Il codice Pàtton

Il codice Pàtton

Nelle sue diverse attività, Mario ha la straordinaria capacità di trovarsi sempre al posto sbagliato nel momento sbagliato. Questa notte stiamo per entrare nel museo più rinomato al mondo, il maestoso palazzo del Louvre.

Basato sul romanzo Il codice Da Vinci (The Da Vinci Code) di Dan Brown. Le descrizioni rispecchiano sia il testo del libro che le ambientazioni scelte per l’omonimo film del 2006. Ove discordanti, è stata data prevalenza al libro.


 

“Arretéz Pont Neuf. Arretéz Pont Neuf. Sortie a droite.”[1]
L’altoparlante annuncia la mia fermata della metro. Ripiego la copia del giornale e mi dirigo veloce verso l’uscita. Complice il bel tempo di questi giorni di aprile, la serata si sta animando delle coppiette che si riversano a passeggiare lungo il fiume e nei giardini appena illuminati.
Sono nella città più romantica del mondo, ma io sono da solo e sto andando al lavoro. Dovrei essere orgoglioso di quello che faccio, proteggere tutta quella meraviglia concentrata in un unico edificio, ma questa settimana mi tocca il turno di notte e non sono per niente tranquillo, dopo che l’altra sera mi sono sentito seguito.
Supero il vicolo e saluto con un cenno Armand del cafè all’angolo, impegnato a prendere le ordinazioni al tavolo. Pochi passi ed al negozio di souvenirs c’è Eléonore che dalla vetrina mi rivolge un gran sorriso. Una vera dea. Peccato che col mio francese stentato non riesco a farle un complimento decente, figuriamoci invitarla fuori a cena.
Più avanti incrocio lo sguardo di Lùc, che fa l’occhiolino in direzione di due turiste bionde che stanno osservando tra la sua merce delle borsette con la Tour Eiffél stampata. Gli sorrido complice in risposta.
Conosco tutti in questa via oramai, perché quando esco dall’ufficio mi fermo spesso, o dall’uno o dall’altro, a mangiare qualcosa e rilassarmi al placido gorgogliare della Senna.
Ma il mio preferito è il mini-crepes-panini-pizzas di Gaspard, per gli amici Gas. Lo scorgo indaffarato alla cassa, ma appena mi vede mi grida: “Bon traval, Mariò!”[2]
Tzè! Buon lavoro! E’ colpa sua se adesso mi sento poco sicuro in questa città.
Una sera stavo bevendo una birra nel suo locale all’uscita del turno e stavamo guardando insieme alla tv un documentario sul lato tenebroso della capitale. Un uomo giurava di aver nientemeno un poltergeist in casa, che faceva volare pericolosamente in aria gli oggetti prima di fracassarli sul pavimento, spaventando i presenti. Ero piuttosto scettico su quell’intervista, ma Gas fu molto bravo a convincermi.
“Eh, mon ami, Parigi è una città ricca di misteri. E di fantasmi. Qui hanno inventato la ghigliottina, non so se mi spiego…Non capisco come tu riesca a lavorare là dentro e non avere paura! Ovunque ti giri c’è una storia inspiegabile da raccontare: le serrature indiavolate di Notre Dame, la casa infestata di Pigalle, l’attraversa-muri di Montmatre, l’uomo rosso delle Tuileries…e Belphagor! Proprio tu non hai mai sentito parlare di Belphagor?”
Sapevo che era una serie televisiva degli anni ’60, esportata qualche anno dopo anche in America. Ma Gaspard quasi si offese e alzando il dito in aria minaccioso concluse: “No, no, no! La serie non ha inventato nulla di nuovo. Belphagor esiste! E qualcuno l’ha anche visto, ti dico!”
Il cicaleccio dell’attraversamento pedonale mi riporta al presente. Seguo gli altri pedoni e passo la strada.
Eccomi arrivato. Davanti a me, nella sua enorme maestosità che si staglia sul cielo al tramonto, il mio ufficio. Il Museé du Louvre.

