Quello che non ho - Un racconto per Natale

Quello che non ho

Aveva lasciato l’ufficio oramai da tre ore e non aveva la minima idea di dove si trovasse in quel momento, un punto sperduto nella pianura padana che viaggiava in una direzione sconosciuta. La sua auto, l’ultimo modello suv di casa Mercedes con allestimento extra lusso, avanzava lenta e impacciata nella bufera di neve, solo i fari allo xeno a illuminare quel tunnel di ghiaccio.
Dopo aver lasciato il casello dell’autostrada, anche se il percorso gli sembrava errato rispetto alla destinazione impostata, aveva seguito ligio le indicazioni del navigatore. Lo stesso che lo aveva miseramente abbandonato nel nulla quando le nuvole cariche di maltempo avevano coperto il segnale satellitare. Doveva aver sbagliato a qualche rotonda, imboccando inconsapevole l’uscita dalla civiltà. Guidava praticamente nel vuoto oscuro, l’ultimo cartello visibile almeno una cinquantina di chilometri prima e l’ultimo lampione non lo ricordava nemmeno più. Nessun’altra luce gli aveva indicato la presenza umana nei dintorni. Il nevischio copriva tutto, cielo e terra si confondevano.
Guardò il display muto abbandonato sul sedile del passeggero. Il cellulare si era oramai spento e lui aveva dimenticato il cavo di ricarica sopra la scrivania. Tanta tecnologia e nessuna utilità. Non era preoccupato per la cena d’affari dove lo attendevano, erano abituati ai suoi imprevisti e conseguenti ritardi, anche alle sue mancanze. Ma iniziava a temere di dover passare la notte in quel buio infinito. La cosa non gli piaceva affatto.
Sospirò. Stavolta l’allerta meteo non era stata esagerata per motivi giornalistici. Avrebbe fatto meglio a fermarsi a dormire in albergo in città, invece di mettersi in viaggio verso casa, per raggiungere un albero di Natale solitario. La stanchezza cominciava a farsi sentire. Non aveva più l’età per queste avventure. Strizzò gli occhi per restare concentrato sulla strada, o su ciò che intravvedeva di essa. Premette anche un pulsante sul volante per accendere il lettore musicale, scegliendo di ascoltare la radio. Una voce umana dall’altra parte dell’etere lo avrebbe aiutato a sentirsi ancora vivo. Purtroppo sentì solo gracchiare le casse acustiche, come se i fiocchi di neve fossero entrati anche lì.
Spense tutto innervosito.
Fuori dal parabrezza il turbinio di ghiaccio e vento non accennava a diminuire. Sentì anche cambiare il terreno sotto le ruote, l’asfalto aveva lasciato il passo ad una strada sterrata, a tratti impervia. Strinse ancora con più forza il volante.
All’improvviso l’anteriore destro scivolò paurosamente a lato, senza controllo. L’uomo cercò invano di controsterzare, ma il mezzo non rispose. In pochi secondi si ritrovò inclinato verso il basso, piantato probabilmente all’interno di un fossato.
“Accidenti!”
Inserì la retromarcia e accelerò prima lentamente, poi con maggior spinta sul pedale. Le gomme posteriori slittarono, ruotando inutilmente sul suolo fangoso, senza muovere minimamente l’auto. Impossibile tornare indietro senza un carro attrezzi che lo trainasse fuori dai guai.
Respirò a fondo cercando di calmarsi.
Avventurarsi nella tormenta sarebbe stato troppo stupido, ma anche rimanere dentro il veicolo, senza cibo né tepore, non pareva un’ottima soluzione. Sarebbe davvero finita così dunque la sua vita? Il cavalier Nardini disperso nella notte, ritrovato morto assiderato dentro la sua automobile nella gelata campagna la mattina della vigilia.
Forse no. Non l’avrebbero cercato prima di due o tre giorni, con le festività già passate da un pezzo.
La fatica di una giornata snervante gli stava prendendo le membra, i muscoli indolenziti, la testa pesante. Doveva rimanere sveglio, sperare che la tempesta cessasse e alle prime luci dell’alba incamminarsi alla ricerca di aiuto.
Avrebbe avuto un altro motivo per odiare il Natale.

