Le regole di un dialogo, senza impazzire sul classico "disse"

Le regole di un dialogo che funziona
(senza impazzire sul “disse”)

Poco tempo fa Giulio Mozzi, scrittore e consulente editoriale di Marsilio Editori, nonché docente della rinomata Bottega di narrazione di Laurana Editore, ha pubblicato proprio sul sito della Bottega un interessante articolo sulla composizione dei dialoghi e la fobia degli scrittori per il verbo “dire”: 144 modi per non dire “disse”, uno per non dirlo proprio e uno per dirlo sempre
La sua analisi dettagliata giunge in risposta ad un post di Daniele Imperi nel suo blog Penna Blu, Dialoghi: 144 alternative al classico “disse”, una sorta di prontuario d’emergenza che suddivide ben 144 diversi sinonimi del verbo “dire” in categorie a seconda del loro possibile impiego, tra verbi di risposta, di contestazione, informativi, di pensiero e assertivi, che esprimono contentezza oppure ira, che indicano una modulazione nel tono della voce, che provocano una reazione, che danno inizio al discorso, lo chiudono o lo completano. Un lavoro minuzioso e di pazienza.

C’è poco da dire(!): potremmo anche completare un romanzo senza utilizzare dialoghi, ma quando ci sono, devono essere scritti in maniera impeccabile, o quasi. Il lettore che incespica in un dialogo brutto, non necessariamente per la presenza del “disse” ad ogni riga, si infastidisce e un solo scambio di battute rischia di rovinargli tutta la lettura, di vanificare in un istante quella che magari è pure una bella scena all’interno della trama.

Ma Giulio Mozzi propone una riflessione semplice semplice, in forma di criterio generale, evidenziata dal grassetto: se un dialogo è bene scritto, non ha bisogno di alcun indicatore di modulazione del tono di voce.
Poco più sotto nel suo articolo aggiunge anche un’altra considerazione, mascherata da domanda: il dialogo deve avere forza di per sé, senza essere sostenuto da una più o meno macchinosa messa in scena.
Suggerisce infine un esercizio di verifica: prendere un proprio testo (oppure se non si è autolesionisti – e io non lo sono affatto – un testo scritto da qualcun altro) e osservare una per una le battute con gli eventuali verbi di conversazione, avverbi ecc. connessi. Se lo scritto è proprio, chiedersi se si possono eliminare verbi e avverbi, ridurli, modificarli o quali altre parole introdurre nel dialogo perché non siano necessarie altre specificazioni.

Ho pensato subito fosse un esercizio illuminante. Del resto, ogni volta che leggo mi impongo di analizzare anche il testo, con l’altro occhio della scrittura, ma poi finisco col farmi prendere della storia e tanti saluti.
Questa era la volta buona di afferrare uno dei miei libri preferiti da un autore contemporaneo e “smontarlo”.

E che romanzo potevo scegliere io?! Dai, lo so che conoscete la risposta… 😉

 

Un dialogo che funziona da Outlander
di Diana Gabaldon

Per chi non segue questo blog da tempo, Diana Gabaldon è una delle mie scrittrici preferite e sto leggendo i suoi libri della saga Outlander in contemporanea guardando con la serie tv Starz, in onda in Italia su Sky FoxLife. Qualcuno lo definisce un romance, qualcun’altro un fantasy, ma per lo più viene considerato un romanzo storico. Ne avevo scritto qui la prima volta: Quando si definisce “romanzo storico”?
La stessa autrice ha poi risposto a chi la tacciava di aver scritto un romanzetto rosa per casalinghe annoiate, ma di volerlo elevare ad un romanzo storico una volta ottenuto il successo (Outlander è pubblicato in 26 paesi, tradotta in 23 lingue, con 25 milioni di copie vendute) e l’ha fatto all’interno delle pagine di uno dei volumi successivi, come ho raccontato nel post Il pregiudizio del lettore
Ho avuto anche la straordinaria opportunità nel marzo 2018 di incontrare Diana Gabaldon al Livre Paris, il salone del libro di Parigi. Una bufera di neve incredibile, tanto quanto l’occasione di poterle parlare dal vivo, persona di rara gentilezza con i suoi lettori.

Se volete conoscere la storia narrata in Outlander, potete leggere questo mio divertente bignami: Outlander spiegato agli amici
Si riferisce in realtà alla serie televisiva, anche se le differenze con i romanzi non sono così abissali (beh, nella quarta stagione hanno resuscitato un personaggio, potere della pellicola, ma non cambia il focus del presente ragionamento).

Il dialogo che ho deciso di analizzare è preso dal romanzo La croce di fuoco, che corrisponde proprio alla quinta stagione attualmente in onda.
Claire Randall, infermiera inglese del ventesimo secolo, è tornata nuovamente indietro nel tempo, attraverso il cerchio magico di Craigh Na Dun, e ha raggiunto il suo vero amore Jamie Fraser, nobile scozzese del diciottesimo secolo. Siamo in America nel 1771, i rapporti tra la vecchia Inghilterra e le nuove colonie sono sempre più tesi, una nuova guerra, quella che Claire conosce dai libri di Storia, è all’orizzonte. Jamie ha avuto in concessione dal Governatore della Corona un ampio lotto di terreno, dove ha costruito Fraser’s Ridge. Vivono tutti qui, insieme alla figlia Brianna che li ha raggiunti nel tempo, al suo compagno Roger e al loro figlioletto Jemmy. Per non perdere la concessione Fraser è anche costretto ad accettare la nomina a colonnello, con il compito di arruolare un reggimento e soffocare le insurrezioni dei Regolatori, uomini armati che non riconoscono l’autorità inglese.

