Quanto vale il tuo tempo? E la tua scrittura?

Il tuo tempo non è migliore del mio

Un sabato mattina qualunque al centro prelievi dell’ospedale, dove consigliano di giungere all’alba perché il sistema di prenotazione, per qualche misteriosa ragione, invece di sveltire le code di pazienti in attesa, ti rimanda al mese successivo e oltre. Arrivo ben prima dell’apertura degli sportelli e vado per staccare il bigliettino numerato dal totem. Nemmeno un attimo per leggere sul display che il totem è fuori servizio, una voce dietro di me mi riprende severa. “Deve mettersi in fila! Il numero lo danno loro, quando aprono.” Ringrazio e vado per spostarmi dietro a quella che mi sembra la coda in attesa, che un’altra voce mi redarguisce di nuovo, indicando un lungo corridoio, nascosto dai distributori del caffè. “Eh, la fila è quella là!” Ringrazio di nuovo e cammino fino in fondo, mentre mi accompagnano risatine malevoli. Adulti con più anni alle spalle di me – ma non così troppi da pensare ad altre patologie comportamentali – per cui ci si aspetterebbe un po’ di educazione.
Ma di cosa stavano davvero ghignando soddisfatti? Di avermi spedito al mio posto, che chissà cosa mi credevo, di passare loro davanti? Dell’ingenuità di chi arriva qui per la prima volta dopo tanto tempo, che nell’epoca della pandemia funzionava meglio, mentre qui ci sono veterani delle corsie e delle attese? Mi dispiace molto per loro, in verità, e non ci trovo nulla da ridere. Quando dopo giungo di fronte al totem per prendere il mio numero effettivo, una signora spaesata avanza dall’ingresso e mi si mette di lato, rischiando di saltare la coda alle mie spalle. Prima che qualcuno l’assalga con male parole ala stessa maniera, le dico gentilmente che purtroppo devi mettersi dietro, sono solo dieci persone, poco male.
Quando entro in ambulatorio, sono in compagnia di una vecchina sotto braccio al figlio. Cammina piano, lo sguardo tranquillo, il sorriso pacifico. “Signora, quanti anni ha?” le chiedono per la scheda sanitaria. “Novanta” risponde lei senza alcuna esitazione. L’altra infermiera che mi segue sospira, io chiedo dove devo firmare per arrivare alla sua età e con quell’atteggiamento. Già. E’ tutta questione di atteggiamento, di fronte alla vita e di fronte agli altri. Alla fine è tutto talmente veloce, nonostante la confusione iniziale, che esco dall’ambulatorio senza affanno e senza comprendere appieno quei risolini divertiti dell’accoglienza. La cattiveria è la peggiore delle malattie.Cambiamo scenario e mettiamoci alla guida nel traffico cittadino di primo mattino di un giorno lavorativo. Sono tutti terribilmente agitati, frenetici, incazzati. Il peggio lo si vede nel dare la precedenza e nelle rotonde strette. Chiunque tenta di tagliarti la strada e passarti innanzi, anche quando è evidente che il codice stradale glielo vieta e il buon senso glielo sconsiglia. Una rotonda in particolare è stata progettata davvero male, perché due corsie entranti da una parte si restringono in un’unica carreggiata tanto nel mezzo quanto in uscita. Sono già dentro la rotonda, si procede a passo d’uomo, sia per la circolazione bloccata più avanti che per il passaggio pedonale nell’uscita, dove transitano pedoni e sfrecciano biciclette e monopattini. Alle mie spalle arriva una piccola utilitaria rossa, io devo stringere per imboccare l’uscita altrimenti finisco addosso al marciapiede, lei accelera che quasi mi prende la fiancata dell’auto. Strombetta compulsivamente, si agita tutta al volante, alza le mani minacciando. Dove cavolo vuole andare?! Siamo fermi perché là davanti non si muovono e la precedenza era comunque mia. Guardo dallo specchietto e intravvedo una donna di pari età, senza prole al seguito da accompagnare a scuola – sarebbe stato davvero grave azzardare quella sua manovra, rischiando la vita di un innocente – che si dimena senza soluzione. Continua per un altro chilometro e poi la smette, perché io non mi scompongo proprio, non intendo gareggiare con gesti e insulti. Nemmeno cinque minuti e rischia di tamponarmi perché rallento e freno di fronte all’ennesimo passaggio pedonale, con una donna e un passeggino in attesa. Siamo in centro città, sono tutte strade con cartelli di 30 km orari massimi consentiti, ma ogni volta che arresto l’auto a un passaggio pedonale devo sempre guardare prima allo specchietto retrovisore per non rischiare un incidente e la colonna vertebrale. La signora dietro ha una fretta del diavolo però stavolta non usa il clacson. Riprendo la marcia, ma poco dopo rallenta lei, la osservo posteggiare in velocità davanti a una scuola e dalla cartellina tra le sue mani intuisco che è un’insegnante. Uhm. Bell’esempio.
Proseguo per il mio tragitto, finché non giungo all’imbocco del parcheggio sotterraneo, con una bella rampa in discesa di oltre due piani. Davanti a me altre due auto, la prima in difficoltà perché la barra di accesso non si alza per lasciarla entrare. Devi avere abilitato il riconoscimento automatico della targa o presentare la tessera da appoggiare alla colonnina, perché questo è l’accesso solo per abbonati. La piccola Mini ingrana la retromarcia e la signorina all’interno ci fa cenno che deve uscire. Impreco ferocemente, perché quella rampa all’indietro è come un salto nel vuoto, non c’è modo di vedere se quello dietro, ancora al piano strada, ti sta davvero lasciando spazio per arretrare. Inserisco la retromarcia e attendo qualche secondo prima di procedere lenta. In fondo, potrebbe capitare anche a me di sbagliare parcheggio in un’altra città e non sarebbe nemmeno colpa mia, perché dovrebbero abilitare l’ingresso eccezionale proprio per gestire le emergenze. Con fatica risaliamo e troviamo uno spazio dove sostare, perché nel frattempo in strada ci sono già una ventina di altri veicoli in attesa di entrare al parcheggio e poi andare in ufficio. Mentre attendiamo che la Mini termini la manovra e ci lasci tornare alla rampa, le altre auto ci si infilano dietro, bloccano il nostro rientro e ci passano bellamente davanti. Hanno visto tutta la scena, erano lì e hanno assistito al nostro impegno per sbloccare la situazione. Non importa. Il tempo è denaro e l’educazione non vale niente.
Mi rendo conto che situazioni stressanti come queste in alcuni esasperano l’aggressività e la reazione di sopravvivenza, quel mors tua vita mea pronunciato dai gladiatori nell’arena, accentuate anche dal temporaneo contatto con perfetti sconosciuti.