Si destò spaventato dal rumore assordante che proveniva dal suo finestrino. Un grosso molosso gli abbaiava contro, fermandosi solo per ululare o battere le zampe sulla portiera dell’auto. Il cuore dell’uomo prese a battere velocemente, ma non sapeva dire se per la paura della bestia o per la speranza che qualcuno potesse sentirla e accorrere in suo aiuto.
Finché non la vide. Una piccola lucina proveniva lenta lenta dal fondo, dondolando leggermente.
Man mano che avanzava, una figura chiara assumeva i contorni di un essere umano che camminava lungo la strada.
Scese nel fossato e avvicinò il viso, imbacuccato nel cappuccio e avvolto nella sciarpa, per guardare meglio l’auto.
Riconobbe i tratti gentili di una giovane donna.
“Ssssh, buono Arturo. Stai giù.”
Il cane smise di agitarsi e si tirò da una parte, seduto in attesa dei comandi della padrona.
Lei aprì la portiera e alzò il lume per fare chiaro all’interno.
“Si sente bene?”
“Credo di sì” rispose lui assonnato.
La ragazza prese una piccola fiaschetta d’argento dall’interno del suo giubbotto pesante e gliela porse.
“Ecco, beva un sorso.”
“Cos’è?”
“Grappa. La aiuterà.”
L’odore di alcol era davvero forte. Sentì il liquido freddo scorrere giù per lo stomaco e riscaldare all’istante ogni fibra del suo corpo indolenzito dal gelo. Il fuoco avvampò anche nella sua testa. Tossì per tutto quel calore inatteso.
“Arturo, tienilo tu.” Il cane prese tra le sue fauci il manico della lampada e la sostenne in alto con attenzione, ben addestrato ad assistere la sua amica e soccorrere gli sconosciuti.
“Venga, si appoggi a me.”
Era minuta eppure due braccia forti lo sostennero senza indugi, trascinandolo fuori dall’auto.
L’uomo si mosse con fatica. Affondò pesantemente la scarpe lucide nella neve fresca. La tempesta era finita, ma il cielo rimaneva minaccioso, senza alcuna stella ad illuminare la notte.
“Ecco, cammini da questa parte. Sulle mie orme precedenti. Arturo, andiamo a casa.”
Il cane li precedette e lentamente si inoltrarono nel buio profondo. Più si muovevano e più Nardini recuperava lucidità, ma non avrebbe saputo dire quanto tempo passò prima di vedere il piccolo casolare, con un’unica finestra accesa, che li attendeva placido e tranquillo nel bel mezzo delle tenebre.
“Siamo arrivati.” Aprì la porta cigolante e lo fece entrare.
Il profumo del legno bruciato e della cannella gli confortarono il cuore.

Senza bisogno di comandi, il cane poggiò la lampada a terra, scodinzolò fino all’angolo del camino e afferrò un paio di ciabatte dall’aspetto morbido e caloroso. Le depositò ai piedi dell’uomo con un guaito debole.
La ragazza lo sostenne per una spalla finché non si tolse le scarpe fradicie e infilò le pantofole. Lo aiutò anche a sfilarsi il cappotto, poi lo accompagnò davanti al fuoco e lo fece accomodare nella poltrona vicina. Gli mise sulle gambe una spessa coperta di lana.
“Resti qui, preparo qualcosa di caldo da mangiare.”
Arturo si accucciò nel tappeto davanti al fuoco, col muso appoggiato tra le zampe, ma in ben attenta osservazione dell’ospite e dei suoi eventuali bisogni.
Lei tornò invece verso la porta, si tolse i pesanti scarponi sbattendoli dai residui di neve e indossò un altro paio di babbucce, appoggiate al muro del caminetto per essere riscaldate.
Nardini osservò la piccola stanza. Il mobilio era vecchio ma lucido: un tavolo con quattro sedie spaiate, una credenza ammaccata e una vetrinetta piena di barattoli di ogni dimensione e specie, la poltrona su cui sedeva e un’altra più vicina alla finestra, con un cestino da cui spuntava un gomitolo di lana e un paio di ferri da calza. All’angolo opposto, una cucina economica emanava altro tepore e faceva ribollire il contenuto di una grossa pentola, che la donna stava lentamente rimestando.
A completare il tutto c’erano molti libri, accatastati ovunque, in ogni spazio possibile: nelle minuscole mensole a fianco del camino, in cassette di legno poggiate a terra e poi una sopra l’altra, sopra il davanzale della finestra, tra i vasetti della dispensa, nascosti nella parte più alta del mobile buffet, ammassati in bilico nelle sedute delle sedie.
Un pensiero gli sopravvenne di colpo: si frugò in tasca e recuperò il cellulare spento.
“Per caso ha un cavo per ricaricarlo?” chiese alla ragazza.
Lei sollevò la testa per osservarlo.
“No, mi spiace.”
“Può allora prestarmi il suo? Devo avvisare che sono qui. E chiedere soccorso per il mio suv.”
Gli rivolse un sorriso quieto. “Mi spiace, non ho un telefono, né mobile né fisso.”
“Ma non si preoccupi” aggiunse quando lo vide aggrottare incerto la fronte. “Domani passeranno per pulire la strada e verranno sicuramente a cercare notizie del proprietario dell’auto.”
Nardini sospirò. “Ma dove siamo esattamente?”
La ragazza stava riempiendo una tazza con qualcosa di scuro e fumante. Gliela porse.
“Ecco, beva questo tè intanto, la riscalderà.”
L’uomo lo sorseggiò piano, profumava di agrumi e miele.
“Siamo vicini al grande Po. Ancora qualche metro e ci sarebbe caduto dentro. Scivolare nel fosso è stata la sua fortuna.”