Per l’esercizio ho preso in considerazione uno dei dialoghi che mi è rimasto impresso, proprio perché vivido e brillante tra parole e comunicazione non verbale dei protagonisti.
Vediamo nel dettaglio la situazione che precede questo scambio di battute: i nostri protagonisti sono nella tenuta di River Run per assistere al matrimonio di zia Jocasta con il fedele Duncan Innes, si annuncia una celebrazione opulenta e una festa ricca di avvenimenti a cui partecipa la nuova nobiltà terriera. Da tempo Jamie non vede sua moglie Claire vestita in abiti eleganti, e molti occhi sono puntati sulla figura flessuosa della moglie. In particolare, un giovanotto, tale Phillip Wylie, imbellettato a dismisura con tanto di neo finto a forma di stella sul mento, non riesce proprio a staccare lo sguardo e con la scusa di mostrarle una piccola puledrina appena nata, la conduce alle stalle. Qui tenta di flirtare con lei, obbligandola ad un bacio. Scioccata e stordita, Claire fugge all’esterno, non senza avergli mollato un paio di improperi ben assestati. Ma fuori dalla stalla, Claire incrocia proprio il marito Jamie…

Caitriona Balfe e Sam Heughan, Outlander, STARZ Original Series

 

«Sassenach», mi interruppe.
«Che c’è?»
«Cosa stavi facendo, in nome di Dio?» sbottò.
Lo fissai sbigottita. La sua faccia aveva acquistato una tinta sempre più paonazza, mentre parlavamo, che io avevo però attribuito solo a frustrazione e preoccupazione per Ninian e i Regolatori. Ora cominciavo a rendermi conto, cogliendo un pericoloso luccichio blu nei suoi occhi, che il suo atteggiamento doveva essere dovuto a qualcosa di più personale.
Inclinai la testa di lato, guardandolo di traverso.
«Che vorresti dire con ‘cosa stavo facendo’?»
Strinse con forza le labbra e non rispose. Allungò invece il dito indice e mi sfiorò, molto delicatamente, l’angolo della bocca. Dopodiché girò la mano e mi piazzò sotto il naso un piccolo oggetto scuro attaccato alla punta del suo dito: il neo finto a forma di stella di Phillip Wylie.
«Oh». Percepii un lontano ronzio nelle orecchie. «Quello. Ehm…» Ebbi un capogiro, con tanti puntini – a forma di stelline nere – che mi danzavano davanti agli occhi.
«Sì, quello», ribatté secco. «Cristo, donna! Sono immerso fino al collo nelle ciance di Duncan e nei capricci di Ninian… e perché non mi hai detto che si è azzuffato con Barlow?»
«Non la descriverei esattamente una zuffa», risposi, sforzandomi al massimo di riguadagnare il sangue freddo. «Inoltre il Maggiore MacDonald vi ha posto fine, visto che tu eri sparito nel nulla. E già che ci siamo, dato che vuoi sapere cosa è successo, il Maggiore vuole…»
«Lo so cosa vuole». Liquidò il Maggiore con un secco movimento del polso. «Aye, io ne ho fin sopra i capelli di Maggiori e Regolatori e sguattere ubriache, e tu invece te ne vai nella stalla a pomiciare con quel bellimbusto!»
Sentendomi montare il sangue alla testa, strinsi i pugni, per controllare l’impulso di schiaffeggiarlo.
«Io non stavo minimamente ‘pomiciando’, e tu lo sai! Quello stupido babbeo ci ha provato con me, tutto qui».
«Ci ha provato? Ha fatto all’amore con te, vuoi dire? Aye, lo vedo bene!»
«No!»
«Oh, aye? Gli hai chiesto di lasciarti provare il suo neo come portafortuna, allora?» Mi agitò sotto il naso il dito con il puntino nero, che io respinsi con un gesto brusco, ricordandomi con qualche attimo di ritardo che in questa epoca «fare all’amore» significava solo flirtare in modo leggero, e non fornicare.
«Voglio dire », ripresi a denti digrignati, «che mi ha baciata. Probabilmente per scherzo. Sono abbastanza vecchia da poter essere sua madre, per l’amor di Dio!»
«O magari sua nonna», ribatté brutalmente Jamie. «Baciata, perbacco… perché diavolo lo hai incoraggiato, Sassenach?»
Restai a bocca aperta per lo sdegno, sentendomi insultata sia per essere stata definita nonna di Phillip Wylie sia per l’accusa di averlo incoraggiato.
«Incoraggiato? Ma che dici, maledetto idiota? Sai benissimo che non l’ho incoraggiato affatto!»
«La tua stessa figlia ti ha vista entrare là dentro insieme a lui! Non ti vergogni? Con tutte le cose di cui debbo occuparmi, vuoi costringermi anche a sfidare a duello quell’uomo?»
Provai una leggera fitta di rimorso al pensiero di Brianna, e una più forte all’idea di Jamie che sfidava a duello Wylie. Benché non avesse indosso la sua spada, l’aveva portata con sé. Accantonai risolutamente entrambi i pensieri.
«Mia figlia non è una stupida né una pettegola maligna», controbattei con immensa dignità. «Non penserebbe un bel nulla di me, se mi vedesse mentre vado a guardare un cavallo, e perché mai dovrebbe, del resto? Nessuno dovrebbe vederci niente di male».
Buttò fuori un lungo respiro dalle labbra arricciate, e mi fulminò con un’occhiataccia.
«Già, perché? Forse perché ti hanno notata tutti mentre flirtavi con lui sul prato. Perché lo hanno visto seguirti come un cane appresso a una cagna in calore?» A quelle parole dovette aver notato la mia espressione pericolosa, perché tossì brevemente e continuò in fretta.
«Più di una persona ha pensato bene di venirmelo a riferire. Credi che mi piaccia essere diventato lo zimbello di tutti, Sassenach?»
«Brutto… dannato…» La furia mi strozzò. Volevo schiaffeggiarlo, sennonché vidi parecchie teste voltarsi interessate verso di noi. «Cagna in calore? Come osi rivolgermi un insulto del genere, maledetto bastardo?»
Ebbe la decenza di mostrarsi un po’ imbarazzato, a quel punto, pur guardandomi ancora male.
«Aye, bene. Non avrei dovuto metterla proprio così. Non volevo… però tu ti sei appartata con lui, Sassenach. Come se non avessi già abbastanza gatte da pelare, adesso anche mia moglie… se invece tu fossi andata a trovare mia zia, come io ti avevo chiesto, allora tutto questo non sarebbe successo. Ora guarda cos’hai combinato!»
Avevo cambiato idea a proposito del duello. Adesso volevo che Jamie e Phillip Wylie si ammazzassero a vicenda, all’istante, pubblicamente e con il massimo spargimento di sangue. Inoltre non me ne importava un fico secco di chi ci stesse guardando. Azzardai un serissimo tentativo di castrarlo a mani nude, e lui mi afferrò i polsi, sollevandomeli bruscamente.
«Cristo! La gente ci guarda, Sassenach!»
«Non… me ne frega… un cazzo!» sibilai, lottando per liberarmi. «Lasciami andare, altrimenti glielo do io, qualcosa da guardare!»
Pur non avendogli staccato gli occhi dal volto, mi ero accorta che un buon numero di facce si erano girate verso di noi, tra quelle che affollavano il prato. E anche lui se ne era accorto. Congiunse per un attimo le sopracciglia, poi indurì il viso in una decisione improvvisa.
«D’accordo, allora», replicò. «Lasciali guardare».
Mi avvolse il corpo con le braccia, mi strinse forte contro di sé e mi baciò. Incapace di liberarmi, invece di lottare mi irrigidii, furiosa. Potei udire in lontananza scrosci di risa e rauche grida di incoraggiamento. Ninian Hamilton urlò qualcosa in gaelico che fui contenta di non capire.
Alla fine staccò le labbra dalle mie, sempre tenendomi stretta a sé, e chinò molto lentamente la testa, la sua guancia fresca e solida contro la mia. Anche il suo corpo era solido, e niente affatto fresco. Il suo calore filtrava da almeno sei strati di tessuto per raggiungere la mia pelle: camicia, panciotto, giacca, abito, sottoveste e stecche. Che si trattasse di rabbia, eccitazione o entrambe, ardeva rovente come una fornace alimentata a pieno ritmo.
«Scusami», sussurrò, il suo alito caldo che mi solleticava l’orecchio. «Non volevo insultarti. Davvero. Vuoi che uccida quell’uomo, e che poi mi suicidi?»
Mi rilassai, molto leggermente. Le mie anche erano saldamente premute contro di lui, e con solo cinque strati di tessuto in mezzo a noi in quel punto, l’effetto fu rassicurante.
«Forse non ancora, non subito», risposi.