La presunzione di superiorità del proprio tempo non migliora però nemmeno quando le persone sono ben identificate.
Siamo oltre la metà di Novembre e io sto ancora aspettando la risposta ad una mia mail del 28 luglio scorso da una commerciale di un noto marchio dell’arredobagno, con il quale eravamo in trattativa già da un mese. Aveva preso un impegno con me e io lo avevo preso con lei, confermando già l’acquisto previa la verifica di quella quota necessaria per l’installazione di una nuova cabina doccia. La cifra in ballo è alquanto importante e non si può correre il rischio di trovarsi senza l’unico bagno funzionante all’ultimo momento, perché quel modello non è adatto all’impianto idraulico. Chiamata al telefono, non risponde o non ha tempo per seguirmi. Mi richiamerà, ma poi non lo fa. Scrivo e riscrivo, settimana dopo settimana, senza alcuna soluzione, finché a settembre non insisto più e resto in attesa dell’aggiornamento promesso. Sparita completamente, senza nemmeno una scusa.
Questa non è professionalità, nemmeno educazione di base per conto mio. Nel frattempo, io non potevo impegnarmi con altri fornitori perché, da parte mia, avevo dato parola a questa persona. Avrei anche lasciato un acconto subito, ma non l’ha voluto (per fortuna!) e forse questo era indice del suo scarso zelo. Ciò che rende la vicenda ancora più tragica è che, quando siamo stati ricevuti nel suo ufficio, la signora si è lungamente prodigata a ciarlare contro i giovani di oggi, incapaci di lavorare con serietà, di seguire i clienti come si deve, di mantenere un certo rigore e l’umiltà di imparare. Meh. Non mi pare che i vecchi abbiano nulla da insegnare, visto come si è comportata lei. Probabilmente non ero il cliente migliore, in un periodo di incentivi per le ristrutturazioni dei bagni, e alla fine ha valutato che il suo tempo era troppo prezioso per sprecarlo dietro al mio acquisto invece di un progetto completo con un’alta percentuale di guadagno.
Ciò che mi rattrista di più però, quello che davvero mi trafigge il cuore, è essere ignorata da chi considero amico.
Nonostante la mia introversione, cerco di essere presente e costante in tutti i diversi piani dell’amicizia, dalle amicizie locali per organizzare uscite nella mia città, alle amicizie incontrate in palestra, anche se ora gli orari mi impediscono di partecipare ai corsi, dalle amicizie di viaggio, quando con le peakers ci incontriamo solo sul suolo della Scozia, alle amicizie di lettura e scrittura, con cui condividere libri interessanti e la fatica di riempire tanto il blog che la pagina bianca. Mi prodigo più che posso per le mie amicizie, perché sono ben conscia che non bastano tutti i cammelli del deserto per comprare un amico. Ma a volte mi chiedo se loro lo sanno.
Questa che sta per concludersi è stata un’annata davvero particolare per le mie relazioni. Ho visto spegnersi drasticamente delle amicizie ventennali, ridotte al lumicino degli auguri di compleanno, Pasqua e Natale. Ho anche osservato riprendersi con fatica, giorno per giorno, delle amicizie falciate dall’incomprensione, forse pure dagli effetti della malattia dell’altra parte. Ho scoperto l’effetto benefico dell’amicizia adulta, ma con una vena di giovanile follia, che sia l’entusiasmo tra i banchetti pieni di libri nuovi, quelli zeppi di ninnoli natalizi o di leccornie cioccolatose. Ma ho anche sofferto di numerosi messaggi senza risposta, moderne lettere in bottiglia che giungono alla spiaggia e restano lì arenate. Non sto parlando solo di messaggi sulle varie chat dei social media, applicazioni che potrebbero anche essere silenziate, proprio perché diventano assillanti con le loro inutili notifiche. Esistono ancora i cari vecchi sms, oggi evoluti con tanto di emojii e pure invio di fotografie. Ma sempre e comunque associati al numero di telefono, garanzia dell’invio e della ricezione del contenuto. Senza contare che magari eravamo già in conversazione su quel canale, stavamo già fissando un appuntamento, mi si scrive poche ore prima che è saltato per un’emergenza e io rispondo subito di non preoccuparsi, ma aggiungo anche la domanda più ovvia: quando ci vediamo allora? Non mi attendo una replica nell’immediato, ma lascio la mia disponibilità.
Se poi seguono due settimane di silenzio assoluto, io non so più cosa pensare.
Possono capitare periodi più o meno densi, con difficoltà al lavoro che colpiscono anche il fisico tra cefalee e stanchezza, contrattempi famigliari che ci costringono a stravolgere i nostri piani, attività che rallentano e si mangiano tutto il tempo libero. Ma non può essere la regola. Se la modalità è quella di rimandare continuamente gli incontri, con dimenticanze improvvise o eventi imprevisti, una, due… cinque volte di seguito, allora nessuno ci crede più. La serialità mi induce a pensare che semplicemente quell’amicizia mi sta mettendo all’ultimo posto. Il nostro non era un incontro fissato, ma solo una possibilità tra tante e alla fine ha scelto qualcos’altro. Diventa pure difficile scusare questo comportamento, in un’epoca in cui non solo abbiamo calendari da muro, da tavolo, agende di ogni grandezza e foggia, planner colorati sulla scrivania, appuntamenti all’interno della casella email, ma soprattutto uno smartphone sempre in mano.
L’amicizia a qualsiasi livello dovrebbe essere scevra di calcoli e opportunità, ma un minimo di reciprocità è fondamentale per mantenere l’equilibrio. Purtroppo devo osservare questo divario anche nella scrittura, nei rapporti tra blogger, scrittori, bookblogger e quant’altro. In questo periodo di stallo tanto per i blog che per i social media, dove molta parte degli utenti ha scelto il digital detox contro i contenuti aggressivi, va curata ancora di più la rete di sostegno tra noi creativi, leggendo e commentando per tenere viva la comunità. Ma per quanto io mi prodighi verso gli altri, anche con acrobazie rocambolesche allo smartphone in fila all’ufficio postale, in attesa della lavatrice o del timer della pasta, non percepisco la stessa cura dalle controparti. E ho pure diminuito il numero di post pubblicati, non dev’essere una gran fatica passare ogni tanto a salutare.  Nessun obbligo, ci mancherebbe, proprio perché non mi piace mettere i pesi alla bilancia e sono comunque ben coccolata dai lettori fuori dalla rete.

