Toccami il cuore - Un racconto rosa per San Valentino

Toccami il cuore

Non so ancora che cosa ci faccio qui. Ferma in piedi davanti alle vetrine del Burger King, indecisa se guardare verso l’interno, fingendo noncuranza per non disturbare le famiglie con i bambini, o continuare a scrutare ogni angolo della strada, ogni autobus fermo alla pensilina per la discesa delle persone e ogni nuvola brulicante di gente in salita sulla scalinata della metropolitana.
Mi sto anche gelando perché, sebbene la giornata sia luminosa, il sole di febbraio non scalda. E comunque si sta inclinando verso il tramonto.
Cosa mi è saltato in testa a dirgli di sì? Erik è carino, non è il più popolare della scuola, non gioca nella squadra di calcio e nemmeno in quella di rugby, ma piace a molte, non solo a me. Direi che un po’ piace a tutte. Nessuna al mio posto avrebbe rifiutato.
Però ancora non capisco perché mi ha chiesto di uscire. Giorgia ha detto a Laura che è tutto uno scherzo, che non si presenterà all’appuntamento e invece di lui mi troverò chissà quale amara sorpresa. La stronza glielo stava quasi urlando, giù per le scale all’uscita da scuola, sapeva che io ero dietro di loro. Voleva ferirmi. C’è riuscita benissimo. Come se la mia autostima non fosse già rasoterra per conto suo.
Davvero, perché Erik ha scelto me? Potrebbe schioccare le dita verso qualsiasi altra ragazza.
“Maddy, tu non ti vedi per quello che sei” mi ha sussurrato Vero. Ma lei è la mia amica del cuore dalle medie, e insomma, gli amici non sono mai brutti, sono amici! Potrebbero anche essere verdi con i pallini rossi, le mani squamate e l’alito pestilente. Per noi resterebbero i migliori su tutta la faccia della terra. Ma con l’amore è tutta un’altra storia.
Veronica ci ha anche provato a darmi una spiegazione seria. “E’ talmente stanco di tutte le pallose che gli ronzano intorno, che ha scelto una ragazza carina, sincera e divertente. Senza filtri o montature. Senza la smania dei follower su Insta.”
“Già, Maddalena invece non se la fila nessuno…” le ho risposto acida. Dovrei credere più in me stessa, lo so.
Sbatto un po’ i piedi e mi muovo di un paio di metri per scaldarmi in po’. Tiro fuori il cellulare dal giubbotto. Uhm, sarebbe in ritardo di quasi mezz’ora, magari ha perso la metro e ha dovuto prendere la corsa successiva. Sempre se non viene con il bus e magari quello si è guastato a metà strada. Potrebbe inviarmi un messaggio, ma questo cellulare decrepito non prende neppure bene. Accidenti a mia madre. Mi rifila sempre i suoi catorci vecchi, e poi si lamenta se non riesce a chiamarmi!
Che cosa gli dirò quando arriverà? Il mio cuore ha un altro guizzo. Sento l’ansia aumentare e stringermi il petto. Un conto è fermarsi a chiacchierare per i corridoi dell’istituto, ridere e scherzare senza pensieri, delle nostre serie tv preferite, dei film visti al cinema, delle scenate assurde dei prof in classe, lui un anno più avanti di me li ha già conosciuti e catalogati. Ma un appuntamento è tutto un altro affare. Specie perché siamo a ridosso di San Valentino, e io davvero non so cosa significa. Non è un’uscita tra amici, questo no, è ovvio. Perché proprio io?!
Erik è troppo bello per me, non è alla mia portata. Madre danese e padre italiano, ha preso il meglio da entrambe i genitori: gli occhi chiari come il ghiaccio del mare del Nord, ma una carnagione ambrata e i capelli scuri. Certe volte sono costretta a distogliere lo sguardo quando parla, perché rischio di perdermi nelle sue iridi. Forse per riuscire a conversare oggi dovrò fissare il muro dietro di lui. O contare tutte le venature del tavolino dove ci siederemo. Non so ancora come sono riuscita a rispondergli l’altro giorno quando mi ha fermata al cancello.
Sembrava un momento come tanti altri, quando mi chiede com’è andata con questa o quell’altra lezione. Ma poi in mezzo al discorso ci si è infilata quella domanda. “Senti, ci vediamo al Burger questo sabato, noi due?” Ci ho messo qualche secondo a reagire, e forse il freddo ha evitato di farmi arrossire, non lo so. Sono riuscita a biascicare un “ssssì cerrrto” quasi in trance.
Qualcosa mi vibra in tasca. Un messaggio. Sblocco il telefonino e scorro sul testo. E’ di Erik. “Ehi, dove sei finita? Qualche problema?”
Ma io sono qui. Dove cavolo è finito lui, vorrei sapere. Gli rispondo al volo. “Sono di fronte all’entrata del Burger, ma non ti vedo.”
“Anch’io sono davanti al Burger… sono tra la panchina e il semaforo, giubbino nero e berretto grigio. Tu dove sei?”
Mi guardo intorno sconcertata. Non ci sono panchine qui. Solo i cestini pieni della spazzatura e qualche vaso in cemento che d’estate ospita forse qualche pianta fiorita. Cammino su e giù per tutto il marciapiede di fronte al fast food, ma di Erik nessuna traccia.
Mi sta prendendo in giro? Aveva ragione Giorgia? Gli rispondo un po’ arrabbiata. “Davvero, non è divertente, dove sei?”
“Al Burger King!” Mi gira anche una foto, ma il mio cellulare ci mette una vita a caricarla. Attendo sbuffando che quel cerchietto blu la smetta di girare e si decida a mostrarmi l’immagine. Eccola.
Oh merda.
Non ci posso credere. Ho dato per scontato che fosse questo Burger King, vicino alla scuola. Avevo dimenticato che ne hanno appena aperto un altro. Dall’altra parte della città. E forse lui me l’aveva anche specificato l’altro giorno, quando mi ha invitata a uscire, ma io ero ancora intontita da quel “noi due”, non ho ascoltato altro.
“Maddy dove sei?” mi chiede di nuovo.
“All’altro Burger King…” Che stupida sono stata. Ed è colpa mia. Tutta colpa mia.
Ci mette un po’ a rispondermi. Starà pensando che sono un’idiota.
“Ok. Raggiungimi, io ti aspetto.”
Ce la puoi fare, corri, corri, Maddalena! mi dice quella vocina che sale dal mio cuore in tumulto.
Ma qualcosa mi blocca, i miei piedi troppo pesanti per sollevarli e precipitarmi alla fermata dell’autobus o giù alla metro.
E’ tutto inutile. Non farei in tempo, ci sono troppi cambi, e oramai… è tutto inutile. Il destino ha già detto la sua.