La croce di fuoco, Diana Gabaldon
Traduzione di Valeria Galassi

 

Per un migliore confronto, sono andata anche alla ricerca del testo originale in lingua inglese (dovete sapere che io ho già acquistato tutti gli ebook sia in italiano che in inglese – fanatica! – e compero i cartacei man mano che li leggo; le versioni digitali consentono ricerche molto più veloci su romanzi così lunghi):

“Sassenach,” he interrupted.
“What?”
“What in the name o’ God have ye been doing?” he burst out.
I stared at him in bewilderment. His face had been growing redder as we talked, though I had supposed it to be only frustration and worry over Ninian, and the Regulators. It dawned on me, catching a dangerous blue glint in his eye, that there was something rather more personal about his attitude. I tilted my head to one side, giving him a wary look.
“What do you mean, what have I been doing?”
His lips pressed tight together, and he didn’t answer. Instead, he extended a forefinger and touched it, very delicately, beside my mouth. He turned his hand over then, and presented me with a small dark object clinging to the tip of his finger—Phillip Wylie’s star-shaped black beauty mark.
“Oh.” I felt a distinct buzzing in my ears. “That. Er . . .” My head felt light, and small spots—all shaped like black stars—danced before my eyes.
“Yes, that,” he snapped. “Christ, woman! I’m deviled to death wi’ Duncan’s havers and Ninian’s pranks—and why did ye not tell me he’d been fighting wi’ Barlow?”
“I’d scarcely describe it as a fight,” I said, struggling to regain a sense of coolness. “Besides, Major MacDonald put a stop to it since you were nowhere to be found. And if you want to be told things, the Major wants—”
“I ken what he wants.” He dismissed the Major with a curt flick of his hand. “Aye, I’m up to my ears in Majors and Regulators and drunken maid servants, and you’re out in the stable, canoodling wi’ that fop!”
I felt the blood rising behind my eyes, and curled my fists, in order to control the impulse to slap him.
“I was not ‘canoodling’ in the slightest degree, and you know it! The beastly little twerp made a pass at me, that’s all.”
“A pass? Made love to ye, ye mean? Aye, I can see that!”
“He did not!”
“Oh, aye? Ye asked him to let ye try his bawbee on for luck, then?” He waggled the finger with the black patch under my nose, and I slapped it away, recalling a moment too late that “make love to” merely meant to engage in amorous flirtation, rather than fornication.
“I mean,” I said, through clenched teeth, “that he kissed me. Probably for a joke. I’m old enough to be his mother, for God’s sake!”
“More like his grandmother,” Jamie said brutally. “Kissed ye, forbye—why in hell did ye encourage him, Sassenach?”
My mouth dropped open in outrage—insulted as much at being called Phillip Wylie’s grandmother as at the accusation of having encouraged him.
“Encourage him? Why, you bloody idiot! You know perfectly well I didn’t encourage him!”
“Your own daughter saw ye go in there with him! Have ye no shame? With all else there is to deal with here, am I to be forced to call the man out, as well?”
I felt a slight qualm at the thought of Brianna, and a larger one at the thought of Jamie challenging Wylie to a duel. He wasn’t wearing his sword, but he’d brought it with him. I stoutly dismissed both thoughts.
“My daughter is neither a fool nor an evil-minded gossip,” I said, with immense dignity. “She wouldn’t think a thing of my going to look at a horse, and why ought she? Why ought anyone, for that matter?”
He blew out a long breath through pursed lips, and glared at me.
“Why, indeed? Perhaps because everyone saw ye flirt with him on the lawn? Because they saw him follow ye about like a dog after a bitch in heat?” He must have seen my expression alter dangerously at that, for he coughed briefly and hurried on.
“More than one person’s seen fit to mention it to me. D’ye think I like bein’ made a public laughingstock, Sassenach?”
“You—you—” Fury choked me. I wanted to hit him, but I could see interested heads turning toward us. “‘Bitch in heat’? How dare you say such a thing to me, you bloody bastard?”
He had the decency to look slightly abashed at that, though he was still glowering.
“Aye, well. I shouldna have said it quite that way. I didna mean—but ye did go off with him, Sassenach. As though I hadna enough to contend with, my own wife . . . and if ye’d gone to see my aunt, as I asked ye, then it wouldna have happened in the first place. Now see what ye’ve done!”
I had changed my mind about the desirability of a duel. I wanted Jamie and Phillip Wylie to kill each other, promptly, publicly, and with the maximum amount of blood. I also didn’t care who was looking. I made a very serious effort to castrate him with my bare hands, and he grabbed my wrists, pulling them up sharply.
“Christ! Folk are watching, Sassenach!”
“I . . . don’t . . . bloody . . . care!” I hissed, struggling to get free. “Let go of me, and I’ll fucking give them something to watch!”
I didn’t take my eyes off his face, but I was aware of a good many other faces turning toward us in the crowd on the lawn. So was he. His brows drew together for a moment, then his face set in sudden decision.
“All right, then,” he said. “Let them watch.”
He wrapped his arms around me, pressed me tight against himself, and kissed me. Unable to get loose, I quit fighting, and went stiff and furious instead. In the distance, I could hear laughter and raucous whoops of encouragement. Ninian Hamilton shouted something in Gaelic that I was pleased not to understand.
He finally moved his lips off mine, still holding me tightly against him, and very slowly bent his head, his cheek lying cool and firm next to mine. His body was firm, too, and not at all cool. The heat of him was leaching through at least six layers of cloth to reach my own skin: shirt, waistcoat, coat, gown, shift, and stays. Whether it was anger, arousal, or both, he was fully stoked and blazing like a furnace.
“I’m sorry,” he said quietly, his breath hot and tickling in my ear. “I didna mean to insult ye. Truly. Shall I kill him, and then myself?”
I relaxed, very slightly. My hips were pressed solidly against him, and with only five layers of fabric between us there, the effect was reassuring.
“Perhaps not quite yet,” I said.

