La vita che volevo di Lorenzo Licalzi. Un'antologia di racconti particolare

La vita che volevo
di Lorenzo Licalzi

Comunque vada, per quanto ti piaccia la tua vita, ce n’è sempre un’altra che avresti voluto fare e non hai fatto.
La vita che volevo, Lorenzo Licalzi

Ci sono persone nella vita quotidiana con cui raramente parli di lettura. Puoi averci discussioni interessanti su tutto lo scibile umano, dalla tecnologia IoT alla filosofia Kaizen, dalla fisica quantistica alla coltivazione idroponica, ma non sono accaniti lettori di romanzi oppure hanno un certo pudore a mostrare le loro preferenze fuori dalla saggistica.
Quella volta però che iniziano il discorso, proprio loro, con la straordinaria frase “Ho letto un libro…” e deduci dal tono che non intendono un manuale di digital marketing o un testo di antropologia ma un romanzo fatto e finito, sai bene che quello non è, non può essere, un libro qualunque.
Molli ogni altro ragionamento e ti metti in ascolto, certo che la recensione in arrivo sarà davvero sensazionale. Quel titolo non solo gli è piaciuto tanto da distoglierli dalle consuete occupazioni, ma li ha colpiti così tanto da doverne addirittura parlare con qualcuno. E non un amico a caso, ma necessariamente te, che di libri ne parli e ne scrivi.
E’ così che il piccolo libricino di Lorenzo Licalzi è arrivato da me.

La vita che volevo è una raccolta di racconti, nove per l’esattezza, più un’introduzione dell’autore sul momento esatto in cui lui stesso si è sentito chiedere da una zingara a un semaforo “Ma è questa la vita che volevi?” e una riflessione finale dove sempre Licalzi svela la sua vita da fotografo lasciata da giovane in Giamaica e come quel giorno al semaforo sia cambiato di nuovo tutto, passando dalla professione di medico psicologo, dirigente di una casa di riposo fondata con un amico, a quella di scrittore per caso, e poi a tempo pieno.
Sono solo 204 paginette, ringraziamenti e sommario compresi, ma sono di una bellezza inaudita.

Non conoscevo nulla di questo autore, anche perché leggo di più romanzi stranieri, ma non l’avevo mai incrociato tra gli scaffali in libreria. Così mi sono messa alla ricerca di informazioni: Lorenzo Licalzi, genovese classe 1956, ha esordito nel 2001 con il romanzo Io no pubblicato da Fazi e diventato due anni dopo un film diretto da Simona Izzo e Ricky Tognazzi. Nel 2005 è stato poi finalista del Premio Bancarella con il libro Il privilegio di essere un guru, nel 2009 ha vinto il premio Selezione Bancarella con 7 uomini d’oro e di nuovo nel 2016 con L’ultima settimana di settembre. Proprio quest’altro titolo mi è stato consigliato dal mio amico lettore-poco-lettore, tanto che la volta successiva me l’ha regalato ed è in attesa sul tavolino.

Nonostante una carriera di scrittura oramai ben avviata, questa piccola antologia di Licalzi, uscita nel 2009 con Rizzoli, non ha ottenuto buone recensioni in rete, per quanto alcune siano talmente odiose che puzzano di ritorsione e invidia. Eppure chi mi ha riferito la sua sorprendente lettura, ha pure ammesso di averlo di gran lunga preferito all’inutile pomposità di Alessandro Baricco, del quale aveva appena concluso il romanzo Novecento (per quest’ultimo, che non ho letto, mi è stata riportata anche una particolare riflessione sull’uso della parolaccia, forzata e fuori contesto, e da qui forse l’insoddisfazione della lettura).

Dopo aver sbirciato un estratto in rete su Google Books, in particolare la curiosa storia della lettera di presentazione spedita proprio a Fazi Editore, mi sono procurata il cartaceo, perché certi scritti li apprezzi di più quando sono tangibili tra le mani.
Questo libricino mi ha coccolato con una storia assaporata di tanto in tanto, anche quando il finale non era proprio quello che mi aspettavo e mi lasciava lì spiazzata, nel mezzo dell’intenso periodo di studio di questi mesi, tra codici astrusi e normative incomprensibili, perché si sa, gli esami non finiscono mai.
A Lorenzo Licalzi va il merito di avermi quasi fatto cambiare idea su Dio, il Karma, il Destino, il Caso o la Necessità.
Quasi…


La vita che volevo

Diventi adulto quando inizi a chiederti se era davvero questa la vita che volevi. E soprattutto quando pensi di non poterla più cambiare, interrogandoti un po’ con rammarico e un po’ con malinconia perché è andata per quella direzione e non per un’altra.
I racconti di questa piccola antologia girano intorno a due temi: le scelte che si fanno nella vita, a discapito di altre; il destino, o il caso, per cui un’azione minima cambia tutto senza rimedio. Le storie si susseguono apparentemente slegate tra loro, ma in realtà hanno un ordine sia per l’età dei protagonisti, dai giovanissimi che chiacchierano del loro futuro fino al vecchio marinaio ancora in attesa della sua Caterina, sia per le riflessioni dei personaggi in merito alla propria vita.
Come l’autore, consiglio di leggerli nella sequenza di stampa.

