Ma tu, chi ti credi di essere?

Chi ti credi di essere?

Una mattina come tante in un parco di passaggio, impegnato nelle mie letture presso una panchina solitaria, ma con un occhio fugace alla vita dei passanti, assisto senza volere ad un’insolita scenetta.
Una decina di metri avanti a me, un paio di anziane signore si fermano a salutare una giovane donna e, ne presumo, suo figlio. Interpellato in merito, il ragazzino mostra orgoglioso ad una di queste il foglio dove stava colorando fino a poco prima. Non potevo sentire chiare tutte le parole con cui il bambino spiegava il suo disegno, ma era trasparente l’entusiasmo che esprimeva nel raccontare la sua idea. Punta il dito verso una pianta fiorita lì vicino e annuisce attento alle domande della signora.
Il sorriso della madre però non riesce a nascondere l’irritazione per l’intraprendenza del figlio. Un ragazzetto in età scolare, fisico magro e lungo che si affaccia all’adolescenza.
Pochi altri convenevoli e le anziane tornano sui loro passi, lasciando lì il giovane artista che continua a rimirare il foglio mostrandolo compiaciuto anche alla madre. Appena le donne escono dalla visuale, questa inizia a sgridarlo per l’intemperanza dimostrata.
Qualche stralcio mi giunge dal tono alterato: smettila, la prossima volta, moderazione, piedi per terra.
Il ragazzino prova evidentemente a ribattere, finché non scorgo la donna afferrarlo per un braccio, guardarlo negli occhi e dirgli:
Ma chi ti credi di essere, eh?
Che se in qualche occasione può essere una valida chiamata alla modestia, in questo caso mi sembrava fuori luogo e fuori tempo.
Non si era trattato di un comportamento maleducato, né saccente da parte del fanciullo, per quel che potessi arguire da lontano. E credo che non abbia nemmeno compreso il carattere offensivo di quella domanda retorica. Il tono delle madre invece, e l’averlo strattonato per ricevere attenzione, ha sortito sì effetto su di lui. Abbassa il capo sottomesso.

Tornai pensieroso alle mie pagine, ma da troppo tempo ero fermo alla medesima riga ormai.
A fianco a me si siede un giovane trentenne, su per giù l’età mi sembra quella. Poggia la borsa da lavoro e ne estrae un taccuino nero e un astuccio arrotolato di stoffa, che rivela diverse matite da disegno e carboncini consumati.
Prende una matita e inizia a tratteggiare velocemente, irrefrenabile.
Terminato lo schizzo, lo guarda un attimo. E devo ammettere che ho allungato il collo il più possibile, con discrezione, ma non sono riuscito a capire di cosa si trattasse.
Gli suona il cellulare nel taschino della giacca, una chiamata alla realtà. Guarda l’oggetto senza rispondere. Sospira e mette via tutto nella borsa. Lasciando la panchina, mi rivolge uno sguardo così triste che mi gela il cuore.

La mia vista incrociò il bambino di fronte e per un attimo mi sembrò di vedere passato e futuro accostati. Sogni negati, sogni assopiti, e sogni traditi.
Il fanciullo se ne stava ora in un angolo, in silenzio, non aveva più avuto il coraggio di prendere i pennarelli dallo zainetto, l’album abbandonato sulle ginocchia.
La madre parlava sguaiatamente al telefonino, impicciandosi delle questioni altrui senza preoccuparsi di chi era costretto ad ascoltare intorno. Soprattutto senza appurare che i presenti non avessero qualche causa con i suoi pettegolezzi.
E la domanda si agitava nelle acque tempestose della mia mente.
Chi ti credi di essere?