The fiery cross, Diana Gabaldon

 

Se volevate la prova che un bravo traduttore fa la differenza di un testo, eccola qui. Nell’originale inglese ci sono ben sette “said”, coniugazioni del verbo “to say”, ma nella traduzione in italiano non c’è alcun “disse” o “dissi”, il verbo “dire” non è mai usato. Questo perché la nostra lingua italiana è meravigliosamente complessa e abbiamo una varietà eccezionale di termini da impiegare. Il lavoro del traduttore è più che mai fondamentale.

Cos’altro osserviamo in questo dialogo? Non ci sono più di quattro battute secche in successione, ma la scrittrice preferisce aggiungere del movimento, rendere vivace la scena con la comunicazione non verbale, le espressioni facciali, i corpi che si muovono, le posture. Dato che è in prima persona, può aggiungere il pensiero della protagonista narrante. Non c’è comunque mai nessun dubbio su chi stia dicendo cosa.
Potremmo togliere verbi o avverbi, specificare meglio o non spiegare affatto?
(Io no, non riesco a rispondere alla domanda… 😀 )

 

Le regole di un dialogo che funziona
da Diana Gabaldon

Tra i libri di Diana Gabaldon, troviamo un piccolo manuale di scrittura che ho recensito in questo post: E adesso prendimi. Come scrivo le scene di sesso di Outlander 
Proprio nel Capitolo 1 svela le regole di un dialogo che funziona, valide non solo per le scene erotiche:

  1. Utilizzate frasi brevi.
  2. Utilizzate paragrafi brevi.
  3. Chiarite bene chi dice che cosa (con espressioni come lui disse/lei strillò/lui urlò/loro cantarono, ecc., o utilizzando il linguaggio del corpo).
  4. Non impazzite per evitare il termine «disse». È il verbo più normale, in un dialogo, e anche il più adatto; è quasi invisibile, e non attira l’attenzione. Sostituendolo con altri correte il rischio che il lettore si lasci distrarre dal modo di parlare di un personaggio. Non fatelo, a meno che non sia strettamente necessario. «Gridò nel vento» ad esempio, va bene, perché in questo caso la persona in questione dovette urlare sul serio, e il lettore deve saperlo. «Disse nel vento» non ha alcun senso. Bisogna «urlare» se non vogliamo che la voce venga coperta da raffiche e folate.
  5. Non utilizzate il dialogo per dare informazioni di fondo. («Come sapete, Bob, vostro padre, il re…»)
  6. Fate attenzione a chi parla e al suo interlocutore. Mai confondere il lettore con lunghi dialoghi in cui non viene indicato chi parla. Certo, non dovete aggiungere «disse lui/lei» dopo ogni battuta, ma usate pronomi e verbi abbastanza spesso da chiarire chi sta parlando. Come regola generale, quattro battute è il massimo che possiate concedervi senza utilizzarli.
  7. Usate espressioni idiomatiche, dialetto, esclamazioni caratteristiche, eccetera per delineare in modo ben distinto personaggio, geografia, classe sociale, epoca, eccetera. Un brevissimo esempio: considerate l’ex infermiera impegnata sui campi di battaglia durante la Seconda Guerra Mondiale, che nei momenti di stress esclama: «Gesù Cristo d’un Roosevelt!» di fronte al marito – un Highlander vissuto nel Diciottesimo secolo, che invece è incline a espressioni come «Aye, fallo ancora, Sassenach!» Non ci sono mai dubbi su chi dei due stia pronunciando una frase. (Non voglio scendere ulteriormente nei dettagli, poiché il dialogo idiomatico o comunque caratteristico dei personaggi meriterebbe un seminario di novanta minuti almeno, e non è specifico delle scene di sesso. Ma tenetelo a mente.)
  8. Mantenete un equilibrio tra dialoghi e parte narrata. Ossia, evitate dialoghi eccessivamente lunghi e privi di interruzioni.
  9. Impedite ai vostri personaggi di parlare senza uno scopo: mettetegli in bocca delle parole solo se hanno effettivamente qualcosa da dire.
  10. Non interrompete una sequenza di azioni con un dialogo. (In verità questo di solito non vale per le scene di sesso, in cui l’azione dovrebbe essere decisamente integrata con le parole dei protagonisti.)