Di nuovo quel sogno. Quel pomeriggio al Burger King si affaccia nel sonno tutte le volte che la mia vita è di fronte a un cambiamento.
Sospiro mentre chiudo con il nastro da pacchi un altro scatolone pieno di vestiti. Questo sarà bello pesante, perché è pieno di pantaloni e magliette, un’intera stagione. Cerco di inclinarlo da una parte per afferrarlo sotto, mi alzo, accidenti se è pesante, e barcollando lo porto fino all’ingresso, per non rischiare di strisciare il parquet lucido della camera da letto. Dopo li infilerò tutti in ascensore e una volta giù dritti nell’auto di mia sorella. La quale se ne sta tranquillamente al telefono con chissà chi e la fatica alla fine sarà solo mia.
Come al solito.
Però ho una fretta micidiale di togliermela di torno, non la sopporto più. Non è solo quel suo atteggiamento altezzoso nei miei confronti, come se io non avessi ancora imparato a stare al mondo e lei se ne vergognasse. No, è la voce di mia madre quella che mi disturba, quando la scusa sempre e per tutto, poverinaaaaa! Lisa deve andare per un colloquio ma la sua auto è dal meccanico, non le puoi dare la tua, poverinaaaaa? Certo, e io al lavoro ci vado in bicicletta?! Lisa torna domani sera tardi in aeroporto, puoi andarla a prendere tu, poverinaaaaa? Veramente mamma, ho una pizza con le mie vecchie amiche, ci abbiamo messo un mese a trovare una data. Ma poverinaaaaa…
Alla fine è riuscita a intrufolarsi anche in questa casa. Con fatica sono riuscita a trovarmi questo mini mini, ma proprio mini, appartamento. Nemmeno un mese che mi ero trasferita, fuggendo dalle sgrinfie delle richieste assidue di mia madre, et voilà. Lisa lavorerà proprio nella tua zona, sta cercando una sistemazione comoda, ma non trova niente, poverinaaaaa! Tu hai una camera libera lì, e tanto sei da sola in quell’appartamento così grande…
E il bello è che ha ragione. Detesto stare da sola, vivere in solitudine mi intristisce. Girovagare silenziosa per le stanze, mangiare con il piatto in mano appoggiata al bancone della cucina, sentire lo scricchiolio degli armadi invece di una voce che parli con me. Però non sono le loro voci stridule quelle che voglio ascoltare, le loro continue assillanti richieste di aiuto.
Oh, ma lo so cosa intende mia madre sotto sotto, girandoci intorno ogni volta. Non ho un fidanzato. Mai pervenuto.
Nemmeno mia sorella ce l’ha, per essere chiari, ma lei, eh, lei è una donna in carriera, non deve mica distrarsi, poverinaaaaa!
Io invece ho un lavoro mediocre, sono una semplice impiegata, poco più di una segretaria. Almeno un fidanzato potrei trovarmelo no?
Così Lisa adesso si trasferisce a Londra, nella sfavillante City. Io resto da sola. E ho sognato di nuovo il Burger King. Come se tutta la mia vita si fosse congelata in quel pomeriggio di febbraio, più di dieci anni fa. Ho comunque avuto delle storie dopo, ma niente di che. Non funzionano. Non oltrepassano la barriera delle tre uscite. O loro si accorgono di non volere me oppure io li lascio poco prima che lo capiscano, una decisione meditata al posto di una delusione subìta. Anche in quelle occasioni gli occhi di Erik tornano a tormentarmi mentre dormo.
So di non avere un fisico eccezionale, sono appena appena carina, ma certo non una gran bellezza, nessuno per cui voltarsi indietro ammirati. Ogni tanto mi fermo a guardare i quadri di Botero, ho appeso delle stampe incorniciate nel corridoio, per aumentare un pochino la mia autostima. Penso di essere nata nell’epoca sbagliata, avrei fatto un figurone in mezzo a quelle donne rubiconde, eppure così sensuali. Oggi invece devo lottare per trovare un paio di jeans che non mi facciano sentire goffa e impacciata. Veronica, che mi trascina a forza nel suo shopping sfrenato di vestiti luccicanti e magliette scollatissime, continua a dirmi quanto sia esagerata e non riesca a vedere le mie qualità.
Forse dovrei adottare un gatto. Un cane no, può diventare troppo rumoroso per i vicini già alquanto fastidiosi. Non voglio altre noie.
Poi credo di essere più un tipo da gatto. Una presenza quieta ma morbida. Un felino pasciuto e coccolone.
Un altro scatolone riempito, stavolta di libri universitari e diversi trofei. Una zavorra di almeno dieci chili. Mi giro e osservo la stanza, non rimane molto altro da togliere, qualche inezia. Resteranno solamente i mobili, ma sposterò anche quelli, così con l’occasione darò una tinta nuova alla pareti. Un verde tenue, quasi azzurro. Diventerà il mio studio, forse ci metto anche una cyclette per i giorni di pioggia.
Con fatica sollevo lo scatolone e ansimando lo sposto fino all’ingresso.
“Almeno questo è l’ultimo.”
Ma quando mi rimetto in piedi dopo averlo sistemato a terra, la mia schiena fa uno strano scricchiolio che mi toglie il respiro. Mi fermo un momento con la testa appoggiata alla porta principale. Anche le spalle non sono messe bene, avverto un dolore pulsante. E mi gira la testa quando inclino il collo verso il basso. Non sono abituata a portare così tanti pesi. Poverinaaaaa.