Non so quale sia la risposta corretta, ammesso che ce ne sia una.
Ma so cosa avrei risposto io.
Sono tuo figlio, ma sono anche una persona con sogni e desideri, e una vita da percorrere.
E non è giusto che io chiuda i miei sogni in un cassetto perché tu non hai potuto, o voluto, realizzare i tuoi.
E’ la mia occasione adesso e le tue paure non devono diventare le mie.
Ho bisogno di credere nei miei sogni fino in fondo.
Fino all’ultimo respiro.
Ma io mi credo d’essere un bambino e invece risponderei come un uomo.
Perché la difficoltà è che questa domanda viene compresa solo quando è troppo tardi, quando il danno è già fatto e magari non c’è nemmeno più nessuno ad ascoltare la replica.
Sarebbe meglio dunque non formularla mai, nemmeno per egoismo, sapendo quanto dolore può arrecare.
E se proprio prude sulla lingua, rivolgersela prima davanti a uno specchio.
Ma tu, chi ti credi di essere?

 

Vecchio viaggiatore di panchine avatar Guest blogger: Vecchio viaggiatore di panchine
Di lui sappiamo poco o niente. Se non che viaggia parecchio, ci scrive da luoghi lontani, a volte anche senza muoversi affatto. Colleziona foto di panchine, ognuna delle quali ha contribuito al suo spirito ed alla sua penna.

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Comments (10)

Nadia Banaudi

Lug 21, 2017 at 6:29 AM Reply

Colpisce ancora il viaggiatore di panchine e va a segno. L’ultima domanda non lascia dubbi. Molto, do quanto diciamo a voce alta è diretta a noi e quello specchio riflette proprio insicurezze e acredini. Spero tanto il bimbo trovi la forza di credere in sé e la madre acquisti la vista e l’attenzione che le manca.
Sempre un piacere sedersi sulla sua panchina.

IlVecchio

Lug 21, 2017 at 12:59 PM Reply

Se ha preso dalla madre la forza delle proprie convinzioni, possiamo sperare che il ragazzo se la caverà, anche con la strada in salita direttamente dentro casa.

silvia

Lug 21, 2017 at 8:55 AM Reply

Interessante il mondo che si scorge dalla panchina: incontri di sogni spezzati prima di essere sognati e gioie passeggere. Forse sarebbe sufficiente scrollare via le paure e provare a vivere. 😉

IlVecchio

Lug 21, 2017 at 1:04 PM Reply

Le panchine sono tesori inestimabili. Il guaio è che me le stanno togliendo da ogni parco pubblico, per questioni di sicurezza dicono. Dovrò attrezzarmi per portarmi dietro un seggiolino da pesca, che non avrà mai lo stesso sapore di una solida panchina immobile.

Elena

Lug 22, 2017 at 7:41 AM Reply

Mi piacciono le panchine e le storie che essi ci raccontano. Esse non sono la realtà, ma solo ciò che la nostra anima in quel momento vuole raccontarci…
Oltre alla storia, conviene ascoltarla…

IlVecchio

Lug 23, 2017 at 12:21 PM Reply

Le nostre sono sempre fotografie, istantanee del momento. Null’altro sappiamo delle vite altrui.

Giulia Mancini

Lug 22, 2017 at 9:34 AM Reply

A volte dalle panchine si osservano stralci di mondo che sono una vita intera. Spero che il ragazzino trovi la forza per realizzare i suoi sogni, nonostante la madre.

IlVecchio

Lug 23, 2017 at 12:22 PM Reply

In fondo ognuno di noi ha i suoi demoni, a volte in famiglia, a volte nella società, e a volte ce li portiamo dentro.

iara R.M.

Lug 23, 2017 at 11:34 PM Reply

Chi vive i propri sogni con la certezza che questi aspettino solo il momento giusto per realizzarsi, suscita insofferenza in chi riesce a vedere solo presunzione dove invece, più spesso, c’è solo tanta speranza, determinazione, desiderio. E allora, tutti pronti a salvare dalle illusioni e a riportare con i piedi per terra. Sì è pronti a scaraventare il bagaglio esperienza-delusioni-frustrazioni su chi avrebbe almeno il diritto di provare a fallire. I bambini poi, credono di essere e poter essere qualunque cosa e sinceramente, penso sia giusto così. 🙂

IlVecchio

Lug 24, 2017 at 10:40 AM Reply

Sono convinto che bisogna riservare un angolo fisso per quella fanciullezza e preservarla sempre, perché sono i sogni (e non i soldi) che muovono il mondo.

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