Il marziano

Francesco e Federico, in una serata passata in compagnia di una canna nella penombra della stanza di Federico, si interrogano sull’Universo infinito, sulla creazione senza inizio, sull’anima dopo la morte, sul Paradiso e su Dante, sulla reincarnazione e sui marziani, ma soprattutto su Dio che non può essere così perfetto, sul perché siamo e cosa siamo, sul tempo circolare, sul futuro da grandi e sui sogni. Tutte domande che mi faccio lo stesso, ma senza bisogno di fumare nulla. 😉
Ironia e serietà di due giovani la cui vita è ancora tutta da scrivere. E proprio da questo racconto, è stato sviluppato in seguito il romanzo Io no pubblicato nel 2001 e diventato l’omonimo film Io no uscito nelle sale nel 2003.

«Ma secondo te siamo soli nell’universo?»
«Oh cazzo, tutte le volte che ti fai una canna poi mi chiedi se siamo soli nell’universo!»
«E tu rispondimi, no?»
«Ok. Sì, siamo soli nell’universo.»
«Ma come? Con tutte le stelle e i pianeti che ci sono vuoi dire che…»
«Non è questione di stelle o pianeti, Federico, noi saremmo soli nell’universo anche se l’universo fosse pieno di extraterrestri, noi siamo soli. Quindi, chissenefrega degli extraterrestri, che poi, se vogliamo, gli extraterrestri sono già tra noi.»
«Vuoi dire che si sono infiltrati, come diceva Jack Nicholson in Easy Rider?»
«Ma che Jack Nicholson! Voglio dire che delle volte mi sembra di vivere in un mondo di extraterrestri, ecco cosa voglio dire.»

Quando si dice il destino

Laura è un’infermiera di trent’anni in attesa dell’uomo della sua vita, dopo essersi rotta le ossa con qualche storia deludente, in particolare con un medico sposato, suo superiore, che la illudeva di lasciare la moglie. Ma l’amore segue percorsi strani.
Basta invertire un 8 con un 9 e inviare un messaggio a una sconosciuta. Ed ecco che Laura, la sconosciuta in questione, si imbatte per caso, o per destino, in Gabriele Grimaldi, quasi quarant’anni, medico di Roma, single, uscito da una lunga storia con una collega. Tutto incredibilmente perfetto, forse anche troppo.

Le mie amiche mi prendono in giro perché m’illudo che esista il principe azzurro, e che un giorno mi porterà via sul suo cavallo
bianco. Dicono che sono troppo romantica, sognatrice, ingenua. Be’, se credere nell’amore vuol dire essere ingenui, allora sì, lo sono, o magari sono loro che non sanno più sognare.
Credere nell’amore, per me, significa credere nel destino. Nulla succede per caso. È il karma che guida tutte le nostre scelte. L’idea che hanno gli orientali della vita mi ha sempre affascinato.
[…]Comunque, l’uomo che cerco io, e che adesso credo finalmente di avere trovato, è uno che sappia stare con i piedi per terra ma riesca anche ad alzare lo sguardo verso il cielo. Un po’ come me, che però sto troppo col naso all’insù. L’uomo che cerco deve guardare dove mette i piedi, e anche dove li metto io, per non farmi inciampare.
Ecco: se uno crede agli incontri karmici, e io ci credo, il modo con cui la mia vita si è incrociata con quella di Gabriele è il più karmico di tutti.

L’ultimo giro

L’ultimo giro è quello di poker (credo, non sono una giocatrice) tra quattro amici, compagni di classe al liceo, ora alla soglia dei cinquant’anni. Ricordando le avventure scolastiche, come Chiara soprannominata Strappacazzi o la Chiara fidanzatina dell’epoca avvistata per strada, dimessa e invecchiata, oppure dell’amico popolare in quinta finito come rappresentante di aspirapolveri, si raccontano in quelle che sono le loro vite attuali, tra un matrimonio inabissato per noia e trascinato per inerzia e la solitudine di un amore perduto anestetizzato da storielle fugaci, senza futuro. Colpa del destino o colpa del caso?

«Cioè, è sempre un po’ la stessa cosa ma con una sfumatura diversa… c’è chi nelle cose azzecca sempre i tempi giusti e c’è chi arriva sempre con un po’ di ritardo, è così! o fai parte di una categoria o dell’altra, ci sono quelli che arrivano in stazione puntuali e quelli che arrivano quando il treno è appena partito, ma non dipende da loro, cioè certe volte sì ma spesso no, io per esempio arrivo sempre un attimo dopo… non so perché ma arrivo sempre fuori tempo massimo di un minuto. Ho perso un concorso fondamentale per entrare in magistratura perché mi sono laureato due mesi dopo, ho perso una donna fondamentale perché c’è arrivato un altro un mese prima di me, e adesso sono solo, invece secondo me, a proposito di quello che dicevamo prima, era quella giusta, quella con cui mi sarei fermato, insomma, tutto così, anche nelle piccole cose… se c’è un’offerta che so… per un telefonino, state tranquilli che io lo vengo a sapere o ci arrivo il giorno dopo, e non lo trovo più.»