Sarà solo una contrattura, basterà un po’ di riposo e passerà tutto, pensavo. Invece dopo due settimane dal trasloco le fitte alla schiena erano insopportabili, riuscivo a dormire solo con gli antidolorifici e sdraiata supina, con due cuscini soffici tra il dorso e la testa. Se nel sonno mi giravo su un fianco, la spalla su cui poggiavo cominciava a pulsare feroce. Di giorno l’intorpidimento e il fastidio impedivano gran parte delle mie attività. La zona lombare sembrava un blocco di marmo massiccio. Non ho più finito di pulire e ritinteggiare la camera vuota, ma ho prenotato una visita fisiatrica d’urgenza. Il medico ha escluso strappi e stiramenti, però in diversi punti i muscoli sollecitati dal lungo lavoro di quel pomeriggio si sono contratti in profondità. Da soli non possono guarire.
E adesso eccomi qui, seduta nella sala di attesa davanti alla palestra per iniziare una rieducazione funzionale attiva. Le signorine della segreteria mi hanno spiegato che si tratta di ginnastica dolce, per tornare a muovermi senza problemi. E’ consigliato l’abbigliamento sportivo, una tuta comoda e scarpe adeguate, così dopo l’ufficio sono passata a casa per cambiarmi.
Mi sarà assegnato un terapista per tre settimane circa. Non sono molto a mio agio all’idea. Spero sia una ragazza oppure un signore di mezza età, anche se qui per i corridoi del centro di riabilitazione, vestiti con il camice di lavoro verde o blu, vedo camminare solo giovanissimi, più o meno della mia età. Se dev’essere un maschio a seguire il recupero della mia schiena, allora meglio che sia gay, qualcuno a cui non interessi l’articolo ecco. Beh, in realtà il mio articolo deve essere difettoso, non sembra comunque interessare nessuno. Vorrei essere un po’ più tranquilla ecco, ci sono già i muscoli doloranti a rendermi irrequieta. Non voglio altre complicazioni.
La porta della palestra contrassegnata con B2 si apre e ne esce un ragazzo alto, con in mano una cartellina dove sta leggendo qualcosa.
“Maddalena?” Solleva lo sguardo dai fogli e lo sposta su di me. “Ciao… sono Erik, e sarò il tuo fisioterapista per le prossime settimane.”
Oh merda.
Non riesco a crederci. Mi si blocca il respiro a rivedere quegli occhi. E sono molto, ma molto più ipnotici di quanto ricordavo. Resto impalata lì davanti per qualche secondo di troppo, scioccata e incapace di articolare un saluto sensato. Neppure mezzo pensiero intelligente. Non ho dubbi che sia lui, anche se ha i capelli più lunghi e un ciuffo malandrino che gli copre un lato del viso. Ma questo Erik avrà associato il mio nome a quel terribile pomeriggio del Burger King?
“Non vuoi entrare?” mi chiede con un sorriso divertito. Oh sì, sa che io sono proprio io, quella Maddalena. Quella stupida ragazzina che l’ha piantato da solo davanti a un fast food e nemmeno si è fatta trovare dall’altra parte quando lui l’ha raggiunta. Quella che poi non ha saputo dargli una spiegazione, dirgli la verità, farfugliando un problema avuto con il cellulare. E sempre quella che è fuggita di corsa tutte le volte che sembrava presentarsi l’occasione di un secondo invito. Finché i mesi sono passati, la scuola è finita e ognuno ha preso la sua strada.
Faccio un respiro profondo. “Eccomi” mormoro mentre varco la soglia.
Fa parecchio caldo dentro, oltre alla mia agitazione. Abbasso la zip e mi tolgo la felpa, rimanendo in maniche corte come tutti i presenti.
Lo osservo mentre mi dà le spalle. Bellissimo. Fisico asciutto, allenato con i pesi direi. Si muove armonico tra il bancone dell’ingresso, il computer sopra il tavolo addossato alla parete e uno dei lettini lì di fronte. Prende un lenzuolino di carta e glielo stende sopra. Poi torna a leggere la sua cartellina.
“Bene, dalla tua scheda vedo che dobbiamo lavorare sulla tua schiena… Uhm, vediamo un po’ cos’è successo?” Le sue labbra si incurvano dolcemente, mentre quegli occhi mi esplorano senza pudore. Trattengo il fiato. Sono in un sogno o in un incubo?
“Ok, togliti la maglietta e stenditi a pancia in giù. Iniziamo con un massaggio lieve.”
Togliti la …cooosa?! Ma non dovevamo fare ginnastica? Non mi avevano detto che c’erano pure dei massaggi! Mi guardo intorno angosciata, nella palestra ci sono almeno altri quattro fisioterapisti e altrettanti pazienti. In effetti tutti hanno un lettino assegnato, qualcuno è sdraiato mentre degli elettrodi di uno strano macchinario si occupano delle spalle, qualcun altro è seduto mentre un terapista sta toccando e muovendo una gamba o un braccio. Altri sono invece in piedi o alle spalliere a muro, concentrati su esercizi vari.
Imbarazzata senza limiti, mi volto verso il muro. Sollevo l’orlo della t-shirt e un pensiero orribile mi travolge. Non ho indossato il reggiseno sportivo, quello che uso talvolta per andare a correre. Doveva essere solo ginnastica dolce, niente massaggi a schiena nuda, così mi sono tenuta il reggiseno normale. Macché dico normale… ho addosso un push-up imbottito! Che diamine penserà adesso! Che è intenzionale?!
Inizia male, davvero male, questa storia!

Con difficoltà e disagio assoluto, sono riuscita a sistemarmi sul lettino. La testa poggiata su un cuscino particolare, un buco per il mio viso, così da respirare e lasciare il resto del corpo correttamente steso e rilassato. Per lo meno, quella sarebbe l’idea, ma di rilassarmi in questo momento non se ne parla proprio.
Erik è in piedi al mio fianco, concentrato sui miei muscoli. Mentre parla distrattamente con il suo collega Josè, le sue mani si muovono agili sulla mia schiena, la percorrono lungo tutta la colonna vertebrale, premendo e tastando ogni singolo punto, alla ricerca del dolore. Poi si sposta sulle spalle, seguendo la linea delle scapole fino ai muscoli cervicali, e poi di nuovo giù, correndo pericolosamente lungo la linea del mio reggiseno, fin sotto le ascelle, lì dove cominciano i miei seni. Non riesco a respirare. Il suo tocco è leggero, solo in qualche punto le sue dita premono a fondo, finché mi sfugge un gemito sofferto perché ha trovato proprio una delle contratture terribili.
“Cosa hai combinato a questa schiena, eh?” Parla piano, per farsi sentire solo da me.
“Un trasloco. Ho sollevato troppe scatole pesanti” bofonchio, ancora un po’ arrabbiata per questa sventura.
“Casa nuova? Non sei contenta? A parte la schiena ovviamente…”
“No, coinquilina andata via.” Sbuffo per un altro punto doloroso. Lui si sposta rapido altrove.
“E non doveva portarsele lei le scatole?” Il tono della voce è divertito.
“Si, ma avevo così fretta di liberarmene che l’ho aiutata. Praticamente ho fatto tutto io, da sola.”
Lo sento ridere sommessamente. “Beh, allora adesso hai casa libera.” Ci pensa un po’ su e poi aggiunge: “Sarà contento il tuo fidanzato…”
“Ehm, no… Niente fidanzato.”
Mentre lo dico farfugliando, le parole scivolate fuori quasi senza controllo, le sue mani corrono giù giù, quasi oltre il lecito della mia colonna vertebrale, a sfiorare l’inizio delle mie natiche. Le sue dita si concentrano sulle vertebre della mia zona lombare, premono, esplorano, indagano. La mia mente quasi si stacca dal corpo mentre la mia anima si risveglia dal torpore. Qualcosa nel mio profondo si accende.
“Bene…” mormora Erik pensieroso.
Bene cosa? Bene il massaggio o bene che sono single? Sembrerò una sfigata ai suoi occhi. Già l’ho mollato tanti anni fa da solo davanti a un fast food, cosa vuoi che mi abbia riservato la vita da allora? Forse dovevo dire che sì, un fidanzato ce l’ho? Ma a lui poi cosa importa?!
Con un ultimo movimento, ripercorre tutta la mia schiena, poi si ferma a metà e mi dà una piccola pacca sul fianco.
“Adesso è ora degli esercizi, forza, alzati!” mi sussurra chinandosi al mio orecchio.
Con estrema lentezza, riesco a mettermi seduta sul lettino, intorpidita tanto nel corpo quanto nello spirito. Recupero la maglietta che avevo tenuto sotto la pancia, e un po’ a nascondere il solco creato dal mio reggiseno provocante, e me la infilo nuovamente. Le spalle scricchiolano ancora, però non sento dolore, sono piacevolmente accaldata e sciolta. Quasi liquefatta.
Con un cenno ironico, Erik mi fa avvicinare alla spalliera e mi porge una fascia elastica, agganciata a una delle traverse in legno.
“Mettiti di fronte, così…” Mi afferra per le spalle e mi sposta delicatamente indietro. “Tira l’elastico verso di te, e ti fermi al petto.”
Si mette dietro di me e mi prende per i gomiti, aiutandomi ad eseguire il movimento. “Attenzione a non curvare troppo la schiena, stai diritta.”
Poggia una mano sul trapezio della mia spalla destra. “Bene, cerca di usare questo muscolo qui, lo senti?”
“Sì” mormoro appena. Certo che lo sento. Anche il tuo respiro sul mio collo sento benissimo.
“Ok, continua. Fanne dieci per tre serie. Fermati trenta secondi, anche un minuto se vuoi, tra una serie e l’altra.” Mi osserva per qualche momento ancora e poi si rivolge all’altro paziente, un signore anziano che deve avere il turno successivo al mio. Continuo con l’esercizio, finalmente più serena di non avere i suoi occhi puntati addosso.
“Ricordati le pause… Ne hai già fatti quindici!” lo sento sgridarmi allegro, mentre torna a fissarmi, appoggiato alla spalliera.
Se continua in questo modo, non farò altro che confondermi. Ma lui stava contando per me?!
Dopo altri dieci minuti e due diversi esercizi, esco dalla sala completamente frastornata. Stanca, euforica, sorridente e terrorizzata.
Non posso reggere. Ogni tardo pomeriggio qui, per tre settimane. Il suo sguardo e le sue mani su di me, una tortura troppo dolce.
Ma pur sempre una tortura.