Confesso: questa è la mia Bibbia, o meglio, questi sono i miei 10 comandamenti. Cerco di seguirli il più possibile quando scrivo, perché i dialoghi di Diana Gabaldon mi piacciono, sono quelli che voglio leggere e, difficile ma ci provo, anche quelli che io stessa voglio scrivere.
Se dopo aver fissato per bene questo elenco, tornate a rileggere l’estratto sopra, vedrete meglio come l’autrice le applica e che effetto abbiano sul testo.

 

Quali sono i vostri dialoghi preferiti?

Facciamo un gioco? Portate nei commenti i vostri dialoghi preferiti, con i paragrafi che inquadrano la scena completa, e proviamo insieme ad analizzarli.
Perché vi piacciono, che verbi o espressioni sono state utilizzate, se è possibile migliorarli in qualche modo.
Potremmo anche confrontare diversi autori, differenti stili e scoprire chi si avvicina di più alla realtà. Questo è lo scopo di un buon dialogo. 😉

 

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Comments (24)

Stefano Franzato

Apr 19, 2020 at 9:19 AM Reply

Uno scrittore famoso e noto per la perfezione dei suoi dialoghi è Peter Cameron (“Quella sera dorata”, “Un giorno questo dolore ti sarà utile”, “Il weekend”…)

Barbara Businaro

Apr 20, 2020 at 2:32 PM Reply

Ho letto recensioni contrastanti di Quella sera dorata e Il weekend, mentre trovo tutti molto concordi su Un giorno questo dolore ti sarà utile (frase che per altro sottoscrivo, purtroppo si impara più dal dolore che dalla gioia…)
E via, mettiamo in lista anche questo. Grazie come sempre Stefano! 🙂

Giulia Mancini

Apr 19, 2020 at 11:10 AM Reply

Non ho un dialogo preferito, quello della Gabaldon è scritto molto bene, ben inframezzato da linguaggio del corpo. Comunque noi italiani abbiamo il vantaggio di avere tantissime sfumature del verso ‘dire’ come si evince anche dal testo in inglese.
Stamattina ho letto alcuni dialoghi di Carofiglio e ho visto che non sono mai lunghissimi e sono sempre inframezzati da pensieri o brevi informazioni, insomma, come si consiglia nel tuo post, occorre un buon equilibrio tra dialoghi e parte narrata.

Barbara Businaro

Apr 20, 2020 at 2:33 PM Reply

Per curiosità, sono andata a leggermi un incipit di Carofiglio, dal suo libro La misura del tempo. Lo riporto qui per i lettori. Anche quando lo scambio è continuo, non è mai pesante. Un dialogo ben bilanciato, come dici tu. 🙂

– Che abbiamo oggi, Pasquale? – chiesi entrando in studio e pensando, nello stesso momento e per l’ennesima volta, che si trattava di un rituale di cui ero stanco.
– Vediamo… la Colella dovrebbe venire finalmente a pagare. Poi c’è il consulente tecnico del processo Moretti, la questione della lottizzazione; passa a prendersi le carte, ma dice che vuole parlare con lei cinque minuti. E alle sette una cliente nuova.
– Chi è?
Pasquale sfogliò, con il consueto lieve sussiego, il blocnotes a spirale che porta sempre con sé. Ognuno di noi ha qualcosa che lo identifica e in cui, se ne è consapevole, si identifica. Per Pasquale è il bloc-notes. Li compra lui, senza metterli sulle spese di cancelleria dello studio, e li prende sempre uguali, di un tipo fuori moda che si trova solo in una vecchia cartoleria, polverosa e un po’ commovente, del quartiere Libertà. Hanno la copertina nera ruvida e il taglio lievemente colorato di rosso, come quelli che usava mio nonno.
– Si chiama Delle Foglie. Ha telefonato ieri pomeriggio, ha chiesto un appuntamento il prima possibile. Ha detto che è una cosa grave, che riguarda suo figlio.
– Delle Foglie e poi?
– In che senso, avvocato?
– Ha lasciato solo il cognome?
– Solo il cognome, sí.
Per alcuni mesi, cosí tanti anni prima che preferivo non contarli, avevo conosciuto una ragazza che si chiamava Delle Foglie. Era stato in un’epoca lontana nel tempo e lontanissima nella memoria. Un periodo cui non avevo piú pensato dopo che era trascorso e si era dissolto. Mentre Pasquale parlava mi tornarono in mente ricordi indistinti e irreali, quasi riguardassero qualcun altro; eventi che mi sembrava di conoscere perché qualcuno me li aveva raccontati, non perché mi fossero davvero accaduti.
– Arriva alle diciannove. Se però ha altri impegni, – aggiunse Pasquale, forse notando qualcosa di strano nella mia espressione, – posso richiamarla.
– No, no. Alle diciannove va benissimo.
Pasquale tornò alla sua postazione in anticamera. Io pensai per qualche minuto a questa nuova cliente e decisi che non era la Delle Foglie di allora. Non c’era motivo che fosse lei, mi dissi in modo non particolarmente razionale, e archiviai la questione.