 

 

 

 

Abitato per quasi quattro secoli dai re di Francia, il Louvre è oggi uno dei più grandi musei al mondo. Un palazzo che occupa circa 135 mila metri quadrati di superficie per 700 metri lungo la Senna e che espone solo 35 mila delle 300 mila opere d’arte a catalogo. Anche abitandoci per una settimana non si riuscirebbe a visitarlo tutto. E noi guardie siamo solo in 40 ogni notte a proteggerlo.
Per l’esattezza, a sorvegliare solo le entrate, neanche i ladri si presentassero bussando. Ammesso che riuscissero a toccare qualcosa, gli allarmi bloccherebbero tutti gli accessi all’istante e rimarrebbero chiusi come topi in gabbia.
Mi dirigo a sinistra dell’edificio, verso Jardin de l’Infante. Questa sera infatti sono di servizio nella prestigiosa Ala Denon. Si, si, stasera veglio su di lei, la donna più famosa di Francia, la mia prediletta, il sorriso più enigmatico della storia, La Gioconda di Leonardo.
Passo il mio badge elettronico ed il collega della portineria conferma la mia identità al sistema di riconoscimento. Dalla vetrata mi saluta appena con un cenno del capo e l’espressione mesta. Uhm, sempre allegri qui, cone me poi particolarmente visto che sono americano e la cosa non gli piace affatto.
Entro nella sala operativa per il cambio del turno di sorveglianza.
Nell’angolo intravedo Claude Grouard, una delle poche guardie scelte con porto d’armi, parlare animatamente con i colleghi. Chissà quale impresa titanica gli sta raccontando. Quanto si vanta. Ma vorrei proprio vedere con un ladro armato davanti cosa ha il coraggio di fare. Per fortuna col mio francese capisco solo la metà delle stronzate che dice.
Mentre gli altri si avviano in un giro di ricognizione delle sale assegnate, il collega della portineria mi chiama alla sua postazione.
“Mariò, sostituisci un attimo finché vado toilette?”
“Certamente”. Il suo inglese è migliore del mio francese.
“Ah, le directeur Saùniere est en attend de sa petite-fille”[3]
Lo guardo confuso. “Petite-fille?” chiedo.
“Oh, yes…his nephew”.
Il direttore attende suo nipote. Annuisco con il capo. Non l’ho mai visto, ma non credo ci saranno problemi di sorta. Quante visite può ricevere il dirigente di un museo a quest’ora?
Rimango solo nella stretta saletta vetrata. E nella penombra mi prende di nuovo quella sensazione, come se un paio di occhi mi fissassero alle spalle. Piano piano, senza far rumore, apro il cassetto ed estraggo la torcia che mi porto sempre appresso insieme al walkie-talkie. Attendo un attimo, ascoltando il silenzio della stanza dietro di me a orecchie tese. Trattengo il fiato. Poi all’improvviso, in uno scatto fulmineo, mi giro ed accendo la torcia.
Nulla. Tutto calmo. Sospiro. Mario se non la pianti vai fuori di matto con sta storia.
Rassegnato, mi accomodo meglio sulla sedia e ricomincio la lettura del giornale iniziata in metropolitana. Salto la parte di cronaca nera, che non è proprio il caso, e vado direttamente alle notizie sportive.
Ma questa volta sì un rumore dall’esterno mi fa sobbalzare.