 

Questa sera mi sono preparata meglio, memore dell’imbarazzo di ieri. Stavolta indosso un reggiseno sportivo nero, tutto chiuso e serrato, modello Fort Knox, con le spalline agganciate dietro perché non si sposti nulla. Spaventerebbe chiunque. Dopo questo ci sono solo i corsetti ortopedici in vendita al negozio di articoli sanitari.
“Pronta?” Erik si appoggia alla porta appena aperta, mentre metto via il mio cellulare nella borsa. Sono arrivata in anticipo e mi sono distratta con i social per allentare l’ansia. Entro in palestra e lui mi prepara il lettino da massaggio con il lenzuolo di carta. Tolgo la maglietta, l’appoggio e mi ci stendo sopra, il reggiseno sportivo che non si muove di un millimetro.
Erik si avvicina al mio fianco. Lo sento sogghignare alla vista. Forse è stato peggio così? Ho sottolineato la cosa, dandole importanza? Era meglio se continuavo con dei reggiseni normali, ma meno succinti di quello di ieri? Non ne azzecco una, nemmeno mezza.
“Posso sganciare?” mi chiede toccando leggermente l’incrocio a X sopra le scapole, chiuso da un gancetto di plastica.
“Sssì, certo” rispondo fingendo noncuranza.
Le sue mani procedono calde e sicure per tutta la schiena, appena più insistenti. Le sue dita esercitano più pressione quando trova uno snodo particolarmente ostile tra il dorso e le spalle, ci si muove tutto intorno, più e più volte finché non sente di averlo allentato. Corre lungo la colonna vertebrale, scorrendo a lato di ogni singola vertebra. Si sofferma poi sulla zona lombare, quella che cigola di più quando mi alzo dal letto al mattino.
“Sei tesissima stasera. Ci sono delle contratture sparse, ma comunque hai tutti i muscoli in tensione, più di ieri. Rilassati. Abbandonati. Giuro che non ti faccio del male, anzi.”
Sei tu che mi mandi in crisi, vorrei dirgli. Altro che tensione dei muscoli, sono i nervi ad essere in allerta qua. Mancava pure questa canzone nell’aria, così sensuale. Andavano bene le note rock di ieri sera, mi aiutavano la concentrazione. Ma questa melodia pare uscita da un un film piccante, con la cantante che ansima a ogni ritornello, e sospira, e chiede di essere toccata come mai prima. Se non fosse un canale radio, diffuso in tutto l’ambiente, crederei che Erik l’abbia scelta di proposito, visto che sembra muoversi allo stesso ritmo della musica.
Non so se sono più allarmata dal dolore delle contratture o dal piacere che mi provocano le sue mani scivolare sulla mia pelle. Sono lanciata a tutta velocità su un ottovolante di sensazioni diverse. Mi tocca con intensità sopra la spalla destra e mi parte un brivido caldo fino a giù, dove un’esplosione di mille scintille colorate irradia il mio ventre. Preme su un altro punto sotto il muscolo del trapezio e sento una fitta lancinante, quasi mi mozza il respiro, mi scappa un gemito e sento irrigidirsi la schiena in difesa.
“Qui hai proprio un blocco. Cerca di resistere. Dovresti sentire man mano il dolore che se ne va, la contrazione che diminuisce e si scioglie. ”
Passa più di un minuto abbondante, in cui Erik non smette di spingere con la stessa forza sul muscolo contratto, senza mai tentennare. Non riesco a capire se sta usando indice o pollice, ma non cede nemmeno per un secondo. Piano piano il tessuto muscolare si ammorbidisce e avverto solo calore benefico. Un tepore piacevole che si espande tutto intorno.
“Va meglio adesso?” mi chiede senza ancora togliere le dita in pressione.
“Si… che strano!” mi lascio scappare entusiasta.
“Non c’è niente di strano, sono io che sono bravo!” Sghignazza compiaciuto, mentre cambia posizione sul mio dorso.
Si sposta lungo la regione lombare, riscaldando la parte in orizzontale tra le vertebre e i fianchi, avanti e indietro, avanti e indietro. Sto lottando con tutta me stessa per non inarcare la schiena presa dall’eccitazione. Rilassarmi, dice lui. Come accidenti posso rilassarmi in queste condizioni? Se mi lascio andare, rischio di… ma lo sa che effetto mi sta facendo? Oppure sono solo io che sto reagendo nel modo sbagliato?!
Alla radio passano un’altra canzone tutta sospiri e voce sommessa. Non ce la posso fare.

