientamento il prossimo mese. In alternativa, chiediamo di tagliare i rapporti con parenti e amici che non capiscono il valore del nostro metodo. Non ci devono essere voci dissonanti, capisce? Sarebbe un grave danno per l’alunno.”
“Immagino che questo significhi che poi anche i figli dei vostri studenti, a loro volta, vengono cresciuti con lo stesso…sistema.”
“Certamente. E non c’è motivo che non sia così, sono i nostri stessi alunni a capirne l’importanza. A quel punto il processo è naturale.”
Ovvio, pensò Josie, non concepiscono null’altro.
“Ma come fate a controllare tutto? Le amicizie per esempio…com’è possibile che non ci siano contatti con l’esterno?”
“I nostri studenti vengono inseriti già nel luogo di lavoro adatto, la loro compagna di vita è scelta sempre con il nostro metodo ed ovviamente anche le amicizie sono verificate. Non lasciamo nulla al caso, mi creda.” Il rettore Powell sorrise soddisfatto e compiaciuto. “La loro esistenza è contemplata in un ambiente sereno, dove tutti sono appagati e felici, appunto.”
“E internet? I social, dove c’è sempre un confronto compulsivo?” La storia era piena di imperi che erano stati soverchiati da una piccola falla, un’idea rivoluzionaria che avere aperto la breccia.
“Noi sconsigliamo l’uso dei social media ma, qualora venga richiesto dalla posizione lavorativa stessa assegnata, i contenuti visualizzati sono filtrati dal nostro centro operativo. In sostanza, tutti gli accessi alla grande rete sono verificati dai nostri tecnici, dal sito delle previsioni del tempo alle mail confidenziali. Eliminiamo automaticamente tutto il rumore.”
“Anche i vostri tecnici sono inseriti nel vostro percorso? Sono ex alunni, intendo?”
“Si, chiunque lavori qui partecipa al progetto per sé stesso.”
“Quindi anche lei è stato…selezionato per questo lavoro? La rende felice?”
All’uomo scappò una risata cristallina. “Le posso assicurare di si. Magari faticherà a crederci, ma la mia personalità è portata all’insegnamento e all’organizzazione. Inoltre, all’interno del campus, tutti lavorano part-time: il resto della giornata ci serve per i nostri hobby personali e per non sentirci troppo carichi di responsabilità sulle vite altrui. Se fosse venuta nel pomeriggio, avrebbe trovato il rettore Mitch, mio collega.”
La maggioranza dei lavoratori sarebbe stata concorde in una soluzione del genere. E per gli stakanovisti probabilmente avevano già elaborato una cura, pensò amaramente Josie.
“Signora Wilson, sappiamo benissimo che l’impatto con il nostro istituto è forte, soprattutto per chi non ha la stessa motivazione genitoriale, i parenti più prossimi, come lei che suo malgrado si ritrova coinvolta in questa valutazione. Oltretutto, da giornalista, ci aspettiamo sicuramente più resistenze da parte sua. Lei è abituata a mettere in discussione tutto, a indagare le notizie e le apparenze per cercare la verità. La invito a fare altrettanto con noi. Le daremo un pass ospite per potersi muovere all’interno del campus. Le sarà affiancato anche un tutor il quale soddisferà tutte le sue curiosità. Potrà dialogare anche con i nostri studenti dell’high school, con l’intermediazione dello stesso tutor.”
Il rettore si alzò in piedi, aggirò la scrivania e le porse una mano per farla alzare.
“Dia una possibilità ai suoi nipoti. Dia a loro quello che non ha potuto avere lei. Una vita felice, completamente.”

 