 

 

 

 

Il portone è stato chiuso e qualcuno ha suonato all’entrata.
Guardo nel corridoio interno ma non c’è traccia del mio collega. Che faccio? Lo aspetto ancora qualche minuto?
Nel frattempo il campanello elettronico si fa insistente. Dev’essere una cosa urgente.
Guardo nel monitor della telecamera principale, ma distinguo solo una figura alta, con i capelli chiari. La lampada all’esterno dev’essersi fulminata perché fuori oramai è buio ma le immagini sono terribilmente scure. Posso provare ad accendere l’infrarosso e poi zoomare sulla persona. Mentre cerco alla tastiera la combinazione corretta, apro l’interfono per comunicare con il visitatore.
“Bonsoir, je peux vous aider?” chiedo cortese.
“Oui, je voudrais voir le conservateur.”[4]
Ecco, cerca proprio Saùniere. Riesco ad avvicinare l’immagine della telecamera sull’individuo, ma è troppo offuscata. Questo dev’essere la conversione all’infrarosso. Premo il tasto e…
Accidenti! Ho spento tutti i monitor! Oh merda, merda!
Mi affanno a premere bottoni qua e là, dò un colpetto agli schermi, controllo veloce i cavi, ma niente.
Non vedo più nulla e dalla vetrata non ho visuale all’esterno del portone.
E adesso?
Dall’altra parte giunge la voce dello sconosciuto: “Est-ce que quelqu’un est là?…is anyone there?”[5]
Oh, conosce anche l’inglese, con una buona pronuncia, proprio come il direttore. Probabilmente è proprio suo nipote. Mi affretto a chiedere: “Are you Saùniere’s nephew?”[6]
La risposta arriva con qualche secondo di ritardo.
“Oui, oui…I’m the nephew and he’s waiting me. I know the way.”[7]
Meno male, è lui. E non devo nemmeno accompagnarlo. Sarebbe un problema perché non posso lasciare la portineria vuota. Attivo l’apricancello automatico e lo lascio entrare.
Devo però sbrigarmi a sistemare i video prima che torni l’altra guardia, altrimenti sono cavoli. Ma esattamente cosa avevo premuto? Illumino con la torcia le piccole icone sulla tastiera, quando qualcuno entra nella sala a fianco.
“Mariò, je suis ici. Tu peux y aller.”[8]
Cristo, è qui. Quale sarà il bottone giusto? Ah ecco, forse questo simbolo di rettangolo con un sole all’interno. Pigio con forza e…
Fiuuuuu, i monitor tornano a funzionare all’istante. Appena in tempo. Lascio la sedia al collega, che mi guarda sospettoso, e con un cenno del capo mi avvio veloce verso il mio giro di perlustrazione delle sale.
Beh, meglio se prima vado a prendermi un caffè.
Dietro alle scale, una porta di servizio fa accedere alle macchinette automatiche riservate al personale. Ce ne sono parecchie disseminate per tutto il palazzo, per evitare che anche noi ci accalchiamo ai bar dell’interno aperti al pubblico.
Le lunghe finestre di questo sgabuzzino danno direttamente su Cour Carrèe e la vista dell’edificio quadrato immerso nell’ombra è spettrale. Scorgo delle luci vaganti dall’altra parte, di fronte a me. So benissimo che si tratta della torcia di un’altra guardia, ma mi dà comunque i brividi.
Di notte le sale del museo sono illuminate da luci rosse posizionate a livello pavimento, lasciando le opere d’arte all’oscurità per proteggerle dagli effetti dannosi della luce chiara.
Mi rivolgo al distributore automatico e…oh cavoli, non è possibile! Non ci posso credere!
Perché nessuno mi ha avvisato?

 

 

 

 