“Bene, passiamo agli esercizi.” Erik mi dà una leggera pacca sul dorso, come al solito.
“Ecco” e mi riaggancia l’incrocio del reggiseno sportivo. Anche questa pare diventata un’abitudine dopo una settimana di terapia insieme.
Però ancora non riesco a rialzarmi dopo venti minuti di massaggi, intorpidita dalla fatica di resistere alle tentazioni. Mi sto controllando meglio, forse, ma non posso dire di essere diventata immune alle sue mani. Anzi, temo di sviluppare pure una dipendenza.
“Tutto a posto?” mi chiede vedendo che sono ancora distesa sul lettino.
“Ssssi…” mormoro assopita.
Passa davanti al lettino nell’attimo in cui mi sto sollevando per alzarmi. E quando penso di aver già sopportato il peggio, il mio sguardo si ritrova all’altezza del suo fondoschiena, coperto solo dal tessuto leggero dei pantaloni di cotone della divisa verde. Non nasconde niente di quello che c’è scolpito sotto. Un lato b perfetto, potrebbe competere con quello marmoreo della statua di Hercules a Firenze. Mi verrebbe quasi voglia di avanzare la mano e… Scrollo la testa, sentendomi arrossire fino alle doppie punte dei miei capelli!
Ma funziona per tutte così qui dentro? O sono solo io ad essere particolarmente sensibile a questi massaggi? Più che risvegliare i miei muscoli sembrano scuotere i miei ormoni. Qualche volta penso che era meglio se mi tenevo il dolore alla schiena invece di incappare nelle mani di Erik.
Mi infilo la maglietta e mi preparo per gli esercizi. Dall’altra parte della palestra c’è un’altra ragazza in terapia con Josè, è in piedi in bilico su un cuscinetto a mezza sfera, credo sia qui per un problema al suo piede. Mi dà le spalle e osservo il suo fisico asciutto e armonioso, tutte le curve al posto giusto, nemmeno un filo di grasso intorno. Anche Simone, l’altro fisioterapista che ha in osservazione una signora anziana con una protesi nuova all’anca, le lancia delle occhiate fameliche.
“Cosa stai fissando, così pensierosa?” mi chiede Erik, mentre mi porge l’elastico con cui iniziare la solita routine per le spalle.
“La sto un po’ invidiando”, ammetto arrossendo e accennando appena con la testa nella sua direzione. “E’ stupenda…”
Lui si volta appena. In effetti, non l’ho mai sorpreso a girarsi da quella parte. Come se non fosse per nulla attirato.
“Uhm sì, non è male. Se ti piace il culo alto.”
Il culo alto? E perché non dovrebbe piacere? Ma come fa a dire che è alto? Lo trovo perfetto, come tutto il resto.
Erik si sposta dietro di me e guida l’apertura delle mie braccia durante l’esercizio.
“Ok, non troppo su. Bene. Non infossare la testa tra le spalle, stai rilassata. Devi usare questi muscoli.” Preme le mani sulle mie scapole.
Torna davanti e mi osserva serio. “Ok, continua così, non curvare troppo la schiena.” Poi mi fissa negli occhi.
“Io però preferisco il culo basso, un po’ a mandolino.” Mi strizza l’occhio e passandomi di fianco posa lo sguardo sul mio sedere, prima di andare a rispondere al telefono del bancone che sta suonando.
Respiro a fondo, cercando di concentrarmi solo sulle mie braccia. Questa poi. Non sapevo di avere un bel… Lo ignoravo proprio.
Forse mi sta solo prendendo in giro, e io ci casco in pieno. Illusa che non sono altro. L’hai rifiutato tu questo treno, ora si prende la sua rivincita. Chissà che grosse risate, quando si troverà con gli amici a raccontare di questa paziente.
“Hai già fatto tre serie, ti ho visto.” La sua voce imperiosa interrompe i miei pensieri. “Vieni qui, proviamo un po’ l’equilibrio con quest’altro esercizio.”
Mi muovo verso la parete a specchio e mi porge una palla medica. “Mentre sollevi questa in alto, cerca di sollevare una gamba. Poi alterni con l’altra. Fai attenzione alla schiena.”
Mi guida mentre provo il movimento. “Ok, stendi il gambo…” mi dice concentrato a correggere la mia postura.
Lo sbircio senza riuscire a trattenere un sorriso. “Il gambo?” gli chiedo sorridendo.
Mi guarda sorpreso e poi si accorge dell’errore. “Eh già, anche tu! Stendi il tuo gambo… o il tuo stelo, bel fiorellino!”
E i suoi occhi mi agganciano, come se volesse spogliarmi di tutti i miei petali.
Il mio cuore ruzzola a terra, senza più un briciolo di ragione.

Dopo due settimane, mi sono abituata. Ai massaggi, alle mani di Erik, agli esercizi, al suo sguardo attento su di me. E ora fisso il calendario con orrore. Abbiamo solo altre tre terapie, e l’ultima, pensa che sfortuna nera, è giusto giusto la sera di San Valentino. Che sgambetto terribile mi ha giocato il destino. Forse dovrei saltare, chiamare la segreteria il giorno stesso e spiegare che ho avuto un contrattempo. Ma ho già mancato a un appuntamento con lui dieci anni fa. Non posso farlo una seconda volta, non da adulta e non per lavoro, il suo lavoro. Non sarebbe paura stavolta, ma maleducazione proprio.
Sto rimuginando a tutta questa situazione assurda, ferma nel corridoio principale dell’ipermercato, tra le offerte della settimana disposte in diversi mucchi colorati. Pochi metri davanti a me, una ragazza mostra un nuovo prodotto al suo ragazzo. Lui la abbraccia e osserva l’etichetta.
Non c’è niente di più sexy che fare la spesa insieme al proprio fidanzato. Invidio queste coppie. Ognuno conosce i gusti dell’altro. Si rincorrono tra le corsie e si trovano solo con uno sguardo in mezzo alla folla. Mi sento di troppo quando colgo una di quelle loro occhiate di profonda intesa. Come se stessi origliando una conversazione che non mi appartiene.
Adesso poi che si sta avvicinando San Valentino, è tutto un coro di sguardi infuocati. O forse è solo la mia immaginazione che galoppa. Corre così velocemente che sento persino una voce conosciuta chiamarmi dolcemente in lontananza. Mi sto proprio rimbambendo.
Con un sospiro, mi giro verso il mio nome, certa di trovare solo il vuoto.
Oh merda.
Erik mi sta raggiungendo dal reparto della colazione e merenda. Indossa un giaccone sformato e una tuta in felpa troppo larga. Sembra uscito di casa in fretta e furia. A stento trattengo una risata alla visione, così buffo con quella sua espressione stranita. Non sembra a suo agio e nemmeno tanto sicuro di sé, come sono abituata a vederlo in palestra.
Mentre si avvicina, noto che ha degli acquisti per bebè nel carrello. Lo stomaco mi si stringe in una morsa.
“Oh, congratulazioni…” Arrossisco puntando con il dito i pannolini per un maschietto. “Sei diventato papà. Quanti mesi ha?”
“Eh? No… io…” Se possibile, è più paonazzo di me in questo momento. “Ha due mesi, ma sono zio. Niente papà.”
“Capisco… congratulazioni lo stesso comunque.” Torno a respirare normalmente. Anche se vorrei capire il motivo del suo imbarazzo.
“Scusa… Maddalena, forse puoi aiutarmi. Non conosco questo supermercato, ma mia sorella era disperata ed ero di strada. Il bimbo non sta bene, qualche linea di febbre, tutto normale ma… il marito è fuori in trasferta e lei in panico… scusa, non voglio tediarti. Ma mi ha chiesto questi…”
Mi passa il suo cellulare, dove un messaggio mostra una lista della spesa, ferma sulla riga di prodotti per l’igiene femminile. Il compositore automatico ha inserito qualche errore, ma riconosco marche e articoli.
“Se la chiamo un’altra volta per capire cosa vuole o dirle che non lo trovo… quella mi sbrana vivo!”
Non riesco a trattenere una risata, rimirando la sua disperazione. Vera, non presunta.
“Se vuoi ancora un fisioterapista per domani sera, ti conviene aiutarmi…” continua quasi disperato.
“Ok, vieni, da questa parte.” Lo afferro io per un braccio stavolta, e lo trascino al reparto giusto.
Alla fine facciamo la spesa insieme, lui col suo carrello e io con il mio, ma insieme.
Quando torno a casa, non riesco a trattenere oltre la curiosità. Non so neppure come ho fatto a resistere finora. Accendo il portatile ancora prima di riporre i surgelati nel freezer e inizio a cercarlo sui social. Ci sarà scritto da qualche parte se… Lo rintraccio su Insta, dove ha un profilo un po’ scarno, qualche foto vecchia, presa qua e là in vacanza con gli amici. Uhm, nessuna ragazza in ombra. Gli metto il follow. Ma sì, non credo di fare niente di male. Se proprio gli dà fastidio, me lo dirà domani sera.
Passo anche gli altri social, ma lo trovo solo su Facebook. Qui ci sono contenuti e condivisioni più recenti, ma niente di importante. Se non fosse quell’informazione buttata là, in un angolino della sua pagina, sotto la voce “Situazione sentimentale”.
Stato attuale: single.