“Lei è davvero distratta!” la sgridò simpaticamente il giovanotto che l’accompagnava in visita nell’istituto.
“Mi scusi. E’ che ho mille pensieri per la testa…” Cercò di sfoderare il suo sorriso migliore alla Marylin, sexy e superficiale in parti uguali. In realtà cercava continuamente di restare indietro e cogliere l’occasione per cambiare corridoio e aprire delle porte a caso, alla ricerca di qualche segreto, anche solo qualche ossicino degli scheletri che pensava fossero nascosti dietro a tutta questa storia.
Finora non aveva però trovato nulla di interessante. Aveva anche contattato un amico del Wall Street Journal per avere un profilo economico della fondazione e sapere cosa se ne diceva nell’ambiente finanziario, ma le sue origini erano comuni a quelle di tante altre associazioni: un ricco possidente senza prole, convinto delle proprie teorie, aveva donato tutto alla causa. A questo capitale si aggiungevano le iscrizioni annuali degli allievi e successivamente i contributi degli ex studenti che erano tenuti, volontariamente, a versare una percentuale del proprio stipendio.
“Da questa parte, prego. Questo tunnel vetrato congiunge l’edificio alla biblioteca. Non è ancora molto fornita, ma speriamo di raddoppiare i volumi entro fine anno.”
Seguì il suo tutor fino ad un ampio salone, con il soffitto trasparente che inondava lo spazio di luce naturale. Al centro trovavano posto tavoli e sedie per lo studio, divani e poltrone per la lettura e addirittura il bancone di una piccola caffetteria. Tutt’intorno si aprivano tre piani di scaffalature, molte delle quali ancora vuote. Contrariamente ad altre sedi universitarie che esprimevano rigore e secolarità dell’istituzione, lì dentro si respirava un’aria rilassata, molto più simile ad una mega libreria di catena.
“Questa è la biblioteca per adolescenti e adulti. I bambini sotto i 14 anni hanno un’altra collezione di letture consigliate all’interno dell’Elementary school. L’accesso ai libri è comunque regolamentato secondo il proprio grado di istruzione, anche rispetto al nostro processo interno: vogliamo evitare che un testo particolarmente complesso generi sofferenza nel lettore.”
Quest’ultima frase la lasciò perplessa: Josie non conosceva romanzi che non portassero un minimo di angoscia al pari dell’entusiasmo per un lieto fine. I lettori da sempre cercavano emozioni tra le pagine. E se non c’erano, quello non era degno di essere chiamato libro.
A quel punto si chiese quali titoli e autori fossero effettivamente ospitati lì dentro.
Un sospetto, un terribile sospetto prese spazio nella sua mente.
“Le spiace se faccio un giro e sbircio qualche testo qua e là?”
“Faccia pure. Quando ha terminato, mi trova nell’angolo, all’internet point. La prego solo di non abbandonare l’edificio senza avvisarmi.” All’espressione stupita di Josie, il ragazzo proseguì mesto: “Mi farebbe passare un guaio…”
“No, certo, non si preoccupi. Da sola rischierei di perdermi, di nuovo.”
Si allontanò per cercare la sezione della narrativa contemporanea. Trovò una nutrita dotazione di romanzi rosa con lieto fine assicurato, una serie di thriller di scrittori che però non conosceva, pochissimi titoli di fantascienza, soprattutto la totale assenza di fantasy e horror. Controllò accuratamente ogni corsia, ogni ripiano e ogni dorso, ma non c’era alcuna traccia del re della paura, Stephen King. Non che fosse il suo genere preferito, però era uno scrittore riconosciuto e non ne comprendeva l’esclusione. Forse nell’acquisto dei testi avevano dato precedenza a quelli di studio, lasciando per ultima la cosiddetta letteratura d’evasione.
Passando al piano superiore, si ritrovò davanti ai saggi storici, ordinati per continenti e per epoca. L’organizzazione seguiva lo schema Dewey, ma la disposizione fisica dei volumi nell’edificio le sembrava un po’ disordinata. Oppure seguiva un filo logico che in quel momento le sfuggiva. Nel settore della Storia generale dell’Europa diede una scorsa veloce ai titoli riguardanti la seconda guerra mondiale: rispetto alle altre biblioteche, notò una povertà assoluta di libri riguardanti il nazismo e l’Olocausto. Non si aspettava certo di trovare il “Mein Kampf” di Adolf Hitler in bella vista, e del resto anche i nativi nordamericani sembravano cancellati dai testi. Solo gloriose terre e ricchezze da conquistare. Evidentemente il resoconto di un genocidio non rientrava nelle letture consigliate per una vita felice.