Un foglio bianco attaccato con lo scotch mi avvisa che la macchina è HORS SERVICE, fuori servizio.
Sbuffo. Tanto vale cominciare il giro di controllo dal primo piano, così mi fermo all’altra macchinetta nascosta dietro il Cafè Mollien, che tra l’altro utilizza un espresso arabica migliore.
Attraverso velocemente le sale delle antichità greche, cercando di non notare come le ombre delle statue sembrino seguirmi leste e bramose dietro la mia piccola luce portatile.
Raggiungo l’ascensore C per salire. Paradossalmente i locali elevatori sono le parti più illuminate del museo durante il turno di notte.
Appena le porte automatiche si riaprono davanti a me sono colpito dall’aria secca, quasi tagliente alle mie narici, che invade tutto il piano. Qui più che altrove i deumidificatori dell’impianto di climatizzazione del palazzo sono alla massima potenza, perché devono proteggere dall’azione corrosiva dell’anidride carbonica i grandi dipinti italiani per cui il Louvre è rinomato in tutto il mondo.
All’inizio ho fatto fatica ad abituarmi a questo ambiente, dovevo uscire fuori all’aperto spesso perché avevo la sensazione che mi mancasse l’ossigeno, oltre ad un mal di gola fastidioso. Il trucco sta che dopo il turno, quando torno a casa, uso lo spray nasale di acqua termale per neonati. Me l’ha insegnato proprio Saùniere, in una delle nostre conversazioni in inglese.
Mi piacciono le nostre chiacchierate, mi spiega sempre parecchie cose, soprattutto sull’arte. Mentre di me dice che le mie domande curiose lo divertono. Tipo chi diamine s’è inventato una piramide di vetro in mezzo al giardino e come cavolo fanno a pulire tutte quelle lastre, soprattutto quando nevica.
Mi dirigo a sinistra, passando per una serie di gallerie tutte collegate. Dal fondo del corridoio in marmo distinguo un mormorio di voci concitate. Nascosto sulla sinistra c’è l’ufficio del curatore. E questa sera di dev’essere una rumorosa riunione famigliare. Meglio stare alla larga. Lo saluterò all’uscita se ne avrò occasione.
Attraverso la Galleria d’Apollo, nel mio giro in senso orario dell’intera Ala Denon. I soffitti alti e bui di queste sale mi fanno rabbrividire. I musei sono meravigliosi di giorno, ma di notte sono lugubri, avvolti in una funerea penombra. Assomigliano ad enormi caverne da cui aspettarsi un improvviso volo di pipistrelli, come nei migliori film horror.
Cerco di focalizzare le immagini diurne di questi saloni, oramai impresse nella mia memoria, così da distrarre ed imbrogliare il mio subconscio. Funziona fino all’uscita del Salon Carrè, quando inevitabilmente il mio sguardo si fissa sul pavimento ai miei piedi illuminato dalla torcia.
Deglutisco. Riconosco questo parquet. Ci siamo. Ma stasera è davvero difficile passare di qui.

 

 

 

 