La penultima sera arrivo al centro di fisioterapia con il morale a livello del pavimento. Il nostro tempo insieme sta per terminare e non so se sperare in qualcosa di più. Mi ha ricambiato subito sia il follow su Instagram che l’amicizia su Facebook, ma poi si è fermato lì. Nessun messaggio.
Entrando in palestra, Erik mi saluta affabile come sempre. Mi prepara il solito lettino, dove io mi sdraio a pancia in giù, senza maglietta. Sgancia l’incrocio del reggiseno sportivo e comincia a massaggiarmi, chiedendomi se ho avuto fastidi alle spalle dopo gli esercizi di ieri.
“No, tutto bene…” rispondo appena, un po’ sgomenta. Preferirei quasi avere altro dolore ed essere costretta a continuare le terapie.
Toccami il cuore, vorrei dirgli. Fammi sapere che posso avere un’altra possibilità. Che non è davvero finito tutto quel giorno, per uno stupido indirizzo sbagliato. E invece resto in silenzio, completamente assorta, in balia delle sue mani delicate e forti, premurose e impertinenti. Mi lascio portare dalla sua corrente, senza opporre resistenza. Le sue dita si muovono agili su ogni centimetro della mia pelle.
Quasi in trance, non mi accorgo che sto parlando con lui, come se i suoi massaggi avessero lo stesso potere di qualche filtro della verità. Sono finalmente rilassata, la mia schiena è oramai plastilina morbida sotto le sue dita.
“Perché non sei venuta quel giorno?” domanda piano avvicinandosi al mio orecchio.
“Avevo sbagliato indirizzo…” mormoro senza pensare.
“Ma io ti avevo mandato quello corretto, con un messaggio” continua sussurrando.
“Lo so… io ero lì…” La scena di quel pomeriggio prende forma nella mia mente.
“Lì dove?” Sento il suo fiato caldo sul mio collo.
“Sul marciapiede di fronte… nascosta dietro un gruppetto di stranieri.”
Cala il silenzio. Nemmeno la radio funziona bene stasera, ha gracchiato per un po’ e poi l’hanno spenta. Chissà cosa starà pensando di me ora. E’ una fortuna che io sia stesa a faccia in giù e non possa scorgere il suo sguardo. Ho paura di ciò che potrei leggervi. Rabbia, fastidio, frustrazione, delusione, tristezza, forse pure odio.
Erik ci mette un po’ ad elaborare l’informazione, continua a massaggiare le mie spalle con grazia, le sue mani non mostrano alcun turbamento. Dopo un tempo che mi pare un secolo, torna a parlare con la voce un po’ rauca.
“Non capisco. Perché non ti sei fatta vedere, allora?”
Saranno le sue dita che toccano i punti giusti, ma decido di essere onesta fino in fondo. Anche se fa male. Anche se rischio tutto.
“Ho avuto paura… ti capita mai di pensare di non meritare qualcosa? Come se fosse troppa felicità, tutta insieme?”
Lo sento bloccarsi per un istante. Le sue mani ferme sui miei fianchi. Poi si muove e sento di nuovo il suo respiro caldo sul mio collo.
“Si, mi è capitato” mi svela in un soffio. “Ho aspettato una ragazza per un’ora e lei non è venuta. Ho pensato di non meritarmela.”
Una lacrima si affaccia tra le mie ciglia, ma decido che non è il momento e la ricaccio indietro.
Quando termina il massaggio, mi riaggancia le spalline con la medesima premura. Mi risollevo in piedi, mi rimetto la maglietta e sono pronta per gli esercizi alla spalliera. Ci guardiamo negli occhi per un momento, dopo quella confessione. Erik mi rivolge comunque un sorriso.
Non sembra essere cambiato niente tra noi. Eppure temo che qualcosa si sia rotto, senza rimedio.
La verità non è sempre un bene.