L’indovinello

Seguendo lo stesso filo del racconto precedente, ascoltiamo la telefonata tra Patrizia e Carla, le mogli di Matteo e Franco, due amici della partita di poker, dando voce anche al pensiero femminile sullo stessa tema, le scelte che si fanno nella vita guardata a metà strada del percorso. Patrizia, soddisfatta del proprio lavoro ma con l’assenza di fondo di un figlio mai avuto, e Carla, che invece ai figli ha sacrificato tutto, anche la propria femminilità e indipendenza, riconosco che la forza delle donne è la sensibilità. L’indovinello poi è alquanto conosciuto e in effetti è un bel test, solo chi ha la mente aperta avrà la risposta pronta.

«È una vecchia cosa, ma i ragazzi di oggi non la conoscono di sicuro: un padre e un figlio hanno un incidente automobilistico, arrivano sul posto due ambulanze che li trasportano in due ospedali diversi. Quando il bambino arriva in ospedale, il chirurgo, guardandolo, dice: non posso operare mio figlio, non me la sento, chiamate il mio sostituto. Come è possibile? Tu lo sai perché dice così?»
«Boh, non lo so, perché?»
«Vedi che allora ho ragione, ma mica sei la sola, il dramma è che spesso non sanno rispondere neppure le donne, ci devono pensare troppo, e se non lo sanno loro come si può pretendere che lo sappiano gli uomini?

Io sono Dio, il Karma, il Destino, il Caso, la Necessità

Con questa storia Licalzi sembra voler rispondere alle domande dei quattro amici della partita di poker: è il destino, per cui ti succede quello che doveva succedere, o solo il caso, l’imprevedibilità assoluta, a determinare la nostra vita?
Maddalena, impiegata presso un avvocato, single dopo essere stata lasciata a un passo dal matrimonio, viene avvisata dalla sensitiva Franca: sta per incontrare l’uomo della sua vita. Dall’altra parte Paolo, un giovane avvocato divorziato, è alla ricerca della donna giusta per lui, magari proprio la persona che sta per attraversare la strada.
E l’autore, che si trasforma in Dio, il Karma, il Destino, il Caso o la Necessità, gioca a dadi con le loro vite.
Questo è il racconto che mi ha travolto, e pur comprendendo il senso per cui è stato scritto, preferirei l’altro finale, quello dell’universo parallelo.

«Sì ma come farò a riconoscerlo?» le aveva domandato ancora, più per gioco che per effettiva convinzione.
«Stai tranquilla che te ne accorgerai. Tutto ciò che farai quel giorno porterà a farvi incontrare, le vostre vite, ora distanti, si sfioreranno per una frazione di secondo, i vostri occhi s’incroceranno e basterà quello sguardo a unirvi per sempre… Non so dirti cosa succederà, se lo incontrerai in un bar o per strada, se ti fermerà o ti chiederà qualcosa, quello che so è che dopo quello sguardo nulla sarà più come prima. Però ricorda, qui vedo che potrebbe succedere qualcosa che ti distrarrà proprio nell’attimo in cui le vostre vite si sfioreranno, e allora i vostri sguardi non si incroceranno e il tuo destino cambierà.»

Il più grande filosofo di tutti i tempi

I nostri antenati neanderthaliani avevano acquisito la coscienza della morte, e dunque della vita, con la conseguente inumazione di defunti, forse pure una religione primordiale, l’esistenza di un divino e di un aldilà.
In questo racconto l’autore ricostruisce i pensieri del giovane Uth, uno degli ultimi uomini di Neanderthal, mentre si interroga sulla caccia, sui corpi freddi, su suo padre e gli altri antenati, sul pericolo di diventare freddo come loro.
Trentamila anni dopo, la stessa caverna di Uth viene scoperta nella zona del Circeo, nel sito preistorico chiamato Grotta Guattari.

Uth sorrise per la prima volta. E sorrise perché ora sapeva che dopo la morte li aspettava un’altra vita. Una vita dove non avrebbero più sofferto il freddo, la fame, il dolore delle ferite. Una vita senza belve che li potessero sbranare, senza quell’impalpabile ma violento senso di pericolo che li terrorizzava, senza la fatica della caccia. Forse senza neppure l’incombenza del passo eretto, così difficile da mantenere. Le prede si sarebbero lasciate catturare e gli alberi sarebbero stati carichi di frutti. Avrebbe capito tutto ciò che ora non capiva. Ora poteva attendere la morte sereno, perché sapeva, era certo, che dopo avrebbe avuto una vita migliore.