La Grande Galerie non è conosciuta in tutto il mondo solo per la sua straordinaria lunghezza di 450 metri, per l’ampiezza dei suoi soffitti vetrati che si aprono a volta sul cielo di Parigi o per gli inestimabili capolavori italiani che contiene. E’ famosa anche per il suo caratteristico pavimento in legno intarsiato, lunghi listelli di rovere disposti a spina di pesce in più file affiancate. Ai visitatori crea la fantastica illusione di fluttuare sospesi sopra lievi onde in movimento. E infatti io soffro il mal di mare a camminarci sopra.
Sospiro. Ho davvero bisogno di una dose di caffeina, ma devo almeno percorrere metà di questo tunnel prima di svoltare verso la stanza di servizio. Uhm…vado a destra o a sinistra?
Questa è una delle poche gallerie dove, per regolare l’afflusso di turisti, sono stati posizionati nel suo mezzo statue dell’epoca e qualche divanetto in stile, creando due sensi di marcia.
Se prendo la destra passo troppo vicino all’imbocco della sala 6, senza possibilità di reagire se qualcuno mi attacca da lì. A sinistra invece mi ritrovo ad attraversare in larghezza tutto il fondo per raggiungere la zona bar al lato opposto, esponendomi maggiormente come bersaglio.
…ma cosa sto dicendo?! Non c’è nessuno che mi aspetta e nessuno che mi segue. Piantala Pàtton! L’oscurità ti sta giocando brutti scherzi davvero!
In un moto d’orgoglio, mi avvio risoluto a percorrere il lungo cammino, senza troppo pensarci. Mi tengo il più possibile al centro, cercando di mimetizzarmi dietro gli ostacoli che trovo nel corridoio.
A metà strada scorgo l’entrata della Salle des Etats. Dovrei andare a verificare che sia tutto a posto, ma non ci tengo a vedere la Monna Lisa di notte. L’aura rossa che s’innalza dalle luci a terra le conferisce un aspetto sepolcrale, il suo delicato sorriso si trasforma in ghigno, tanto che mi aspetto salti fuori dalla cornice e mi insegua svolazzando.
No, dritto alla meta, verso il mio caffè.
Sono quasi arrivato in fondo quando all’improvviso sento qualcosa che mi blocca il passo, trattenendo il mio piede. Incespico rumorosamente e quasi mi trovo lungo disteso. Che cavolo è stato?
Nella concitazione mi cade la torcia. L’afferro veloce e comincio a correre, senza voltarmi indietro per vedere cosa, o chi, mi avesse bloccato. Col cuore sempre più martellante e la vista annebbiata piego a destra in direzione del bar. Gli ultimi metri li faccio scivolando con le scarpe sul marmo lucido. Supero le toilette e gli ascensori. Mi precipito alla maniglia del locale di servizio e mi ci fiondo dentro. Chiudo la porta e mi ci appoggio di peso, ascoltando ogni minimo rumore all’esterno.
Niente. Silenzio. L’unico a disturbare è il mio respiro affannoso.
Attendo che il mio battito cardiaco si calmi. Qui la stanza è illuminata dai neon dei distributori e mi sento più tranquillo. Cerco la chiavetta elettronica per avere il mio agognato espresso, quando non posso fare a meno di notare le mie scarpe.
Il nodo di una è sciolto ed il laccio è stato strappato.
Ecco cos’era!!
Ridendo di me stesso, infilo il token magnetico nel distributore, digito il mio codice di sblocco e sto per selezionare la bevanda, quando un bip sonoro mi interrompe.
Che vuol dire PIN errato?
Il display continua a lampeggiare la scritta imperterrito.
Ma cosa ho digitato? Oddio, è un po’ che non la uso, sono sere che offrono gli altri, ma non ricordo di aver cambiato il codice.
Riprovo: 0000, il più semplice, quello delle connessioni bluetooth. Niente, pin errato.
Forse è 1111, il default della mia sim telefonica? Macché, ancora non ci siamo.
Oh insomma! 1234? 4321? No, niente da fare.
Sbuffo. Ma è mai possibile che anche per un caffè ci vuole una password? Appoggio torcia e walkie-talkie sopra la macchina.
Concentriamoci. Non posso aver usato un codice complicato. Si, Saunière mi ha parlato per esempio della sequenza di Fibonacci, ma i primi quattro numeri non mi dicevano granché.
Magari ho messo il 7777, lo stesso del televisore? Digito speranzoso e…PIN ERROR nuovamente.
Aspetta, forse il codice del bancomat? 6106? Sei…uno…zero…sei…trattengo il fiato…luce verde!
Ah ecco, lo avevo messo per ricordarmelo meglio. Ottimo.
In un istante il profumo inebriante della miscela arabica invade lo stanzino. Mi appoggio al tavolino lì a fianco e finalmente sorseggio in pace il mio espresso. Adesso il turno sarà in discesa fino all’alba. Cos’altro può succedere ancora?