“Siamo da soli stasera, hai visto?” Erik lo dice allargando le braccia sulla palestra completamente vuota. Tranne noi due.
“E come mai?” chiedo senza nemmeno pensarci, pentendomi subito dopo per l’ovvietà che mi è sfuggita.
“Hanno tutti voluto la serata libera per festeggiare San Valentino. Sia i pazienti che i colleghi.”
“Oh” rifletto un attimo e poi arrossisco. “Oh, mi spiace! Magari anche tu volevi la serata libera, potevi dirmelo! Avrai sicuramente i tuoi impegni…” Stupida come sono, avevo immaginato di non venire io, specie dopo la conversazione spiacevole di ieri sera. Non ho considerato che, single o meno, magari lui ha comunque qualcun’altra con cui brindare un’occasione così speciale.
“Tranquilla, nessun impegno.” Mi sorride con una strana scintilla nelle iridi azzurre. “Almeno per ora.”
Sfuggo imbarazzata da quell’occhiata penetrante. Come sempre, mi prepara il lettino e io mi ci stendo dopo essermi sfilata la maglietta.
Inizia a massaggiarmi la schiena ma c’è qualcosa di diverso nell’aria, un profumo intenso. Mi rendo conto che sta usando una crema diversa dal solito, forse una concessione per l’ultima terapia. E’ davvero inebriante, lascio trasportare i sensi da questa coccola inaspettata. Anche la musica non proviene dal solito canale radio, credo piuttosto sia una playlist selezionata da qualche parte. Molto sensuale.
“Bene, davvero bene. Non ci sono più contratture, spalle, dorso, lombi, tutto a posto. Sei tornata come nuova. Contenta?”
“Ehm, sssì.” Non ne sono così convinta però. Mi mancherà questa tortura quotidiana. Mentre lo penso, le dita di Erik si muovono insolenti in orizzontale seguendo la fascia del reggiseno, fino a sfiorare proprio l’attaccatura di entrambi i seni. Un movimento lieve, solo un attimo appena, e qualcosa divampa laggiù, nel mio centro vitale. Il cuore accelera il suo battito in maniera assordante. Ci metto un po’ a calmarmi. Ma le mani di Erik non smettono e scendono nella zona lombare, sempre più malandrine corrono a lambire la parte alta delle mie natiche. Un’altra accelerazione improvvisa. Respiro a fondo per riprendere il controllo.
“Comunque la prossima volta che devi organizzare un trasloco… chiamami.” Avverto una lieve sogghigno nel tono della sua voce.
Davvero? Accipicchia. C’è nessuno dei miei amici che deve traslocare a breve? No eh? Però, riflettendoci un attimo, ho ancora una stanza da tinteggiare. Potrei chiedere il suo aiuto lo stesso? Metto tutto l’appartamento in ristrutturazione, se necessario.
“Non che mi dispiaccia averti qui…” continua con voce roca. “Ma non voglio vedere questa bella schiena di nuovo bloccata.”
Dopo il massaggio, straordinario come non mai, procediamo con i consueti esercizi. Solo che stavolta mi marca stretto, non avendo altri pazienti da seguire in contemporanea. Non smette di fissarmi, non smette di toccarmi, non smette di muoversi intorno a me.
Al termine dell’ultima serie, quando sto per salutarlo e non trovo le parole, è sempre Erik a sorprendermi.
“Se mi aspetti due minuti, mi cambio velocemente nello spogliatoio e usciamo insieme.”
Il mio cuore ruzzola veloce nel mio petto, saltando da tutte le parti e rischiando di esplodere in mille pezzi.
“Ooook” rispondo un po’ inebriata da quel “usciamo insieme” buttato lì, in mezzo alle altre parole.
Quando esce in corridoio in abiti civili, a stento trattengo un gemito di stupore. Giubbetto in pelle e jeans sdruciti, un borsone sportivo tra le mani, ancora più sexy che nella divisa verde con cui l’ho visto in queste settimane e quella tutta sformata che indossava quando ci siamo incrociati al supermercato.
“Allora… se ho capito, non hai nessun appuntamento nemmeno tu stasera.” Mi scruta mentre mi tiene aperta la porta principale.
“Ehm no.” Sorrido impacciata. Poi non lo so cos’è, l’oscurità che mi protegge appena usciti dall’edificio o l’unica briciola di coraggio in fondo al mio cuore. Ma glielo dico così, con lo stesso tono che ha usato lui prima. “Almeno per ora.”
Poi sollevo la testa e lo guardo negli occhi per un istante. Erik mi fissa sornione mentre toglie il cellulare dalla tasca del giubbetto. Lo vedo digitare qualcosa, concentrato sullo schermo, mentre la sua bocca s’incurva leggermente soddisfatta.
Il mio telefonino vibra nella borsa.
“E’ per te” mi dice.
Estraggo l’apparecchio e sblocco la tastiera. Un nuovo messaggio da un numero sconosciuto: “45.40305717999663, 11.911714269887389”.
“E questo cos’è?”
“Un invito a cena.” Sul suo viso si allarga un sorriso compiaciuto.
Fortuna che non può vedere le mie guance in fiamme, alla tenue luce del lampione sopra le nostre teste.
“Una sequela di cifre?”
“Sono le coordinate del posto. Ti basta scriverle su Google Maps e proprio non puoi sbagliare indirizzo. Stavolta non hai scuse.” Solleva un sopracciglio minaccioso.
“Non sfidare il destino… Gli imprevisti sono sempre in agguato, con me.” Ridacchio divertita, troppo euforica per la piega della serata.
“Non preoccuparti, ho preso le mie precauzioni” dice sventagliando un foglietto sotto il mio naso. “So dove abiti, è nella tua scheda paziente, dove ho preso il tuo numero di telefono.”
Mi sento mancare il respiro, Erik ha davvero provveduto a tutto.
“Però, a ben pensarci… giusto per essere sicuri… nel caso non ci vedessimo…” mi sussurra avvicinandosi. Molla il suo borsone per terra, afferra tra le mani il mio viso in fiamme, lo solleva leggermente verso di sé e mi attira in un bacio da favola. Lo accolgo, senza più paura. Con una mano continua ad accarezzarmi la guancia e con l’altra mi abbraccia stretta alla vita.
“Giusto un assaggio” mormora staccandosi un attimo appena dalla mia bocca.
Gli assaggi diventano due, tre, forse quattro, sto perdendo il conto. La sensualità delle sue dita è nulla in confronto al paradiso delle sue labbra. Rischio di non arrivarci davvero a quell’appuntamento. Sono ancorata ad Erik, ferma in questo parcheggio. Lui non mi lascia più andare.

 

(C) 2022 Barbara Businaro

 