Ciò che lega il tutto di questi accadimenti è il tempo.
Non si vuole perdere il primo posto, perché non si vuole perdere tempo. Non si rispettano le regole, anzi, si cerca di cogliere in fallo l’altro, minacciandolo pure, per guadagnare tempo, anche solo pochi secondi. La buona educazione non vale più nulla in confronto alla minaccia di sprecare pochi minuti per un imprevisto che potrebbe capitare a chiunque. La gestione del tempo lavorativo ha perso la professionalità di mantenere un impegno preso, concordare una data e fornire una risposta entro quella data. Perché il tempo rincorre il cliente migliore per pregiudizio. Persino il tempo dell’amicizia si muove in diverse scale di valore, con una quotazione borsistica che cambia ogni giorno, a seconda del miglior offerente sul mercato. Non importa se poi questo tempo così prezioso viene impiegato in attività di scarso rilievo, come scorrere frenetici video stupidi nei social media, tra cattiveria politica e falsità da intelligenza artificiale (o superficiale).
E’ la società dell’urgenza dicono, che ci porta a correre come ossessi per questioni di poco conto, nemmeno fossimo tutti cardiochirurghi. E la conseguenza di questo atteggiamento malato sul luogo di lavoro è una bulimia feroce anche nelle attività personali. Qualcuno riempie la propria agenda di impegni concomitanti, gli orari paurosamente accavallati, perché poi alla fine sceglieranno per il meglio, il loro meglio del momento, fregandosene del tempo degli altri, gli ingenui – presente – che rimarranno invano in attesa. Dietro a questo comportamento c’è proprio la presunzione che il proprio tempo abbia valore superiore a quello delle altre persone. Si può anche chiedere scusa, con formule più o meno arzigogolate, magari scritte direttamente da ChatGPT, così non si sprecano ulteriori minuti a pensare.
Beh, ti illumino solo per un attimo.
Il tuo tempo non è migliore del mio, né di quello di chiunque altro su questa terra.
Rispetta te stesso e la tua parola, e smettila di dare per scontate le persone intorno a te.
Puoi avere una seconda occasione – e sono una fervida sostenitrice delle seconde occasioni – ma non esiste la terza.