Elena

Apr 19, 2020 at 11:12 AM Reply

Ho seguito quel dialogo a distanza tra Mozzi e Pezza Blu sull’uso di disse. Ho trovato come sempre Mozzi straordinario, nel dimostrare come semplicemente non ci sono regole né divieti per l’utilizzo di disse ma come tutto dipenda dal contesto e dall’uso delle parole nel dialogo stesso.
Per accogliere il tuo invito, non potevo non pescare nel vasto mondo narrativo del grande Dostoevskij, e in particolare da “I fratelli Karamazov”, per me il migliore romanzo di sempre, che ha scelto proprio il dialogo tra i personaggi come cifra distintiva della sua narrazione.
Riporto qui la confessione d’amore di Katja, la donna contesa tra Mitja e suo padre, di cui il primo è stato accusato di parricidio. La donna che divorata da un odio mortale non sa decidersi tra accusa e perdono. Si trova nel libro secondo dell’epilogo:

“Ti ho amato perché hai un cuore generoso!” sfuggì detto a Katja. “E non hai bisogno del mio perdono Né io del tuo; che mi perdoni o no, rimarrai lo stesso per tutta la vita nel mio cuore come una ferita, e io nel tuo… così dev’essere…” si fermò a riprendere fiato.
“Perché sono venuta?” cominciò lei di nuovo, frettolosamente. “Per abbracciarti i piedi e stringerti le mani fino a farti male. Ti ricordi come ti stringevo, a Mosca? per dire ancora che sei il mio dio, la mia gioia, per dirti che ti amo alla follia” parve gemere lei nel tormento e tutt’a un tratto si strinse avidamente con le labbra alla sua mano. Lacrime scendevano dagli occhi.

Esclamativi, avverbi, il verbo dire declinato nel tempo e nel modo, oppure sostituito da un gemito. Ma che forza nel descrivere. Non so voi, ma io rileggendolo ho rivisto Katja e Mitja davanti a me.

Le regole sono niente davanti al sommo talento

Barbara Businaro

Apr 20, 2020 at 2:34 PM Reply

Le regole sono niente no, di fronte ad uno come Dostoevskij. Infatti non mi sarei mai azzardata a scomodarlo! 😀
Ho scelto un dialogo contemporaneo proprio per non sentire il peso di un classico e la differenza delle epoche, per quanto in Outlander la questione temporale giochi già brutti scherzi, con due diversi stili: la schiettezza di Claire, donna emancipata degli anni ’60, e le tradizioni dell’800 di Jamie, seppure uomo di ampie vedute.

Brunilde

Apr 19, 2020 at 11:46 AM Reply

Sono andata a riaprire ” Quella sera dorata” di Peter Cameron edizione Adelphi. Sfogliando a caso, e a ritroso come spesso mi capita: a pag. 133 in un dialogo ripete 6 volte disse e usa una volta rispose. A pag 130 , tutta dialogo, usa 6 volte disse e nessun sinonimo. A pag. 131 usa 6 volte disse e 2 volte chiese. Ho sfogliato ancora, è così per tutto il testo. Eppure, il libro , letto anni fa, mi piacque molto, quindi funziona anche se il meccanismo del dialogo è un po’ piatto: disse disse disse …
Può essere una lezione: inutile arrabattarsi, disse può andare benissimo.

Sempre a caso, apro La versione di Fenoglio, di Carofiglio pag. 165: Giulio regala a Fenoglio un libro scritto da sua nonna.
– Le ho portato questo- disse Giulio…

-Io , ecco…- stava per scusarsi perchè lui non aveva niente con cui ricambiare.

– E’ la nonna? –
– Sì – annuì Giulio sorridendo – Ho pensato fosse il modo migliore per ringraziarla.
-Ringraziarmi? –
– Per le storie che mi ha raccontato. Per le cose che mi ha detto…che mi ha insegnato.-
Rilfettè qualche secondo in cerca delle parole esatte – Per quello che mi ha fatto intravedere. Non lo dimenticherò.
Fenoglio gli restituì un sorriso tirato…
– Parti adesso ? – Chiese

Ma dato che l’appetito vien mangiando, sono andata a cercare un dialogo nel passato, e non in traduzione: I vicerè, di De Roberto. Fine ‘800.
Il bambino Consalvo viene sorpreso a frugare fra le cose della zia Lucrezia, pag. 117 edizione Garzanti.
<> Gridò, e slanciarsi sul nipote e allungargli un ceffone fu tutt’uno.

Accorse Vanna, la cameriera, agli urli disperati, ma aveva appena cominciato:
<> che apparve il principe.
<>
<>
Egli sollevò Consalvo da terra, lo prese per mano e disse, guardandola bene in viso:
<>

Stili diversi, ma in entrambi i casi si evita o si limita il disse, ma si rende comunque ben riconducibile il dialogo ai singoli personaggi.

Scusate l’invasione, mi sono presa molto spazio, ma è sempre una gioia riprendere in mano libri già letti, e trovo utilissimo questo esercizio di ricerca e riesame dei dialoghi: grazie, Barbara!

Barbara Businaro

Apr 20, 2020 at 2:34 PM Reply

Brunilde grazie per questa ricerca, puoi prenderti tutto lo spazio che vuoi! 🙂
Possiamo confermare dunque che ci sono ottimi romanzi pieni di “disse” e altrettanto ottimi romanzi che ne fanno a meno. Alla fine, è la storia la padrona del lettore, no?

Sandra

Apr 19, 2020 at 12:29 PM Reply

«Papone, l’altra sera da zia non era proprio il posto giusto per litigare, siamo stati bene ma da qui a volersi rimettere insieme ce ne passa.»
Cerco di farlo ragionare mentre mi gusto una mousse al cioccolato che parla da sola, con tanti frutti di bosco succosi intorno.
«Vorrei provarci.»
Non molla.
«Papà, sta con Aldo, forse ti è sfuggito il particolare.»
«Le farò una corte implacabile.»
«Va bene, però ti prego, niente appostamenti o robe strampalate. Ecco, magari stavolta rimani sul classico: fiori cose così.»
«Promesso. Dai, facciamo due passi, è una serata bellissima.»
Come no? Proprio una bellissima serata.