Suo padre, professore di letteratura, l’aveva lasciata libera di leggere qualsiasi cosa la incuriosisse. “Se vuoi controllare le idee di un popolo, devi controllare ciò che legge” diceva sempre. E casa sua era sempre stata piena di libri, di ogni genere e lingua, anche testi censurati o proibiti da governi e religioni che suo padre riusciva comunque a procurarsi. Leggere era prima di tutto un diritto.
Salì un’altra scala e raggiunse gli scaffali dei classici della letteratura francese. In mezzo a tanti nomi, scelse “I miserabili” di Victor Hugo. Estrasse il libro dalla fila e fu subito colpita dalla copertina la cui grafica recava un bollino di certificazione dell’istituto: Edizione Waldinger Autorizzata. Lesse brevemente la prefazione dove si spiegava che il testo originale era stato rimaneggiato dal gruppo editoriale della scuola per rientrare nella linea d’insegnamento. Questo testo poteva essere letto in autonomia e in assoluta sicurezza.
Josie rimase sconcertata a dir poco. Scorse velocemente il romanzo e in effetti la stampa riportava dei corsivi, l’intervento dei curatori, e note a piè di pagina che spiegavano la tipologia e la motivazione della riscrittura. Il libro era stato tagliato.
Con stizza prese un altro volume a caso, “Il rosso e il nero” di Stendhal: uguale bollino, uguale prefazione, corsivi che riempivano le pagine. Avrebbe voluto controllare cosa era stato eliminato, ma il cellulare non aveva campo lì dentro, come in tutto il complesso, e sicuramente dall’internet point era inibito l’accesso ai testi originali in rete. Non ultimo, i libri erano protetti da etichette antitaccheggio e il tutor le aveva già spiegato che gli esterni in visita non potevano ottenere il prestito. Imprecò a bassa voce.
Poi le venne in mente di aver visto una toilette per ogni piano.
Con i libri in mano, tornò sui suoi passi ed entrò in una di queste. Chiuse bene a chiave. Guardò nuovamente i due cartacei.
“Un sacrilegio, ma a fin di bene…”
Strappò le due copertine, le fece in piccoli pezzi e li lanciò nel water. Tirò lo sciacquone finché tutte le prove scomparvero negli scarichi. Infilò i due testi deturpati nella borsa personale. La sua preferenza per i modelli capienti si rivelava particolarmente utile.
Uscì dal bagno sperando di farla franca.
Scendendo nuovamente nell’atrio principale, incrociò una postazione informativa per consultare il catalogo della biblioteca e si fermò per l’ultima prova: cercò l’indice alfabetico di tutti i titoli e a sorpresa ne scorse molti marchiati come “n.a.”. La legenda a lato spiegava che l’abbreviazione stava per “non autorizzato”, precisamente “volume non autorizzato alla lettura senza il supporto del proprio responsabile”. Tra questi, i romanzi di Stephen King.
Un’altra domanda reclamava infine risposta. Raggiunse il suo tutor ancora seduto di fronte al computer dove le aveva indicato.
“E’ possibile avere un elenco degli artisti presenti tra i vostri studenti e sostenitori?”
“Artisti? Cosa intende?”
“Ci saranno pittori, scultori, scrittori…cantanti, musicisti…che sono cresciuti con il vostro sistema, no?”
“Uhm, non ne conosco nessuno personalmente. Cioè, abbiamo persone che si applicano nel tempo libero a queste attività, pittura soprattutto…So per esempio che il rettore Mitch dipinge con acquerelli e l’anno scorso ne aveva messo in mostra qualcuno. Ma nessuno che ne abbia fatto la sua professione, se è questo che intende. Però dovrei controllare in segreteria, nell’anagrafe principale.”
“Oh, non si disturbi, era solo una mia curiosità” rispose garbatamente Josie.
Considerato il piano marketing del Waldinger Institute, qualsiasi personaggio di rilevanza artistica sarebbe stato ben pubblicizzato quale ottimo risultato del loro metodo. Così non era. Un punto a favore per chi sosteneva che l’arte è sofferenza, è il sangue del nostro cuore.
Questo voleva anche dire che difficilmente Alyssa sarebbe diventata una ballerina di danza classica e David non avrebbe viaggiato fin su Marte nella sua astronave dei sogni.