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Comments (2)

IlVecchio

Nov 17, 2025 at 5:56 PM Reply

Mea culpa. Appartengo alla categoria che preferisce mandare un messaggino veloce invece di dilungarmi qui con un commento. Più invecchio e più mi allontano dalle complicazioni tecnologiche, come ti ho già raccontato.
Sul tempo ricordavo di averti inviato qualcosa da pubblicare qui. Forse mi sono scordato il testo nelle bozze?
Si dimenticano tante cose in vecchiaia, ma quello che meno mi dispiace di aver perso è quell’affanno continuo. La vita lenta è l’unica vita apprezzabile. : -)

Sandra

Nov 17, 2025 at 6:50 PM Reply

Quello del tempo è un argomento assai spinoso, insomma quelle persone che in nome del “non ho tempo” in realtà agiscono secondo il “preferisco fare altro”, legittimo eh, ma vi prego non facciamo sempre quelli che non hanno tempo.
Sul prelievo un’organizzazione pessima rende la gente più aggressiva, il fenomeno è trasversale, da noi a Milano città, sarà che tra laboratori convenzionati, ASL e ospedali ci sono un botto di posti, io ne ho due qui che posso raggiungere a piedi in brevissimo tempo, ma vado in un altro, non si prenota e fino a un minuto prima della chiusura, talvolta anche molto tardi tipo 10.30, accettano tutti.
Detto questo il fulcro del post, con la sua cornice tra prelievi, traffico e altre perdite di tempo epocali e fastidiose, sono le amicizie, virtuali, vicine, lontane, nei blog, in chat ecc. Mi vanto di essere ai tuoi tavoli natalizi (e non) tra libri e coccole, ma capisco benissimo che ci sia chi non lo è o non lo è più e oggettivamente fa male.
Sulle II o III possibilità ti dirò, la vedo un po’ diversamente: il numero delle possibilità infatti è, per me ovviamente, direttamente proporzionale al bene che voglio a quella persona. Ci sono persone per cui le chance sono infinite, non sono molte ad appartenere a questo gruppo, e non è zerbinaggine, è che sono persone fondamentali per me e che hanno, a fronte magari di tanto “no” saputo fare poi cose grandi, immense per cui quei no alla colazione insieme per dire passano in secondo piano. Al momento posso dire con gioia che le mie amicizie, dopo una sonora potatura, vivono tutte di una giusta reciprocità.

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