Et voilà, un dialogo senza manco un disse. In realtà se il dialogo è ben strutturato non occorre neppure dover sotituire il disse con verbi che talvolta appaiono un po’ artificiosi. Il vero fucus del dialogo è non perdere mai la nozione di chi stia parlando, se si è solo in 2 è più facile. Ecco non bisogna mai dover tornare indietro a contare, con certi dialoghi capita, se ha iniziato X poi Y, poi ancora X e adesso chi sta parlando? A questo occorre stare attenti,

Barbara Businaro

Apr 20, 2020 at 2:35 PM Reply

Vero che quando il dialogo è tra due soli personaggi, sembrerebbe semplice. Eppure in romanzi anche ben classificati mi capita di incappare nel dubbio di chi sia l’ultima battuta letta. In genere capita quando le parole di quella precisa riga non sono specifiche di un personaggio, né per lo stile né per il contenuto. E quindi davvero ti chiedi: ma chi sta parlando adesso? O torni indietro, o vai avanti. Però quando l’ho compreso, devo comunque rileggere il paragrafo prima di proseguire del tutto.

Darius Tred

Apr 19, 2020 at 3:55 PM Reply

Non partecipo al gioco (non sono proprio nel periodo giusto…) ma, se posso dire una cosa, direi questa: le 10 regole della Gabaldon (cioè: di una scrittrice vera, che scrive veramente…) valgono molto più di qualsiasi altra guida.

In particolare mi piace la regola numero 4 che, da sola, sembrerebbe quasi spernacchiare i 144 modi sopra citati…

Ora: io non sono certo uno scrittore, ma se dovessi mettermi in testa di diventarlo, seguirei più i 10 consigli di chi scrive, senza perdere tempo con altro.

Barbara Businaro

Apr 20, 2020 at 2:37 PM Reply

Del resto anche Stephen King nel suo On Writing. Autobiografia di un mestiere ha scritto:

“Uno dei servizi peggiori che potete fare alla vostra scrittura è pompare il vocabolario, cercare paroloni perché magari vi vergognate un po’ della semplicità del vostro parlare corrente. È come mettere il vestito da sera al cagnolino di casa. Il cane sarà imbarazzato e la persona che si è resa colpevole di questo atto di premeditata affettazione dovrebbe esserlo ancora di più. […]
La regola fondamentale del vocabolario è: usate la prima parola che vi viene in mente, se è appropriata e colorita. Se esitate e vi mettete a riflettere, vi verrà in mente un’altra parola, è ovvio, perché c’è sempre un’altra parola, ma probabilmente non sarà buona come la prima o altrettanto significativa.”

Dunque cercare ossessivamente un sinonimo per “disse” potrebbe essere peggio che lasciarlo lì, se “disse” è davvero la prima parola che abbiamo scritto. Pure lui è in linea con le regole di zia Diana. 😉

Marina

Apr 19, 2020 at 4:29 PM Reply

Non sono contraria a priori all’uso del verbo “dire”, Carver, per esempio, ne è il maestro: ripete spesso “dice lui” “dice lei” come per scandire un ritmo preciso che infatti, ha un’efficace resa, quando si leggono i suoi racconti. Io sono più per ridurre i verbi di accompagnamento durante i dialoghi; preferisco la battuta seguita da un’altra che, da sole, abbiano la capacità di essere eloquenti. Oppure un intermezzo che spieghi l’azione.
Sto leggendo un libro dove i dialoghi sono molto funzionali. Si chiama “La vita moltiplicata” di Simone Ghelli:

“Poi mia moglie dice che non devo bestemmiare, Ascarelli. Devo proprio amarla parecchio, non credi?”
Ascanio s’inginocchiò per aiutarlo: “A volte serve a sfogarsi, altrimenti la calma come si ritrova? Siamo esseri umani mica macchine.”
“Dici? A me sembra il contrario. A che ci serviranno tutte queste lettere, Ascarelli? Guarda qua,” gli disse, avvicinandogli al viso un mazzetto di buste “tutta pubblicità, estratti conto, bollette da pagare, ormai nessuno che scriva una lettera che sia tale. Non abbiamo più niente da dirci, ci basta la televisione o quel diavolo di coso… Come si chiama? L’internet, ecco!”
Ascanio lo guardò attraverso la visiera, in un modo diverso dal suo solito, così intensamente che l’altro si ritrasse per istinto.
“Oh, ma che c’hai da fissarmi così?”
“Mah, pensavo che anch’io non ho mica da scrivere a nessuno.”
“Ma tu sei il postino, Ascarelli, che c’entra? Il tuo compito è di portarle, le lettere, mica di scriverle.”
“È come dire che il fornaio non dovrebbe mangiare il pane…”

C’è un “disse”, ma secondo me ci sta e comunque la descrizione delle azioni, durante la conversazione, aiuta a visualizzare la scena.

(Il decalogo è da memorizzare bene.)

Barbara Businaro

Apr 20, 2020 at 2:38 PM Reply

Beh, funziona si Marina questo dialogo. Mi ci sono immersa e ne sono uscita con un “Accidenti, nemmeno io le scrivo più le lettere, quelle di carta, intendo. Purtroppo anch’io sono su quel coso, l’internet…”
Se c’era un disse, non me ne sono accorta. 😀

Grazia Gironella

Apr 19, 2020 at 8:57 PM Reply

Indovina se ho badato ai vari modi di “dire” o mi sono letta il brano? Va bè, va bè, facciamo finta di niente. I dialoghi di Outlander sono ottimi, e così le regole di zia Diana. In particolare apprezzo che non ci si arrovelli sul problema al punto da arrivare a scelte artificiose. Ogni tanto leggo dei verbi, in sostituzione del verbo dire, che mi fanno drizzare i capelli in testa, soprattutto da parte di neoscrittori.