 

 

 

 

Dopo una mezz’ora di tranquillità, con un caffè lungo ed un altro rinforzato al ginseng, decido di terminare il mio giro. Apro la porta sicuro e mi dirigo sereno oltre il Cafè Mollien e le grandi scalinate ben illuminate dal traffico di Place du Carrousel e dalla luce della Pyramide che si intravede dalle alte finestre.
Attraverso le sontuose Red Rooms create da Napoleone III che ospitano i dipinti francesi del 18esimo secolo, con le pareti di vivido porpora contrastate dalle cornici dorate.
Lo so che mi stanno guardando. Gli eroici protagonisti della storia, immortalati in queste tele, mi fissano con aria indignata. Loro hanno guidato armate invincibili, governato su imponenti imperi, rovesciato ingiuste monarchie a suon di rivoluzioni, sacrificando sé stessi sull’altare della gloria. Ai loro occhi, io sono un miserabile che vive la sua semplice esistenza cullandosi nel benessere che ha solamente ereditato.
La mia autostima ne risente alquanto. Devo solo ricordarmi che in caso d’incendio anche un poveraccio come me può far la differenza.
All’uscita dell’ultima sala rossa, mi ritrovo di fronte un’assoluta meraviglia: in cima allo scalone di Lefuel si erge maestosa la Vittoria alata o Nike di Samotracia. Nike si, come quelli delle scarpe sportive che si sono ispirati a lei, dea della vittoria, come simbolo di forza, velocità e trionfo.
E sotto quelle vesti scosse dal vento, è terribilmente sexy. Un corpo perfetto.
Oltrepasso la gradinata per tornare nuovamente all’ascensore, quando nel lungo corridoio davanti a me scorgo il direttore correre affannosamente verso il Salon Carrè. Non l’ho mai visto così. Dev’essere successo qualcosa e forse mi sta cercando.
Preoccupato per lui, accelero il passo per raggiungerlo. Sono quasi arrivato all’entrata del salone, quando sento dei movimenti concitati anche dietro di me. Mi giro e nella penombra rossastra intravvedo una figura pallida, molto alta, avvolta in una veste chiara che mi sta inseguendo rapidamente, quasi librandosi in aria.
Cazzo, un fantasma! Allora esistono davvero! E pure Saunière stava scappando. Se è riuscito a spaventare lui!
Mentre mi precipito spedito all’interno della sala, sento lo spettro urlare in lontananza.
“Si fermi, tanto non ha scampo.” Riconosco all’istante l’accento. Sveglia Mario! E’ il tono dello sconosciuto che ho fatto entrare e che a quanto pare non è affatto il nipote del curatore. Che stupido sono stato. Devo avvisare subito gli altri!
Cerco alla mia cintura il walkie-talkie, ma non c’è. Ma che cavolo?! Dov’è finito?
Ricontrollo, ma non lo trovo.
Il distributore! L’ho lasciato là sopra. Ho preso la torcia ma mi sono dimenticato del walkie-talkie, merda!
Saunière nel frattempo deve aver raggiunto la Grande Galleria. Dietro di me sento avvicinarsi nitidi i passi dell’intruso. Afferro il cellulare in tasca, ma com’è ovvio non c’è campo. Solo scariche sulla linea. I sistemi di sicurezza del Louvre bloccano le onde GSM e UMTS, per quello ci dotano di una ricetrasmittente a breve raggio.
Cazzo, sta arrivando! Da solo non posso farcela. Devo trovare un nascondiglio subito e chiamare rinforzi.
A pochi metri, a fianco della piattaforma disabili, visualizzo una delle uscite d’emergenza. La apro facendo forza sul maniglione antipanico. Purtroppo non suona alcun allarme perché le porte interne non sono collegate all’impianto, solo quelle esterne.
La richiudo alle mie spalle.
Riprovo col telefonino, ma proprio non funziona. Porca puttana, cosa posso fare per chiedere aiuto?
Da qui potrei scendere a piedi al piano terra, ma ci metterei comunque troppo tempo a raggiungere la portineria e poi con i colleghi a tornare su.
Mi guardo affranto attorno in cerca di una soluzione istantanea. Pensa Pàtton, pensa…
Una porta esterna! Devo aprire una di quelle e far scattare io l’allarme in tutto il palazzo. E’ l’unico modo!
Qui dietro c’è una scala di servizio, anche se non illuminata. Scendo svelto i gradini quando la torcia prima lampeggia debole e poi si spegne. Cazzo, le batterie…
Mi fermo, la scuoto, provo ad accenderla nuovamente un paio di volte, ma non dà alcun segnale. Non è possibile! Proprio adesso!
Non ho tempo, devo comunque allertare le altre guardie. Avanzo a tentoni nel buio, un piede dopo l’altro, mantenendo lo stesso ritmo e le distanze degli scalini precedenti. Sono a metà della discesa quando improvvisamente si attivano tutte le sirene dell’edificio. Ma come…? Forse le ha attivate Saunière?
Distratto, incespico al buio e mi ritrovo a rotolare fino al pianterreno, dove sbatto la testa rovinosamente.
Provo a rialzarmi, ma avverto un forte giramento, un bagliore accecante e poi di nuovo è oscurità.