Due dialoghi stupefacenti

Più che di due dialoghi, si tratta di due storie che hanno in comune proprio gli stupefacenti quale soggetto e non aggettivo. Troviamo la coppia di Lucia e Roberto, incastrati in una dipendenza che ha portato lei ad essere sieropositiva, ma a salvare almeno la loro bambina Sara, anche se quella siringa sarà l’ultima volta. E poi ci sono le pietre di Michele e Dario, che dopo un tiro di coca pesante decidono di dare un passaggio in auto a Cinzia, rimasta a piedi a tarda notte. Certe volte il destino però è fatale.

«Ma che vita è, dimmi Lucia, che vita è?»
«Vita.»
«Vita di merda, vuoi dire.»
«Tutte le vite lo sono.»
«Non è vero. Una volta non eravamo così. Non era questa la vita che immaginavamo quando ci siamo conosciuti… ti ricordi? Ti ricordi, eh? Ti ricordi quante idee, quanti progetti? Non erano questi i nostri sogni. Ti ricordi com’eri? O te lo sei dimenticata? Ti ricordi quanto ridevi? E hai visto come siamo finiti, dietro a questa merda?»
«È andata così. Nessuno ci può fare niente ormai, si vede che era destino.»

Tutta la mia vita in un attimo

Come spiega Licalzi nei ringraziamenti finali, questo racconto nasce in realtà da un’idea di Gian Paolo Ivaldi, che conservava nel cassetto con il titolo La contravvenzione, e concessa all’amico Licalzi per una rielaborazione e una riscrittura, durante una sera di fronte a una bottiglia di Redigaffi.
Mi piacerebbe poter leggere la versione originale di partenza, ma devo dire che questa è una storia ben sviluppata, dove le parole non mostrano tutto e lasciano lo spazio per il colpo di scena finale. Per come è strutturata, mi ha ricordato uno dei miei film prediletti, Il sesto senso.

Mi sono reso conto con angoscia che quelli sarebbero stati i miei ultimi istanti di vita.
Quell’uomo, furioso ma imperturbabile, stava premendo con forza la canna della pistola sulla mia tempia destra, costringendo la mia guancia sinistra contro il muro freddo della camera da letto.
Ho avvertito chiaramente, trasmesso dalla canna della pistola, il movimento della mano che si preparava a premere il grilletto. Nonostante la visuale ridotta riuscivo a intravedere l’orrore che quel bastardo aveva appena commesso. Mia moglie Flavia era esanime sul letto, le lenzuola intrise del suo sangue che ancora sgorgava a fiotti da un piccolo foro provocato da un colpo a bruciapelo, proprio all’altezza del cuore.

Le mani

Questa è una storia d’amore, di una struggente bellezza assoluta. Poesia, poesia pura.
Erano solo due bambini la prima volta che si sono amati, alla capanna sulla spiaggia. Ma la figlia di un avvocato non poteva rimanere con il figlio di un marinaio, e così Caterina gliel’hanno portata via. E con lei forse anche suo figlio, ma lei ha promesso di tornare con il loro bambino.

Il vecchio guarda la spiaggia e poi si guarda le mani, per lui il segno più evidente del passare degli anni. Ha il volto arso dal sole e solcato da una fitta ragnatela di rughe. Ma le rughe non le vede, invece le mani sì, e le riconosce a stento. Queste mani un tempo così grandi e vigorose, tagliuzzate dalle reti da pesca, si sono fatte scarne e ossute, indurite dai calli. Il vecchio ripensa alla sua vita, a tutti i giorni spesi per guadagnarsela, per viverla, senza avere davanti, – e sotto, e intorno – nient’altro che mare.

Nell’ultimo racconto autobiografico finale, si torna dalla zingara al semaforo e quel che succede dopo quell’incontro. Ed è questa la parte che mi ha colpito di più de La vita che volevo: si parla di scrittura creativa.

 

La genesi di uno scrittore

Questa parte del libro è la prima che mi è stata riportata dal mio lettore-poco-lettore, perché gli era parso curioso, quasi irreale, il modo in cui Lorenzo Licalzi è diventato suo malgrado uno scrittore, per caso (o per destino?).
Dopo aver capito che quella no, non era la vita che voleva, Licalzi ha ceduto la sua parte della società e mantenuto solo qualche consulenza come psicologo che lo impegnava solamente al mattino. Dopo alcuni mesi di questa riduzione lavorativa, decide di aggiungere anche l’attività di perito per conto del tribunale, con l’aiuto di un amico avvocato che gli consiglia l’acquisto di un computer per redigere delle relazioni perfette. Per imparare a scrivere velocemente alla tastiera, gli suggerisce di prendere un libro, leggere una frase e poi riscriverla al computer. Al termine della copia di un intero romanzo, avrebbe anche imparato tutti i trucchi che un computer offre rispetto alla macchina da scrivere.