 

“Non capisco ancora esattamente cosa mi si chiede. Io firmo il modulo per accettare e poi? Che succede?”
Josie era nuovamente nello studio del rettore Powell. Dal loro primo colloquio era passato un mese, durante il quale aveva frequentato il campus ogni fine settimana per gli incontri informativi.
“Quello che noi chiediamo è di contribuire allo sviluppo degli alunni, della famiglia stessa. Attorno ai nostri allievi creiamo un cerchio, che noi definiamo cerchio della felicità. Tutte le persone del cerchio partecipano attivamente al processo.”
“Quindi, sarei seguita dai vostri …terapisti? Essere presente a riunioni, eventi? Studiare? Superare dei test? Con quale frequenza?”
“Organizziamo queste attività in base alle famiglie e ai progressi dell’alunno, ma in genere la cadenza è settimanale.”
Josie rimase in silenzio. Quel periodo era stato davvero impegnativo: gestire il lavoro da remoto con problemi di connessione, dover rifiutare appuntamenti e incarichi all’ultimo minuto che le potevano valere una promozione, passare la maggior parte del tempo in viaggio che alla scrivania si era dimostrato sfiancante e la mezza età iniziava a farsi sentire.
Capendo il suo dilemma, il rettore proseguì: “Dovrebbe avvicinarsi ai suoi nipoti. Anche la lontananza è motivo d’infelicità, dato il forte legame che vi unisce. Dovrebbero poterla vedere tutti i giorni. Sempre se decide di rimanere nel cerchio.”
Lo fissò inorridita. “Dovrei lasciare il mio lavoro?”
“O trovarne uno nuovo qui vicino.”
Ricominciare daccapo, proprio adesso, pensò Josie.
“Anzi, noi avremmo bisogno di una figura come la sua nel nostro gruppo editoriale. Come ha visto durante la visita guidata, abbiamo la nostra rivista, il nostro portale internet, la biblioteca e le nostre pubblicazioni.”
L’uomo si spostò e aprì un cassetto dallo schedario, consultando alcune cartelline. Ne scelse una e gliela porse. “Queste sono le skill di cui abbiamo bisogno.”
Lei l’aprì e scorse velocemente il contenuto, senza darsi pena di nascondere il suo scetticismo.
“Se preferisce, può lavorare solo un paio di giorni alla settimana e il resto del tempo dedicarlo alla scrittura. Sua sorella durante i colloqui conoscitivi ci ha detto che un tempo lei voleva scrivere un libro suo. Potrebbe essere l’occasione giusta.”
Non avrebbe mai perdonato sua sorella per quella rivelazione. La scrittura era una sua questione intima, non la doveva riguardare. Eppure per un secondo, il serpente della tentazione trovò spazio nella sua mente.
“In sostanza, mi sta chiedendo di entrare nella comunità con tutte e due le scarpe? Come allieva a mia volta?”
“Perché no?”
“Ma non sarei troppo…adulta? Non preferite i bambini, anzi gli infanti?”
“E’ vero, perché gli adulti si portano dietro i ricordi. Anche il ricordo del dolore. E per quanto noi facciamo, per loro rimarrà la malinconia e il dolore già provato continuerà a ripresentarsi. Possiamo alleviare la sofferenza, ma non toglierla.”
Questo le rammentò quanto era stato detto durante una delle lezioni esplorative: il metodo Waldinger era contro l’accanimento terapeutico e a favore del suicidio assistito, sia per evitare il tormento fisico all’ammalato sia per proteggere il resto della famiglia dallo strazio della perdita, potendo vivere con serenità gli ultimi giorni con il proprio caro. Josie non era per niente sicura che potesse funzionare, ma le statistiche dichiaravano che con questo metodo le persone si ammalavano di meno. La felicità è effettivamente un’ottima medicina.
Ancora più confusa sul da farsi, dopo il colloquio si recò dalla sorella per il pranzo.
Rebecca era intenta a cucinare e John preparava la tavola, dando di tanto in tanto un’occhiata ai bambini che giocano fuori nel prato assolato.
“Dobbiamo parlare di questa scuola…io non sono per niente convinta. Non possiamo attendere ancora un anno?” chiese Josie dando una mano tra le pentole.
“Un altro anno potrebbe essere troppo…ce l’hanno spiegato.”
John entrò nella stanza fissando la moglie, in una silente comunicazione coniugale.
Rebecca sospirò e accarezzò Josie ad un braccio. “Noi…”, e continuò a fissare il marito, “abbiamo già deciso. Vogliamo solo sapere se anche tu parteciperai. Dentro il cerchio.”
Josie sentì qualcosa spezzarsi dentro. Guardò suo cognato in cerca di supporto.
Lui annuì. “I miei genitori sono d’accordo, anche se per loro l’impegno è minore. Non si muovono più, sono seguiti da mio fratello e li vedremo solamente per le festività. Ma abbiamo bisogno di te.”
Josie ancora attonita si rivolse di nuovo alla sorella: “Ti sei chiesta cosa ne avrebbe pensato papà di tutto questo?”
Rebecca arrossì. “Si, ci penso tutte le notti. A volte mi sembra di averlo qui che gironzola per casa, brontolando. Ma quanto abbiamo sofferto io e te a crescere senza una madre? Lei non era felice, e di riflesso non lo siamo state nemmeno noi. E anche papà ne ha sofferto tantissimo, da solo ad allevare due figlie piccole. Forse non è la strada giusta, ma sento che dobbiamo tentare.”
Un silenzio grave cadde fra di loro.
“Sia issi!!!” urlò Alyssa sgambettando allegra per il soggiorno. La seguiva David con in braccio il suo fedele autoarticolato gigante.
“Ciao bellissima” Josie si inginocchiò e la accolse in un largo abbraccio a cui la bimba si abbandonò.
David abbandonò il suo giocattolo e corse sulle spalle della zia.
Josie si cullò del loro sorriso, della loro gioia, della loro spontaneità. Chiedendosi se avrebbe avuto il coraggio di perdere tutto questo.