Note:
Mi hanno sfidato a scrivere questo racconto, così come è scritto. Liberamente, fin troppo liberamente, tratto da una storia vera. Anzi, dovesse passare da queste parti un fisioterapista, gli porgo fin da subito le mie sentite scuse. Oh, tu non mi hai chiesto che lavoro faccio e di cosa mi interesso, quindi non ho avuto modo di svelare che ho il brutto vizio di scrivere. Scrivere storie per giunta. Così sono rimasta nell’ombra. 😎
Stavo già meditando di intrecciare il racconto di San Valentino sull’appuntamento mancato per un indirizzo ambiguo, due fast food nella stessa città. Storia verissima, ma non mia! Appartiene al mio coach Sam Heughan nel programma My Peak Challenge, un aneddoto divertente che rincorreva spesso nelle sue interviste, finché non l’ha riportato anche nel suo libro The Clanlands Almanac, che sto leggendo mese per mese.
Poi sono ritornata ad allenarmi in palestra e le mie simpatiche compagne, incuriosite dalla mia sparizione per tutto questo tempo dalle lezioni, praticamente quasi tre mesi, hanno cominciato a punzecchiarmi su quanto doveva essere migliore la fisioterapia – o il fisioterapista – in confronto ai nostri allenamenti dance mixx, fusion, strike e strenght. Oh, è una vita che lo dico, manca qualche maschietto nei nostri locali… Poi mi hanno sfidato a scriverne. E vi pare che una peaker, per giunta Peaker Writer, possa non accettare una challenge di questo tipo?!
Beh, adesso signor fisioterapista sai perché ridacchiavo tutte le sere. Stavo prendendo appunti. Osservavo e catalogavo tutto nella mia mente, ascoltavo e già immaginavo dove inserire questa o quella frase, rielaboravo il tutto e creavo nuovi scenari, pure totalmente diversi ma ispirati dal presente. Per la verità non ero concentrata su questo racconto, è tutto materiale che mi servirà per altro, più avanti. Chi scrive raccoglie ovunque, richiude le idee dentro varie boccette, di diversa forgia e colore. Quando è ora di dare vita ad una storia, sceglie gli ingredienti giusti e li mette tutti nel frullatore. A volte rimaniamo sorpresi pure noi dal gusto del risultato finale.
Così ho rovesciato i protagonisti della prima trama, li ho riagganciati in questa seconda, ho spostato luoghi, situazioni e muscoli, ho condito con molti cuori di zucchero rosa e qualche nota di peperoncino piccante. E alla fine dell’originale non è rimasto quasi più nulla. Posso assicurare però che nessun fisioterapista è stato torturato durante la lavorazione del racconto. Sono pure passati quasi altri due mesi. Ah, continuo a fare quegli esercizi e le mie scapole sono meno pigre. Anche perché la mia allenatrice adesso mi tiene d’occhio, mi marca stretta! 😀
Se devo dirla tutta, non avevo all’inizio nemmeno tanta voglia di scriverla questa storia per San Valentino, la mia mente era su altro. Come fare allora ad immergersi nell’atmosfera giusta, cercando di incanalare in qualche modo l’ispirazione verso la direzione desiderata?
Rimuovere dal lettore in auto la discografia completa dei Seether (erano ancora lì dallo scorso ottobre, per La storia di Liam e Caitlyn!) e inserire la colonna sonora completa della serie cinematografica Cinquanta sfumature. Da cui ho poi tratto la canzone ufficiale di questo racconto, inserita poco prima della scena che la riguarda: “Not Afraid Anymore” di Halsey. Voi potete ascoltare le altre canzoni della serie Cinquanta sfumature con queste playlist su YouTube: Fifty shades of Grey, Fifty shades darker, Fifty shades freed, Fifty shades of Grey The classical album. Tutto molto piccante.
Oh, non snobbatela, anche se non vi piacciono i romanzi, i film o il genere, perché il curatore musicale Danny Elfman ha messo insieme davvero una bella collezione, apprezzata e premiata a vari livelli. Sfumature o no, quelle note potreste sfruttarle molto bene come sottofondo di una serata romantica. Non sono necessari frustini e manette, è godibile(!) anche senza. Però è studiata per accendere i sensi… 😉

Sharing is caring! Condividi questo post:

Comments (10)

Lisa Agosti

Feb 14, 2022 at 10:21 AM Reply

Brava Barbara!
Che bel racconto!
🙂
PS: io sono proprio la sorella egoista che va a Londra! Yeah!

Barbara Businaro

Feb 15, 2022 at 4:11 PM Reply

Grazie Lisa!! 🙂
PS: io ti accompagno, faccio scalo ma poi prendo un altro volo per Edimburgo! 😛

BRUNILDE

Feb 14, 2022 at 5:14 PM Reply

Ho letto il tuo racconto stamattina, mentre facevo colazione, prima di inziare questa giornata che sarà anche San Valentino ma per me rimane comunque un lunedì, ovvero il giorno più complicato della settimana.
Grazie per avermi regalato un sorriso, la storia è fresca, scorrevole e molto tenera. Brava!

Barbara Businaro

Feb 15, 2022 at 4:22 PM Reply

Grazie Brunilde! 🙂
Era lunedì anche per me eh, però ero nello stato di grazia che mi avvolge quando il racconto appena terminato mi ha dato proprio soddisfazione. Non succede ogni volta, non so nemmeno da cosa dipenda, forse quando vedo la storia “partire” da sola sotto i miei occhi. Questo giro Maddalena e Erik hanno fatto tutto da soli. Non sapevo che Maddalena alla fine aveva attraversato la città per andare al Burger King giusto, me l’ha detto lei. Non sapevo che si sarebbero incrociati al supermercato. Ero io fisicamente al supermercato e me li sono trovata davanti. Non come due estranei veri che poi ho “riciclato” nella storia. No, stavo facendo la spesa e puff! “Guarda che Maddalena e Erik si sono trovati al supermercato, non lo sai?”
Mi uscirà un racconto così ogni cinque, forse ogni dieci… ma quando arriva, stai lì col cursore sull’ultima parola, a dirti: Che bello! Macché l’ho scritto io? Sul serio?! 😉

IlVecchio

Feb 14, 2022 at 5:36 PM Reply

I turbamenti che non prova il mio povero corpo rattrappito quando un’avvenente signorina mi si avvicina per curarmi. Non sono debole di cuore, ma qualche colpo lo perde anche la mia povera valvola.
Buon San Valentino. Racconto godibilissimo. : -)

Barbara Businaro

Feb 15, 2022 at 4:23 PM Reply

Non si è mai troppo vecchi per l’amore… 😉

Barbara

Feb 14, 2022 at 7:16 PM Reply

Una bellissimo racconto, fluido, coinvolgente e che fa sognare!

Barbara Businaro

Feb 15, 2022 at 4:25 PM Reply

Sembra che me lo sono scritto io, questo commento! 😀 😀 😀
No, è un’altra Barbara, una Barbara peaker, ottima lettrice e magnifica insegnante. Grazieeeeeeee!! ❤

Giulia Mancini

Feb 15, 2022 at 6:15 AM Reply

San Valentino è sempre un’ottima scusa per raccontare una storia d’amore, questo racconto è molto carino e fa credere alla possibilità delle seconde occasioni; ed é anche bello che un malanno come il mal di schiena si trasformi in un nuovo incontro (che il primo era proprio andato male accidenti!)

Barbara Businaro

Feb 15, 2022 at 5:31 PM Reply

Credo molto nelle seconde occasioni! Un po’ meno alle terze… 😀
Il primo appuntamento, nella storia vera del mio coach Sam Heughan, era andato malissimo. Lui ha sbagliato fast food, ma non c’erano i cellulari all’epoca, quindi nessuna possibilità di comunicare fuori casa. Ha atteso un’ora fuori al freddo, perché poi, per mostrarsi splendido, si era anche vestito poco! E’ tornato a casa congelato e la mattina dopo pare che la ragazza fosse parecchio arrabbiata, senza appello. Nel libro, racconta di averla incontrata per caso due anni fa (vent’anni dopo dall’episodio) durante una ripresa di Men in Kilts. Lei era tra le comparse, tra ballerini e suonatori che ricreavano una danza pagana di Beltane. L’ha riconosciuta, si è avvicinato e si sono parlati. Non dice altro, ma io mi immagino lei che sta ancora rosicando… 😛

Leave a comment

Rispondi a Barbara Businaro Annulla risposta