Dopo una settimana, quando ero arrivato alla terza pagina, non ne potevo più – sia del libro che del sistema suggerito dal mio amico avvocato – e ho pensato: Quasi quasi un romanzo me lo scrivo da solo, così prendo due piccioni con una fava, imparo a scrivere al computer e mi alleno a farlo in modo interessante. E da quel giorno il sacro fuoco dell’arte si è acceso in me. Sono stato colto da un irrefrenabile fervore creativo, tutto quello che avevo letto (e devo dire che avevo letto parecchio, questo sì), pensato, fantasticato, sperimentato, vissuto, ascoltato, osservato, tutto quello che mi aveva emozionato e tutto quello che volevo dire (erano probabilmente le cose più superficiali e più urgenti che stavano lì, assopite, chissà da quanto tempo) usciva in un flusso continuo di idee che si adattavano magicamente alla storia che stavo scrivendo e poi se ne andavano per i fatti loro, tanto che per stargli dietro, vista la mia lentezza bradipica a ticchettare sulla tastiera, ho dovuto abbandonare il computer. Scrivevo a penna alla velocità della luce – tipo quelli che scrivono in contatto con l’aldilà – e poi ricopiavo sul computer. Chissà cosa m’era preso.

Fin qui è una parte che bene o male conosciamo tutti, intendo chi scrive: arriva un momento in cui le idee scorrono fluide, non si sa bene da dove. In quel periodo, Licalzi scrisse quattro racconti, di quaranta pagine ciascuno: Io no, Non so, Il privilegio di essere un guru e Che cosa ti aspetti da me?, che sono i titoli di alcuni suoi romanzi. Ma come arrivò alla pubblicazione?
Legge e rilegge e corregge i racconti, finché dopo tre mesi stampa quel che definisce il Capolavoro, lo fa rilegare in tre copie e lo invia alla tre case editrici italiane più importanti, certo di ottenere una risposta e dover pure scegliere con chi pubblicare. Dopo tre mesi di silenzio, stampa altre tre copie per altre tre case editrici. E di nuovo silenzio.
E pure questa è una parte che qualcuno di noi conosce bene.

Un giorno in libreria Licalzi si imbatte nel romanzo Route 66 di Aldo Dieci, dove lo scrittore, sotto pseudonimo, racconta le peripezie per pubblicare il suo primo libro. Il protagonista di Route 66 invia il manoscritto alla casa editrice Fazi e viene convocato, nella finzione letteraria, dal suo direttore editoriale Simone Caltabellotta, un tipo che a Licalzi sembra interessante e con il fiuto giusto per i talenti. Ma esisteva oppure no?
Internet era ancora agli albori e le ricerche di una persona su Google o su Wikipedia non erano facili come oggi, Facebook poi nemmeno esisteva. Così, ignaro che le case editrici ricevessero centinaia di manoscritti al mese e fossero già attivi canali privilegiati come le agenzie letterarie, Licalzi decise di tentare la sorte.

 

Così ho mandato il Capolavoro alla Fazi accompagnato da una lettera «All’attenzione riservata e personale di Simone Caltabellota (se esiste)», ho scritto proprio così. La lettera era demenziale, ricordo che iniziava più o meno in questo modo: «Egr. Dott. Simone Caltabellota, io non so se lei esiste veramente oppure è solo un personaggio di un libro che si intitola Route 66, tuttavia, nel caso esistesse la pregherei di…» e continuava in modo ancor più delirante. Era una lettera molto breve ma doveva essere ben scritta perché qualche giorno dopo ho ricevuto una telefonata.
«Sono Simone Caltabellota, c’è Lorenzo?»
«Sono io.»
«Ho appena finito di leggere la tua lettera, quindi come vedi esisto.»
«Eh meno male.»
«Se il tuo libro è brillante come questa lettera ti pubblico.»
Io muto.
«Facciamo così, di solito non leggo per primo i dattiloscritti che arrivano in casa editrice, però per te farò un’eccezione. Ho visto che sono quattro racconti, per adesso ne leggerò uno solo, quale vuoi che legga?»
«Io no.»
«Va bene, ti chiamo tra quindici giorni.»

Lo so già cosa vi state chiedendo, lo stesso che mi domandai io. Sì, Simone Caltabellota esiste davvero, ed è stato direttore editoriale presso Fazi. Ha fondato il marchio editoriale Lain e pubblicato alcuni casi letterari come Stephenie Meyer, l’autrice della saga Twilight a cui io tengo moltissimo. Ne ho parlato in questo mio post: Midnight Sun di Stephenie Meyer. Non è incredibile come i libri che mi capitano tra le mani per caso, o per destino, siano poi tutti collegati? 🙂

Dato che Lorenzo Licalzi è poi diventato uno scrittore di tutto rispetto, pensate che dopo quindici giorni sia arrivata la conferma della pubblicazione per il Capolavoro, l’insieme dei racconti inviati a Fazi, e invece no. La parte più. interessante, per me che scrivo racconti, è proprio questo dialogo.