 

Era l’ultimo giorno. Doveva assolutamente prendere una decisione. Da un’ora stava fissando il modulo di accettazione, senza la sua firma, e continuava a giocherellare con la penna tra le dita.
Sospirò a lungo. Aveva anche provato a stilare le liste dei pro e dei contro di accettare di entrare nel cerchio della felicità, come lo chiamavano loro, ma gli elenchi erano diventati interminabili sia in positivo che in negativo. Non l’avevano aiutata a fare chiarezza.
Pensò alla vita dei suoi genitori: il Waldinger Institute li avrebbe giudicati incompatibili? Eppure erano stati felici, molto felici all’inizio del loro matrimonio. Per questo erano nate lei e Rebecca.
Rifletté anche su loro due. In fondo capiva la scelta di sua sorella e il suo istinto di protezione verso i figli, un istinto naturale che proteggeva la specie. Ma le faceva paura.
D’altro canto, cosa aveva avuto lei? Josie non era certo un bell’esempio di felicità per i suoi nipoti.
Suo marito l’aveva abbandonata nel momento più difficile, quando lei scoprì di avere un cancro all’utero. Si era chiuso in un silenzio funereo, non le aveva più rivolto la parola, quasi che lei fosse già morta. La settimana successiva alla notizia sparì, lui e tutte le sue cose, mentre lei era in ospedale per la prima chemioterapia.
Al suo posto giunse una lettera dell’avvocato per l’istanza di separazione per “incompatibilità caratteriale e psicologica sopraggiunte”.
Lui non aveva avuto il coraggio di affrontare la verità della malattia. Josie avrebbe potuto combattere per il suo matrimonio in tribunale, ma decise che la battaglia più importante era quella per la vita. A sostenerla, giorno dopo giorno, c’erano solo sua sorella, un cognato fantastico e quelle due adorabili pesti sempre pronte a strapparle una risata. A loro doveva tutto.
Ma dopo essere stata abbandonata da una madre e poi dall’amore della sua vita, aveva promesso a sé stessa di non lasciare più in mano d’altri il suo futuro.
Qualsiasi scelta sarebbe stata un comportamento egoistico da parte sua. Se li avesse lasciati entrare nella scuola e fosse rimasta con loro, l’avrebbe fatto solo per sé stessa, per non sottrarsi al loro affetto. Se avesse rinunciato e si fosse distaccata, avrebbero sofferto entrambi, ma lei avrebbe tenuto fede alle sue idee. Se avesse lottato con ogni fibra del suo corpo per non farli partecipare al progetto, avrebbero sofferto comunque tutti, magari anche di più, solo per dimostrare che lei aveva ragione. Ma chi poteva davvero sapere quale fosse la soluzione migliore? La ricerca della felicità era costellata di insidie e rinunce, quasi tutte un salto nel buio.

 

(c) 2017 Barbara Businaro

 

Note a piè di pagina

Questo racconto è rimasto nel limbo delle idee per mesi, dopo che ho sentito (non ricordo assolutamente dove e da chi) quella citazione in apertura. Ho iniziato a ragionarci su e chiedermi se non ci fosse una scuola dove imparare a star distanti dall’infelicità. Nel mio girovagare nella rete alla ricerca d’informazioni, mi sono poi imbattuta in questo interessante video TEDx dello psichiatra Robert Waldinger (già, ho preso in prestito il cognome 😉 ) sul più lungo studio sulla felicità: ben 75 anni di ricerca per definire cosa effettivamente renda le persone felici.