A svegliarlo fu nuovamente Arturo, che gli leccava delicatamente la mano, rilassata sul bracciolo della poltrona.
Nardini deglutì e si mosse appena sullo schienale. Il fuoco scoppiettava ancora allegro davanti a lui. La tazza vuota abbandonata in grembo. Doveva essersi appisolato solo un momento.
“Venga a tavola, la zuppa è pronta.” La ragazza spostò il grosso tegame al centro del tavolo, ora preparato per la cena.
L’uomo si alzò in piedi e si stiracchiò il collo. Si sentiva di nuovo vivo. Si sedette nella sedia vicino a lei.
“Non mi sono presentato prima. Mi chiamo Roberto. Roberto Nardini.”
“Ludovica. E lui è Arturo.”
Il cane aveva raggiunto la padrona e la guardava in attesa del suo cibo. Dopo aver versato due porzioni abbondanti nei loro piatti, lei mise altri due mestoli su una grossa ciotola e la poggiò a terra. Il cane si chinò ad annusare, diede qualche leccata esplorativa e infine cominciò a ingurgitare tutto con soddisfazione.
“Lui mangia sempre quello che mangio io, non vuole altro.”
Nardini prese il cucchiaio e assaggiò la pietanza, una minestra piuttosto densa, di fagioli rossi ed altre verdure, con qualche pezzetto di carne. Forse era la stanchezza, forse la gioia di essere sopravvissuto, ma era la cosa più buona che avesse mai mangiato.
“Lei abita qui?” le chiese.
“Si.”
“E che lavoro fa?”
“Non ho nessun lavoro al momento.” Lei prese una fetta di pane dal cestino, lo spezzò in due e un pezzo lo posò nella ciotola di Arturo.
“Beh, almeno ha una casa dove vivere.”
“Non è mia. Io non posseggo nulla. Mi ci lasciano abitare perché coltivo l’orto e tengo pulito il podere. Ma non è proprio un lavoro.”
Una giovane donna, sola, senza lavoro, in mezzo al nulla. Gli suonò terribile.
“Ma come fa senza telefono?”
Lo guardò divertita. “Non ho nemmeno la televisione. O una radio. Anzi, non c’è proprio l’energia elettrica qui.”
In effetti stavano mangiando illuminati dalla luce del camino e la stanza non aveva nessuna spina elettrica o interruttore. Sopra il caminetto c’erano diverse candele e moccoli consumati.
“Tutti i giorni cammino per un’ora, fino ai miei vicini, che hanno il telefono. Se non mi vedono, la passeggiata la fanno loro nel pomeriggio. Le distanze sono solo un po’ dilatate, ma il buon vicinato funziona ancora.”
Nardini annuì pensieroso. “Non ha paura?”
“E di che cosa?”
Ludovica prese la bottiglia lì vicino e verso del vino sui loro bicchieri. “Ecco, questo lo fa proprio il mio vicino, Amilcare. Beva.”
Era un buon rosso, corposo. Ma l’uomo non riusciva a comprendere la situazione.
“Come mai si è ridotta così?”
Lei lo scrutò, quasi soffocando una risata. “Ridotta?”
“Si, insomma… non ha avuto modo di studiare, trovare un lavoro in città, prendersi un appartamento, trovarsi un fidanzato?”
“Sono un ingegnere aerospaziale con dottorato in Fisica. Due anni fa mi preparavo a festeggiare il Natale a Ginevra, con i colleghi del Cern. Lavoravo all’LHC, per mezzo di una partnership con la Nasa.”
Se voleva sorprenderlo, c’era riuscita in pieno. Mille domande gli affollarono la mente, e lei comprese la sua curiosità.
“Ero stanca. Non era quello che volevo per me.”
“E la sua famiglia?” Da genitore, Nardini si chiedeva spesso come stava sua figlia. Non si parlavano da due anni. Dalla morte della madre qualcosa si era rotto tra di loro.
“Gli amici si scelgono, la famiglia purtroppo no. E non sempre siamo così fortunati. Non si sono mai preoccupati di chiedermi se ero felice. Non gli importava.”
Le parole, anche se non erano rivolte a lui, lo ferirono nel profondo. E se sua figlia fosse finita così? O in condizioni pure peggiori?
“Non sono una sprovveduta, mi creda. Ho scelto di vivere qui.”
Ludovica si alzò, prese i piatti oramai vuoti e li mise in un piccolo catino, sopra il mobiletto a fianco della cucina. Aprì lo sportellino del forno e ne tolse una piccola ciambella, emanava un intenso aroma di vaniglia.
“Il dolce” disse posandolo sulla tavola.
“Non pensa mai a tutto quello che le manca in questa vita?”
Lei gli sorrise serena. “Io non ho niente, eppure sono ricca” disse allargando le mani in aria.
“E quello che non ho, semplicemente non mi serve.”