Il giorno in cui ci siamo incontrati, per prima cosa gli ho chiesto se aveva letto gli altri racconti e se gli erano piaciuti.
«No.»
«Non ti sono piaciuti?»
«No, non li ho letti.»
«E allora, quando li leggi?»
«Non li leggo.»
«Come non li leggi?»
«Non li leggo perché per adesso non mi interessano.»
«Cioè?»
«Cioè, Io no non è un racconto, ha il respiro di un romanzo, qui dentro ci sono gli spunti per farlo diventare un bellissimo romanzo che tu scriverai e io ti pubblicherò.»
«Coosa? Tu sei matto. Sono quaranta paginette uscite così, non saprei cos’altro scrivere.»
«Sì che lo sai. Sono sicuro che lo sai, sono così sicuro che ti ho preparato il contratto, lo firmi, ti diamo un milione perché siamo piccoli ma seri, e tra sei mesi, un anno, quando vuoi, torni qui e mi porti il romanzo finito.»
Sono uscito dalla Fazi con il contratto in mano e l’assegno in tasca, senza sapere se ero triste o felice.

Aveva ragione Simone Caltabellota ovviamente e quei racconti sono tutti diventati romanzi, tutti pubblicati.
Inevitabile dunque, alla fine di questa antologia, che l’autore si chieda se questa era la vita che voleva, se ce n’era un’altra ancora in serbo per lui, se sia stato il destino, o il caso, l’incontro con la zingara, l’aiuto dell’amico avvocato, trovare Route 66 sullo scaffale, azzardarsi a scrivere a Fazi all’attenzione di questo nome fittizio ed essere letto quel giorno, in mezzo a tante altre lettere, per pura curiosità.
Purtroppo però il trucco funziona una volta sola, amici scrittori. Simone Caltabellota non lavora più per Fazi. 😉

 

E la vostra vita?

Era davvero questa la vita che volevate? Avete mai pensato a quelle occasioni in cui avete deciso per una strada, lasciandone da parte un’altra? Avete mai provato a tornare indietro e ripassare al bivio?
In effetti tutto quello che faccio da quando ho aperto il blog è proprio cercare di ricondurre la vita che ho alla vita che volevo, e ancora voglio, cambiare lentamente la direzione che altri (persone, ambiente, tempi) avevano tracciato per me. Mi ostino a credere, e su questo Licalzi dovrebbe darmi ragione, che non è mai troppo tardi, specie per scoprirsi scrittori.

Sono le condizioni di contorno che determinano le tue scelte e il tuo destino.
La vita che volevo, Lorenzo Licalzi

 

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Comments (16)

Giulia Mancini

Mag 31, 2021 at 8:50 AM Reply

Questo libro mi attira molto, proprio per le argomentazioni e le riflessioni che porta con sé già nel titolo. Mi sono chiesta un sacco di volte quale fosse la vita che volevo e ho già formulato la risposta, ogni giorno cerco di indirizzarla verso la direzione che vorrei, perlomeno ci provo.

Barbara Businaro

Giu 01, 2021 at 12:20 AM Reply

Su alcune argomentazioni non mi ha convinto del tutto, infatti ho scritto “quasi”. 🙂
Però mi piace molto come scrive, l’ironia di alcuni dialoghi, la profondità di altri, la crudezza di alcun scene così vere, mi piace anche quando il finale mi lascia lì basita.

Sandra

Mag 31, 2021 at 10:20 AM Reply

Un editore è un buon editore proprio quando ha quell’intuito di cui parli proponendo già un contratto sulla base di un racconto. Ma sono rari. La vita è fatta di tante vite e di fasi, al di là dei rimpianti, non ho voglia di scavare oggi, nella sua completezza e complessità la mia vita è in buona parte la vita che non sapevo di volere ma volevo.
Da ragazza mi sognavo realizzata nel campo per cui ho studiato, pensavo a tacchi, tailleur e alberghi lontani. Ho scoperto che odio portare i tacchi e li metto di rado, e la sera voglio tornare a casa mia.
Volevo scrivere e lo sto facendo, certo, avrei preferito ottenere di più, ma i risultati non sono mancati.
Volevo un amore grande, sono stata una ragazzina molto romantica, e l’ho avuto, tardi ma l’ho avuto, e ce l’ho ancora.
Lorenzo Licalzi, di cui non ho letto nulla, è comunque un nome piuttosto noto nel panorama italiano inflazionato.

Barbara Businaro

Giu 01, 2021 at 12:20 AM Reply

Sai, anch’io da ragazza mi vedevo in tacchi, tailleur e valigetta di pelle, in giro per il mondo per affari. Poi ti affacci davvero al mondo del lavoro e scopri che no, non è quella la tua vocazione. Mi piace portare i tacchi e sentirmi ogni tanto alta abbastanza, ma preferisco le sneakers e le scarpe da corsa. 🙂

Stefano Franzato

Mag 31, 2021 at 10:31 AM Reply

Mi ha incuriosito. Ma ti sei mai chiesta se quella scelta che hai fatto per cambiarti la vita non facesse già preordinatamente parte del tuo destino? Che, quindi tu, illusoriamente credi di aver cambiato, inconsapevole di esser stata strumento del tuo destino. Questo Autore me ne ricordato un altro a me molto caro perché tratta tematiche e situazioni che ho trattato anch’io in certi miei racconti: l’irlandese William Trevor (pubblicato in Italia da Guanda https://it.wikipedia.org/wiki/William_Trevor). Suoi, ti suggerisco di leggere un romanzo “Leggendo Turgenev” e la raccolta di racconti “Regole d’amore”. Parlando di destini, Trevor ha anche scritto “fools of Fortune”, “Marionette del destino”.