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Comments (11)

Stefano

Apr 16, 2017 at 11:13 AM Reply

Leggendolo, lo stimo molto migliore di certi racconti pubblicati letti recentemente. Anche come scrittura. Letterariamente, richiama ed è a metà tra l’Huxleyano “Brave New World” (1936) e il “1984” di Orwell (1948, se non ricordo male). C’è un richiamo (inconsapevole?) a Munch (“l’arte è il sangue del cuore”). Lascia a bocca asciutta il finale che pone il problema (cosa scegliere? qualsiasi scelta implica la felicità per alcuni ma non per altri) ma non sembra venirne a capo, a meno che la conclusione e il messaggio del racconto non si voglia siano:”la felicità non è da tutti e per tutti”. Un buon spunto per un buon romanzo (allora, i bimbi sono scritti a questa scuola? come cresceranno?. Da adulti avranno raggiunto la felicità? Come avranno superato la perdita di un parente anche stretto?) che leggerei volentieri se fosse scritto.

Barbara Businaro

Apr 17, 2017 at 6:23 PM Reply

Grazie Stefano, ma a quali racconti pubblicati ti riferisci? Perché l’ultimo mio racconto che possa essere messo a confronto con questo è La fabbrica di acciottolato, che tu però hai valutato come delizioso. Un altro racconto recente è San Valentino da single, ma ha un target di pubblico diverso essendo decisamente a tinte rosa (e tra l’altro ha avuto sia parecchie letture sul blog, sia mi è giunta voce di condivisione spontanea via mail tra amiche, motivo probabilmente dell’elevato numero di letture nonostante il basso periodo di esposizione). Voi lettori che commentate online siete pochissimi. La maggioranza o mi scrive una mail, o mi messaggia privatamente sui social oppure attendono il primo incontro vis-à-vis anche dopo mesi.
Il richiamo a Munch è consapevole, anche se non l’ho virgolettato come citazione, perché appartiene al monologo interiore di Josie. Il finale è volutamente aperto: tempo fa mi avevano sfidato a scriverne uno e, sbagliando, pensavo pure di non esserne capace! Ci sarà un seguito? Non lo so, in realtà mi pare strano che un romanzo così non sia mai stato scritto…qualcosa di Michael Crichton no?

Stefano

Apr 18, 2017 at 9:56 AM Reply

Mi riferisco a racconti pubblicati abbastanza recentemente da una scrittrice poco sopra la cinquantina, discendente da una stirpe di scrittori e intellettuali che han dato un buon contributo al ‘900 letterario italiano. Ho voluto leggere i suoi racconti (comprandoli), dopo essere andato alla presentazione del suo libro qui al Candiani a Mestre. A farla breve, i tuoi mi piacciono di più: i suoi son racconti… raccontati, non mostrati e il suo assunto, ossia ciò che con essi aveva voluto mostrare e dimostrare, non era immediatamente chiaro e – come ho già avuto occasione di dirti – quando uno scrittore/una scrittrice deve spiegare quello che aveva voluto dire con quel racconto (o con quei racconti) o quel romanzo, significa che quelli e quello son in qualche misura deficitari e, quindi, non perfettamente riusciti nel loro intento essenzialmente comunicativo.
Del dottor Michael Crichton (era medico), lessi quand’ero giovanetto (e giovanotto) “Andromeda”, altri no; “Jurassic Park” non l’ho neanche considerato: variante moderna abbastanza originale del “Mondo perduto” di Sir Conan Doyle (altro medico). L’idea del tuo racconto ti ho già detto quali pezzi da ’90 della Letteratura britannica dello scorso secolo mi abbia richiamato alla mente come lo farebbero tutte le distopie.
Il seguito? Possibile, ma in questo iniziale bisognerebbe necessariamente mettere le premesse per i futuri sviluppi, anche dei personaggi che magari entrerebbero in azione più tardi al momento opportuno e che inventarli dopo darebbe l’impressione di una trama raffazzonata, inventata al momento (come in un romanzo a puntate) il cui disegno generale non è ben chiaro fin dall’inizio all’autore il quale rischierebbe grosso di dare l’impressione di non aver e saper tener ben salde le redini di ciò che sta scrivendo.