Era mattina quando Arturo saltò sopra la sua branda e gli si accucciò a fianco. Quando Nardini aprì gli occhi, si trovò il muso del cane che lo scrutava a pochi centimetri dal suo viso. Il buongiorno arrivò con un uggiolio sommesso.
Sentì i passi di Ludovica sulle scale di legno che portavano alle camere da letto.
“C’è un bel sole stamane!” La ragazza aprì le imposte, inondando la stanza di luce. “Come va oggi?”
L’uomo si tirò su a sedere sul letto. “Meglio, decisamente meglio.”
“Ottimo, la colazione è già pronta. L’aspetto dabbasso.”
Quando scese di sotto, anche il fuoco nel camino stava cercando di rimettersi in forma dopo la nottata. La tavola era imbandita di tutto punto: pane appena sfornato e focaccine calde, latte fresco e burro fatto in casa, marmellate di vari colori in vasetto, frutta essiccata, biscotti secchi alla cannella, il caffè ancora fumante nella moka.
“C’è pure una crema di nocciole e cacao, me la prepara nonna Martina con le sue mani.”
“Beh, posso capire perché le piaccia la campagna.”
“Oh, non mangio tutto questo ogni mattino, ma oggi è la vigilia di Natale. E poi lei ha bisogno di riprendersi. Non è di sicuro abituato a questo clima. Per la verità era un po’ che non nevicava così da queste parti. Sa, i cambiamenti climatici…”
Nardini annuì, conosceva tutta la faccenda.
Si versò del caffè e guardò oltre la finestra il paesaggio candido e splendente, così diverso dalla sera precedente.
Intenti a consumare il pasto e pianificare la passeggiata fino alla fattoria vicina, non si accorsero che una jeep e un furgone si erano fermati davanti al casolare. Si riscossero solo quando bussarono forte alla porta. Erano due carabinieri, accompagnati da un meccanico.
“Ci ha contattati il suo socio, chiedendo di rintracciare il veicolo col controllo satellitare. Era preoccupato perché aveva mancato un appuntamento e non rispondeva al telefono. Ci sono stati parecchi incidenti per la neve anche in autostrada, ma lei non risultava coinvolto. Solo stamattina siamo però riusciti ad agganciare il segnale GPS della sua Mercedes.”
Terminata la colazione, seguirono da lontano le operazioni di recupero dell’auto.
“Allora, come passerà il Natale?”
“Mi è rimasta solo una figlia, vive all’estero e non ci vediamo da anni. Solo qualche messaggio ogni tanto. Dice che sta meglio per conto suo. Ci siamo persi, dopo la morte di sua madre. Non so perché sia andata così, cosa ho sbagliato.” Il suo sguardo si perse lontano, nell’orizzonte dei ricordi.
Ludovica gli posò la mano sull’avambraccio, per riportarlo indietro. “Credo che certe cose succedano perché devono succedere. Non c’è merito o colpa di nessuno, semplicemente accadono. E poi ognuno deve prendere la propria strada. Solo in questo modo possiamo veramente realizzare noi stessi. I legami non devono diventare catene.”
Nardini la osservò per qualche istante. Sembrava molto più adulta della sua età apparente.
“Non crede che al Cern abbiano ancora bisogno di lei?”
Ludovica sollevò le spalle. “Forse un giorno tornerò, chi lo sa.”
Si salutarono con un abbraccio.
Quando la sera Nardini rientrò finalmente in casa sua, il prezioso attico con esclusiva vista sulla piazza della città gli sembrò vuoto, triste ed inutile. La domestica gli aveva lasciato dei piatti pronti da scaldare e un biglietto con le istruzioni da seguire. L’albero di Natale al centro del salotto aveva lo stesso entusiasmo dei suoi fratelli al centro commerciale, impersonali ed estranei. Sotto erano ammucchiati i regali di rappresentanza dei vari clienti e fornitori della società. Una visione insipida. Nessun pacchetto fatto col cuore.
Percorse il lungo corridoio verso le camere da letto pensieroso.
“Io sono ricco, eppure non ho davvero niente.”