Barbara Businaro

Giu 01, 2021 at 12:20 AM Reply

Certo che me lo sono chiesto. Ma se quella scelta che ho fatto faceva già parte del mio destino scritto (da chi dunque?), allora non è nemmeno una “scelta”, dato che non era possibile altra via, non è così? 🙂
Dato che l’universo è entropico, da una parte ligio alle leggi fisiche e dall’altra sottoposto a imprevedibilità, credo che ugualmente le nostre vite siano un misto di scelte libere a noi disponibili e alcuni elementi del caso, che quando ci sorride benevolmente (o quando ci affossa senza risoluzione) confondiamo col destino.
Non conoscevo William Trevor, mi riprometto di dare uno sguardo alle sue opere, grazie!

Stefano Franzato

Giu 01, 2021 at 8:56 AM Reply

Ho sempre ritenuto e tuttora ritengo il caso lo strumento con cui il destino realizza le sue trame. Nel tuo credere che noi abbiamo la possibilità di scelta, al contrario di me che quand’anche scelgo, il destino può invalidare tale scelta che faceva già parte del mio destino individuale, sta il tuo incrollabile ottimismo che apprezzo e ammiro. Tanti, tanti anni fa mi sono imbattuto in un articolo che parlava di un’inchiesta probabilmente fatta da uno psicologo che chiedeva alla gente se, potendolo, avrebbero rivissuto pari pari la propria vita: la maggior parte ha risposto negativamente. La domanda della zingara di Licalzi era se era questa la vita che volevi (a proposito, ho trovato il libro in biblioteca civica e l’ho iniziato a leggere: la prosa scivola via come i pattini su ghiaccio). Io vado oltre e domando: e chi ti ha detto io volessi una vita? Noi non chiediamo di venire al mondo (a quali genitori dovremmo chiederlo nel caso poi volessimo o potessimo volere?): è la prima non-scelta che facciamo. Una se non la più… probante (scusa il gioco di parole) prova dell’assurdità del tutto è il fatto che se anche non fossimo nati nessuno se ne sarebbe accorto, si sarebbe chiesto perché e ci sarebbe venuto a cercare.

Barbara Businaro

Giu 02, 2021 at 11:38 AM Reply

Eh Stefano, ci potremmo parlare e scrivere per giorni interi su questi temi, che poi si riducono alle domande fondamentale dell’Uomo, sul cosa siamo e perché siamo. Posso dirti che il mio ottimismo vive nonostante le scelte imposte. Perché sì, non scegliamo di venire al mondo (e cosa saremmo altrimenti, nessuno lo sa… vale la reincarnazione? vale il Nirvana? vale il Niente oppure il Tutto?). Non scegliamo dove e quando nascere, non scegliamo la famiglia in cui crescere. Fino alla maggiore età, i nostri genitori scelgono per noi e se ci va male sarà un tribunale dei minori a farlo, con scelte alquanto discutibili da quel che riporta la cronaca. Per quanto anche la famiglia può non essere quel porto sicuro che un bambino meriterebbe. Rischiamo di affacciarci alla vita adulta pieni delle cicatrici delle scelte altrui. E stiamo ancora parlando di “scelte” e non di “destino”, perché una vita in cui il protagonista non abbia alcuna voce in capitolo non è nemmeno una vita. Tanto vale sedersi sul divano e aspettare. E questo mi rifiuto di farlo, preferisco credere (perché mi fa in fondo sentire meglio) di poter guidare, anche se lievemente, la mia esistenza. Alla domanda di rivivere la mia vita pari pari, errori compresi, risponderei: dipende. Col senno di poi sono bravi tutti a dire che non vorrebbero rifare le stesse scelte, commettere gli stessi errori, ma come riconosci la scelta che ti ha fregato? Come sai che evitando un errore non inciamperai su un altro più grosso? E se poi a furia di cambiare scelte ed errori diventassi una persona peggiore di quel che sono? 🙂

Lisa Agosti

Mag 31, 2021 at 6:13 PM Reply

Una mia amica maestra con cui ho gusti letterari in comune mi regalò “Il privilegio di essere un guru” tanti anni fa.
La copertina non mi attirava per niente, era molto “mascolina” invece rimasi sorpresa da un bel libro pieno di riflessioni adatte a tutti.
Grazie delle tue recensioni così precise fin nei minimi dettagli, ecco io quando cerco un autore su google vorrei trovare tutto questo. Sei meglio di wikipedia 🙂

Barbara Businaro

Giu 01, 2021 at 12:21 AM Reply

Beh, c’è davvero poco di Lorenzo Licalzi su Wikipedia in effetti! 😀
Diciamo che se devo scrivere una recensione, che poi è più un post promemoria per me stessa, per ricordarmi in futuro anche di questi racconti e di quello che mi hanno insegnato, voglio metterci quello che avrei voluto trovare già scritto altrove.
L’ho vista la copertina di “Il privilegio di essere un guru”, sembra lo stesso Licalzi, barba, baffi e cappelli ricciolini, che prende in giro alcune filosofie orientali, ma del resto è in linea con la trama che ho sbirciato sulla quarta.