Barbara Businaro

Apr 18, 2017 at 10:50 PM Reply

La struttura di un racconto è totalmente diversa da quella di un romanzo. Perciò quando si parla di “seguito” di un racconto non è mai letterale: non si prende il racconto e lo si estende, è proprio una riscrittura, tenendo però ferma la storia che c’è alla base (in questo caso il concetto della scuola della felicità). Un romanzo è un progetto complesso, a lungo termine che gioco forza richiede un minimo di pianificazione maggiore di soli quattro paragrafi. Però leggo che spesso i romanzi sono partiti da piccoli racconti…

Stefano

Apr 19, 2017 at 11:33 AM

ci sono anche i romanzi brevi, tra l’altro. Domanda: ma i bambini “educati” ad essere felici sin quasi da quando son in fasce, come fanno a rendersi conto di essere felici se non ha mai fatto esperienza del suo contrario, l’infelicità? Come fanno a distinguere la differenza di stato e condizione?

Giulia Mancini

Apr 16, 2017 at 1:23 PM Reply

Molto bello il tuo racconto, con un finale aperto pieno di dubbi. Interessantissimo anche il video di Robert Waldinger: la felicità sta nelle relazioni umane positive, io concordo pienamente, ma non è così facile.
Le relazioni umane sono complesse e spesso quelle che reggono nel tempo, il più delle volte, hanno retto perché nella relazione qualcuno ha ceduto a qualche piccolo compromesso. Stessa cosa avviene nei rapporti di lavoro, sarebbe bello trasformare i colleghi in amici, ma non sempre questo è possibile, a volte può essere più prudente mantenere la distanza. Creare una società stile “grande fratello” è un pochino angosciante, il controllo sulle vite e sui pensieri non è mai garanzia di felicità, anche se tenere lontani i pensieri e le influenze negative può facilitare la serenità. Si può insegnare la felicità? Forse sì, ma senza negare la storia dell’olocausto o i libri di Stephen King, anzi forse bisogna mostrare il male di cui può essere capace l’uomo per far meglio comprendere l’importanza del bene. Su una cosa però sono d’accordo sul piano proposto, lavorare part time e avere tempo da dedicare a se stessi è una buona ricetta per essere felici, almeno io lo sarei…

Barbara Businaro

Apr 17, 2017 at 6:25 PM Reply

Si può insegnare la felicità? Beh, c’è un intero paese che fonda le proprie attività sulla ricerca della felicità. Il sovrano del Buthan ancora nel 1979 ha dichiarato che la felicità dei suoi sudditi è importante quanto il prodotto interno lordo ed ha creato il GNH, Gross National Happiness, la misura della felicità basata su un questionario di 249 domande inviate ogni anno ad ogni cittadino buthanese.
Mentre stavo scrivendo questo racconto, è andata in onda l’ottava stagione de Il testimone di Pif e il documentario Alla ricerca della felicità, in due parti. La sensazione però è che ad un alto indice GNH corrisponda un basso valore del PIL (GNP per loro, Gross National Product), perché il Buthan non è di certo una potenza alla pari degli USA. E qui, temo, è riassunto anche il concetto che la felicità di alcuni corrisponde al sacrificio di molti, troppi.

Nadia Banaudi

Apr 17, 2017 at 6:49 AM Reply

Originale anche più del solito questo tuo racconto e molto ma molto curioso. Sarà che il tema della felicità è attualissimo,caro a tutti e molto importante. Sarà che hai saputo rendere una realtà così assurda possibile che… se ti andasse di continuare il racconto io sarei davvero curiosa di leggere il resto. La storia si presta a essere continuata. Complimenti.

Barbara Businaro

Apr 17, 2017 at 6:25 PM Reply

La storia si presta ad essere continuata…come tutte le storie con finale aperto. 😉
Grazie Nadia. Magari in futuro ci farò un pensierino!

Darius Tred

Apr 18, 2017 at 10:20 AM Reply

Complimenti davvero. Mi è piaciuta molto questa storia. Mi piacciono i finali aperti, lasciano fantasticare con la propria testa.

Barbara Businaro

Apr 18, 2017 at 10:55 PM Reply

Grazie Darius! La storia si è proprio fermata lì, con Josie che gioca con la penna in mano, ma non so se firma o meno quell’accettazione. Forse perché mi premeva di più lasciar pensare il lettore sulla scuola, sul metodo, fargli venire qualche dubbio. E se i miei genitori mi avessero mandato in una scuola del genere sarei più felice…? 😉

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