Attraversare nuovamente la campagna in auto, proprio nel punto dove aveva rischiato la vita, gli dava un po’ di angoscia. Lo accompagnavano però un sole scintillante e un cielo completamente terso. La neve poi stava iniziando a ritirarsi nel terreno e il freddo non era più così pungente.
Era giunto il Natale dunque e lui aveva preso una decisione quel mattino, dopo una notte tormentata nonostante il suo accogliente letto con piumino d’oca. Aveva afferrato tutte le scatole sotto l’albero del salotto, le aveva caricate una ad una nella station wagon, l’auto sostitutiva mentre il suo suv era in officina, si era vestito con abbigliamento da montagna e aveva imboccato senza indugi il lungo viaggio verso il casolare di Ludovica. Sarebbe arrivato giusto in tempo per il pranzo.
I discorsi della ragazza non l’avevano convinto del tutto e passare il Natale da soli gli sembrava terribilmente brutto. Conosceva la solitudine e non poteva credere che lei l’avesse davvero scelta. In cuor suo, sperava che qualcuno avrebbe fatto altrettanto per sua figlia, se ne avesse avuto bisogno.
Quel che vide però quando svoltò nel vialetto d’accesso alla casetta non se lo aspettava proprio. Parcheggiate lì davanti c’erano almeno otto veicoli, compreso un camioncino delle consegne. Altre tre biciclette erano appoggiate alla piccola staccionata.
Quando bussò alla porta di legno, nessuno gli rispose. Sbirciò dalla finestra: la stanza dentro sembrava vuota. Sentiva delle voci soffocate giungere da lontano, come un brusio in sottofondo, ma non capiva da dove provenissero.
Finché un uomo robusto e tarchiato girò l’angolo dall’altra parte dell’edificio.
“Ti dico che ho sentito qualcosa, non me lo sono inventato… Ecco, vedi? Buongiorno amico! E buon Natale!”
Dietro di lui apparve Ludovica, che gli rivolse un gran sorriso. “Nardini, ma che ci fa qui?”
Sollevo in alto il pacco regalo. “Sono venuto a festeggiare e ringraziarla dell’aiuto.”
“Ah, lei è quello della città finito nel fosso” esclamò l’altro. “Venga, venga, siamo tutti nel retro.”
Dietro la casa, addossata alle stesse mura, c’era infatti la vecchia stalla, oramai non più utilizzata per il ricovero delle bestie. In una parete era stato costruito un nuovo camino, molto più ampio dell’altro, con un girarrosto che in quel momento ospitava una fila di polletti in cottura. Nel mezzo avevano preparato una lunga tavolata, dove sedevano circa una ventina di persone. Un paio di bambini ruzzolavano tutto intorno. Un piccolo infante dormiva quieto tra le braccia della madre.
Dall’altro lato un interminabile divano era stato creato mettendo insieme diversi bancali di legno lucidati, ricoperti da enormi e coloratissimi cuscini. Bellissimo nella sua semplicità.
“Questa è la mia sala delle feste, le piace?”
“Sono stupefatto, davvero” rispose lui.
Ludovica lo presentò a tutti gli amici e gli diede una sedia dove accomodarsi.
Gli si avvicinò un anziano gobbo e canuto recando una fiaschetta. “Bevi caro, questo lo faccio io. Quest’anno mi è venuto proprio buono.”
Nardini assaggiò il liquido scuro. “Davvero notevole!”
Il vecchietto si allontanò soddisfatto del giudizio. “Ha detto che è notevole, avete sentito tutti eh?”
“Si si, Amilcare, passa di qua…”
Un’altra signora di mezza età gli porse invece un piatto carico di salumi e formaggi.
“Questi invece arrivano dalla mia fattoria. Buon appetito!”
Lui ringraziò ancora. Erano tutti gentili e conviviali, pur essendo in fondo uno sconosciuto.
Ludovica lo osservò a lungo prima di parlare.
“Pensava di trovarmi da sola, vero?”
Nardini annuì, sorseggiando un altro po’ di vino.
“Gliel’ho detto: io sono ricca e quello che non ho alla fine è ben poca cosa. Ma sono felice che lei oggi sia qui con noi. C’è sempre posto per un nuovo amico. Soprattutto al pranzo di Natale.”
Spuntato dal nulla, Arturo gli poggiò le zampe anteriori sulle gambe e gli diede una calorosa leccata sulla guancia. A conferma che pure lui l’aveva riconosciuto come nuovo membro del suo branco.