 

 

 

 

Dopo un tempo infinito, mi sveglio al suono di voci alterate e odore di disinfettante. Non riesco a muovermi e sento tutti i muscoli pesanti, inerti. A malapena riesco a riaprire gli occhi, la vista leggermente offuscata.
Sono adagiato su una barella a terra. Riconosco il soffitto dipinto a fresco di un ufficio a fianco della sala riunioni vicino alla portineria.
Dall’altra parte un uomo sta sbraitando furioso. “Allora, che cavolo è successo qui? Da dove è entrato?”
Nessuna risposta.
La stessa persona avanza verso di me, visibilmente arrabbiato. “Sono il capitano Bezu Fache della polizia giudiziaria. Mi sente? Cosa ha visto, figliolo, se lo ricorda?”
Un infermiere interviene a mia difesa. “Capitano, ha una commozione cerebrale, lo dobbiamo trasportare subito in ospedale. Dubito però che ricorderà qualcosa. Era molto agitato quando l’abbiamo trovato, delirava, ed ho dovuto somministrargli benzodiazepine…che purtroppo hanno l’effetto collaterale di cancellare la memoria breve”.
Il capitano impreca e se ne va.
In realtà ricordo tutto, ma proprio tutto.
Ho visto Belphagor! Il fantasma mi ha inseguito per tutta la sera nascosto nell’ombra, finché al momento opportuno mi ha buttato giù per le scale. Voleva sicuramente uccidermi!
Ma chi mi crederebbe?

 

(c) 2015 Barbara Businaro

Note:
[1] Trad. Fermata Pont Neuf. Uscita a destra.
[2] Trad. Buon lavoro, Mario.
[3] Trad. Il direttore Saùniere sta aspettando sua nipote (al femminile).
[4] Trad. Buonasera, posso aiutarla? Si, vorrei vedere il curatore.
[5] Trad. C’è qualcuno là?
[6] Trad. E’ il nipote di Saùniere?
[7] Trad. Si, si, sono il nipote e mi sta aspettando. Conosco la strada.
[8] Trad. Mario, sono qui. Tu puoi andare.

 

Per concentrarmi e portarmi nell’atmosfera surreale del museo, durante la stesura ascoltavo sempre quest’opera:

 

Mappa del Louvre:

Il Louvre è uno dei pochi musei al mondo a non concedere un virtual tour nel proprio sito istituzionale. Non ci sono mai stata (nemmeno a Parigi se è per quello) ed è difficile trovare indicazioni sulla sua disposizione interna, probabilmente anche per questioni di sicurezza. Mi sono dovuta affidare a Google Street View ed alle foto dei turisti e ripercorrere quanto descritto da Dan Brown per decidere il percorso di Pàtton. Ecco il risultato.

Il codice Pàtton - mappa del Louvre 1

Il codice Pàtton - mappa del Louvre 2

Il codice Pàtton - mappa del Louvre 3

Il codice Pàtton - mappa del Louvre 4

Il codice Pàtton - mappa del Louvre 5

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