BRUNILDE

Mag 31, 2021 at 6:14 PM Reply

Ho ascolatato vari aneddoti di editori folgorati da scrittori esordienti o sconosciuti, poi divenuti famosi.
Ovviamente sono cose che capitano solo agli altri, la mia esperienza è ben diversa, forse perchè è diversa anche l’abilità scrittoria.
Non amo molto i racconti, ne scrivo, ne leggo, ma non sono il mio genere, io ho bisogno di un più ampio respiro, mi piace affezionarmi ai personaggi.
Chiedere o chiedersi se questa è la vita che si voleva può essere pericoloso.
L’unica cosa che andando avanti la vita stessa insegna è l’accettazione, e la gratitudine.
Preferisco pensare a quello che la vita mi ha dato, ed esserne grata.
Magari…al prossimo giro vedremo!

Barbara Businaro

Giu 01, 2021 at 12:21 AM Reply

A me sembra che gli aneddoti su alcune scoperte letterarie appartengano a ben altri anni, e oramai da un po’ nell’editoria ci si accontenti di non rischiare o di investire sugli autori dai facili incassi. In un certo senso, siamo arrivate tardi, come dicono i quattro amici nel racconto della partita di poker.
Al prossimo giro voglio essere un sasso, un sassolino semplice, in un posto tranquillo non raggiungibile dall’uomo, che prende il sole in spiaggia e ogni tanto è bagnato dal mare. Non so però se i sassi leggano libri… 😀

Marina

Giu 06, 2021 at 3:58 PM Reply

Porca miseria, più che la vita che vorrei, io vorrei il destino riservato a Licalzi, sembra una favola a stralieto fine: ma tu te lo immagini, un editore che ti firma il contratto e ti paga in anticipo perché ha fiducia cieca in ciò che scriverai? E poi, una si arrabatta per trovare le formule giuste per scrivere a una casa editrice: e questo lo dico così, per fare impressione e questo non lo dico, se no sembro ruffiana… e poi bastano due righe tra il serio e il faceto e spalanchi le porte del tuo destino. Invidia pura! 🙂
Comunque, il libro me lo sono segnato: primo perché mi ha incuriosita; secondo perché voglio conoscere il talento di questo scrittore anche per me sconosciuto.
Ah, la domanda: era questa la vita che volevo? Forse ci ho messo un po’ per capirlo, ma alla fine… sì, questa era la vita che volevo! 😉

Barbara Businaro

Giu 07, 2021 at 8:29 PM Reply

Eh lo so, Marina, lo so, sulla straordinaria botta di cu…riosa fortuna di Licalzi ci ho riflettuto anch’io, quando mi hanno consigliato questo libricino. E’ stata più quella parte a spingermi a volerne sapere di più. Poi i racconti meritano senza dubbio, di conseguenza saranno stati ottimi anche quelli inviati all’editor con quella lettera, ma quanto ce ne vuole per arrivare a farsi leggere oggi?! Erano altri tempi, mi dico così.
Sulla vita che volevi, che è la vita che hai, sei stata lungimirante. O hai trovato la zingara anche tu al semaforo? 😉

Paola

Giu 17, 2021 at 3:57 PM Reply

Il destino…il fato…riesco a leggere questo post proprio oggi e proprio perchè il fato ha mandato in avaria l’auto del tizio che avrei dovuto incontrare. Era proprio questa la vita che volevo? non so rispondere. Ho imparato prestissimo a non aspettarmi nulla per non rimanere delusa per le mancate aspettative, avevo però un’inclinazione, un talento, fin da piccola e l’ho seguita. E’ stato difficile, doloroso, ha comportato sacrifici ma al contempo è stato come per la goccia d’acqua seguire il corso del fiume: inevitabile. Non so se sia questa la vita che avrei voluto ma so che non è assolitamente come credevo sarebbe stata.
P.S. Credo di avere la risposta al questito del padre e figlio.

Barbara Businaro

Giu 18, 2021 at 12:14 AM Reply

Un imprevisto nella giornata, tu che attendi sfogliando il cellulare, ti viene in mente di leggere gli arretrati dal blog, et voilà, c’è proprio questo contenuto. Questa lettura di oggi potrebbe essere il tuo sassolino da dio… 😉
Purtroppo non è sufficiente seguire le nostre inclinazioni per assicurarci la vita che volevamo, anche perché nel frattempo cambiano anche i nostri desideri, senza che ce ne accorgiamo magari. Soprattutto ci sono poi gli imprevisti, proprio come l’avaria all’auto. Ma io credo alle seconde occasioni e che non sia mai troppo tardi per aggiustare la rotta.
PS. Non era la tua prima risposta, ma la seconda sì. 😉

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