 

(C) 2019 Barbara Businaro

 

Note:
L’idea di questo racconto è scaturita da un post di Elena Ferro nel suo blog Volpi che camminano sul ghiaccio: Scrivere le nostre paure: la povertà (Avevo detto o no, Elena, che ci avrei creato un racconto per Natale?! 😀 )
Non ho mai scritto della povertà come tema dominante di una storia. E non perché ho paura della povertà. Tutti i miei nonni erano poveri contadini e con fatica si sono rialzati da un difficile dopoguerra. Più che la povertà però, temevano la fame. Se sei nato e cresciuto in campagna, le due cose non vanno proprio di pari passo. Si può essere poveri, ma la terra può sfamarti se la lavori con cura, patate e fagioli soprattutto.

La povertà però ai nostri giorni è anche una questione di prospettiva. Proprio come la ricchezza.

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Comments (20)

Nadia

Dic 25, 2019 at 8:09 AM Reply

La povertà ha molte declinazioni come hai lasciato intendere nel tuo bellissimo racconto. Mai come in certi periodi dell’anno se ne sente la forte presenza. Ti auguro un Natale ricco… .e ora scappo a lavorare!

Barbara Businaro

Dic 26, 2019 at 3:44 PM Reply

Grazie Nadia! Anche di ricordarci che a Natale, come nelle altre festività, c’è chi lavora. Non solo bar, ristoranti, alberghi, ma anche i servizi essenziali come ospedali e pronto soccorso, le forze dell’ordine tutte, e pure nel settore informatico, tra tecnici e sistemisti (lo volete sempre attivo il bancomat, no? 😉 ) Buone Feste a tutti dunque!

Brunilde

Dic 25, 2019 at 11:48 AM Reply

Il tuo racconto è bellissimo! Un bel regali di Natale, grazie davvero. Non posso commentare oltre: i fornelli chiamano! Auguri di cuore

Barbara Businaro

Dic 26, 2019 at 3:45 PM Reply

Grazie a te Brunilde! Ho sentito il profumino fin qua! 😀

Giulia Mancini

Dic 26, 2019 at 8:49 AM Reply

Un bel racconto perfetto per lo spirito natalizio, lasciare la città e il suo eccesso di consumismo non mi dispiacerebbe, è un pensiero che mi sfiora ogni tanto. Buone feste Barbara (visto che Natale è appena passato).

Barbara Businaro

Dic 26, 2019 at 3:48 PM Reply

E’ un pensiero che sfiora anche me, lasciare la città frenetica e rifugiarsi in un luogo dove la vita scorre più lenta, immersa nella natura… della Scozia! Tutte le mattine! 😉
Grazie Giulia, Buone Feste anche a te!

Sandra

Dic 26, 2019 at 11:53 AM Reply

Un bel racconto natalizio che ne esalta il vero spirito ma contro certi clichè familiari ingombranti.
Un abbraccione

Barbara Businaro

Dic 26, 2019 at 3:58 PM Reply

“Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi” è un motto che può diventare particolarmente costrittivo. Con chi passare il tempo deve essere una scelta, anche e soprattutto a Natale.

Grazia Gironella

Dic 26, 2019 at 12:27 PM Reply

Bel racconto! Tanti auguri, Barbara. 🙂

Barbara Businaro

Dic 26, 2019 at 3:59 PM Reply

Grazie Grazia, Buone Feste anche a te 🙂

Darius Tred

Dic 27, 2019 at 1:10 PM Reply

Bel racconto. Davvero.

P.S.: C’è una variante al motto citato sopra: “Natale con i buoi e Pasqua con chi vuoi…” 😉

Barbara Businaro

Dic 27, 2019 at 7:44 PM Reply

Grazie Darius!
PS. Non ti stai confondendo con “Mogli e buoi dei paesi tuoi”?! 😀
Che poi ho sentito anche questa “Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi, Ferragosto con i buoi” Ma non l’ho capita: intendono che Ferragosto si va in montagna in alpeggio o che a Ferragosto tipicamente si festeggia con una bella grigliata?! XD

Darius Tred

Dic 29, 2019 at 10:58 AM Reply

In realtà è un mix voluto tra i due detti, un modo come un altro per dire che a Natale a volte si preferisce semplicemente fare quel che si vuole, senza essere risucchiati da vuote dinamiche pseudo-familiari…

Barbara Businaro

Dic 29, 2019 at 3:08 PM Reply

Sul Natale e certe dinamiche familiari, ben ci aveva visto Mario Monicelli nel suo film “Parenti serpenti”. Era il 1992, ma certi schemi non cambiano mai, purtroppo…

Elena

Dic 28, 2019 at 4:30 PM Reply

Un bel racconto che sovverte i pregiudizi. A Natale si può osare di tutto, anche essere felici con poco. Buone feste cara Barabara e buone feste a tutti i lettori di Webnauta!

Barbara Businaro

Dic 29, 2019 at 2:52 PM Reply

Grazie Elena! Soprattutto perché l’ispirazione è venuta da te! 😉

Elena

Dic 29, 2019 at 6:51 PM Reply

Vuoi ridere? Ho letto tutto il racconto dal telefonino e non mi ero accorta della citazione al mio articolo, che babba! Sono andata a rileggere il tuo commento e in effetti avevi parlato di un’ideuzza per un racconto scaturita dal mio post. Sei una che mantiene le promesse, neeee 😉 Mi sono permessa di inserire nei commenti il link a questo post, così uniamo per sempre i destini di questi due blog 😀
Brava brava e ancora brava. Abbracci

Barbara Businaro

Dic 29, 2019 at 9:51 PM Reply

Ahahahah, mi pareva strano non dicessi nulla! 😀
Grazie ancora!

Mister E.

Gen 01, 2020 at 12:26 PM Reply

È fantastico quando un racconto ti ti porta proprio nei luoghi descritti e ti sembra di esserci, di viverlo, staccandoti dal momento e posto dove lo stai leggendo. Grazie di questo dolce viaggio natalizio!

Barbara Businaro

Gen 02, 2020 at 12:18 AM Reply

Oh guarda chi c’è! 😀
Ti svelo un segreto, se già non l’hai capito. La prima scena, quella in mezzo alla tormenta, l’ho scritta proprio pensandoti. A quel pomeriggio di dicembre di parecchi anni fa, con una vera tormenta di neve su tutta la pianura e tu che mi chiami disperso chissà dove nelle campagne milanesi, il navigatore fuori uso. Io, a casa ammalata, che per un’ora buona cerco di guidarti sulla strada innevata guardando Google Street View e incrociando le tue poche informazioni confuse tra fiocchi e nebbia con le immagini chiare e nitide delle stesse zone in pieno agosto. Eppure ce l’abbiamo fatta. Santo Google! 😉
Grazie di essere passato di qua, buon 2020!

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