Barbara Businaro

Apr 20, 2020 at 2:39 PM Reply

Ti sei letta il brano, ovvio. Per me e per te penso che l’analisi di un testo di Outlander sia parecchio difficile. 😉
Tra l’altro, questo dialogo mi pare sia stato tolto dalla sceneggiatura. Mi risulta che nella serie televisiva, Jamie Fraser sia entrato nella stalla proprio nel momento esatto in cui Phillip Wylie ha dato della donna di facili costumi a sua moglie Claire. Il resto si è scritto praticamente da solo, davvero poca fatica per gli sceneggiatori… 😀

Daniele Imperi

Apr 20, 2020 at 9:39 AM Reply

Scopro adesso che Mozzi ha scritto un post in risposta al mio articolo, anche se non ho capito se voleva essere sarcastico o meno.
Leggo però dai vari commenti che il mio articolo è stato frainteso. La mia non è una guida, né voglio spingere chi scrive a usare sinonimi.
Il dialogo se ben scritto forse dà l’idea del tono di voce. E sottolineo forse. Inoltre in un dialogo come quello, in cui i personaggi litigano e discutono animatamente, non è difficile far capire il tono delle voci.

«Cosa stavi facendo, in nome di Dio?» sbottò.
Dove sta scritto che con questa domanda uno stia sbottando? Magari invece no.

PS: hanno davvero usato la parola “pomiciare” nella traduzione? Quella parte ambientata nel 1700, mentre il verbo pomiciare è del 1950.
L’inglese “canoodle” è di un secolo prima, del 1859. Non prenderei come esempio Diana Gabaldon, che mette in bocca a personaggi del ‘700 parole anacronistiche.

Barbara Businaro

Apr 20, 2020 at 2:44 PM Reply

In effetti mi è parso strano che tu non avessi proprio commentato l’articolo di Giulio Mozzi. Non hai un alert impostato per le menzioni in rete? Google Alerts, Mention o Talk Walker? Conosco la tua avversione per i social, ma rischi di perderti qualche buona occasione. 🙂
Personalmente trovo che comunque il tuo articolo abbia utilità per chi è agli inizi, ancora fatica a mettere insieme un dialogo e non ha mai provato ad analizzarne qualcuno tratto dei propri autori preferiti. Poi ognuno trova la propria strada da sé.

Sul dialogo di Diana Gabaldon e il verbo “pomiciare” quale traduzione di “canoodle”.
L’uso del termine “canoodle” quale “to engage in amorous embracing, caressing, and kissing” risale al 1859 per quanto riguarda il primo uso nella stampa, e per quello che si può risalire in una banale ricerca in rete. Mentre l’autrice, quale professore universitario emerito, ha accesso a ben altri archivi oltre che consulenze professionali per le sue ricerche. Di errori ne ha fatti comunque nel primo libro (The fiery cross è il quinto), come lo zucchero nel tè prima che fosse disponibile dopo la seconda guerra mondiale, errore che l’editore non ha nemmeno voluto correggere. Del resto, ci sono ben più rinominati romanzi che contengono errori madornali, compresi i peperoni de Il nome della rosa di Umberto Eco (ne trovi altri qui: Quando si definisce “romanzo storico”?)
Sulla traduzione, “canoodle” poteva essere tradotto con “sbaciucchiare”, ma non avrebbe reso comunque l’idea visto che poco dopo l’uomo usa “make love to” per il suo tempo, ovvero con il significato di sola “fornication” e “sbaciucchiare” sembra nel contesto alquanto riduttivo. Dall’altra parte, “pomiciare” deriva dalla pietra pomice, che deve essere appunto sfregata per lisciare o levigare un’altra superficie. Nel 1836 nel Manuale di conversazione di una tipografia veneziana riscontriamo l’uso della pomice per la pulizia delle armi, ergo un cavaliere conosceva oggetto e nome. Il termine parrebbe risalire alla prima metà del XIV secolo. Non ho maniera di verificare se “pomiciare” (che esisteva già prima come “utilizzo della pietra pomice”) fosse conosciuto anche come vezzeggiativo di tecnica amorosa.

A te Daniele piace leggere Howard Phillips Lovecraft, giusto? Eppure Stephen King di lui in On Writing. Autobiografia di un mestiere ha proprio scritto:

“H.P. Lovecraft era geniale quando si trattava di raccontare il macabro, ma come scrittore di dialoghi era uno strazio. Doveva saperlo, perché dei milioni di parole che scrisse, meno di cinquemila sono quelle dedicate al dialogo. […] Lovecraft era indiscutibilmente uno snob affetto da timidezza patologica […] quel tipo di scrittore che mantiene una corrispondenza voluminosa ma ha difficoltà a stabilire rapporti personali diretti con il prossimo; fosse vivo oggi, è probabile che la sua presenza sarebbe più vibrante soprattutto nelle varie chat-room di Internet. Scrivere bene i dialoghi è un’abilità che acquisiscono le persone più inclini a parlare e ascoltare gli altri, in particolare ascoltare, cogliendo accenti, ritmi, dialetto e slang. I lupi solitari come Lovecraft sono spesso carenti in questo settore, lo riproducono male o con la cura con cui si scriverebbe in una lingua che non fosse la propria lingua madre.”

Eppure tu Daniele leggi Lovecraft, comunque. Il senso finale non potrebbe essere “chi se ne frega di come sono scritti i dialoghi, l’importante è che vadano bene al lettore”? 🙂

Daniele Imperi

Apr 20, 2020 at 3:22 PM Reply

Sì, uso Google Alert, ma non m’è arrivata nessuna notifica.
Pomiciare presente in antichità mi pare alquanto strano.

Ho letto Lovecraft anni fa, metà anni ’90. Ma non capisco il nesso. Non ricordo ora come fossero i suoi dialoghi, ricordo che non erano molti però, ma la cosa non mi crea problemi. Neanche io amo i dialoghi, come non amo parlare, in genere 🙂

Ha ragione King sul fatto che per scriverli bene bisogna prima averli sentiti, aver sentito come parlano le persone reali, che poi è l’estensione del suo stesso pensiero sul leggere tanto per scrivere bene.

Marco

Apr 20, 2020 at 9:50 AM Reply

Se non ricordo male, Nabokov diceva che Tolstoj per introdurre il parlato dei personaggi usasse solo “Disse”. Sono stati poi i traduttori a rendere più movimentate le sue opere 😉

Barbara Businaro

Apr 20, 2020 at 2:44 PM Reply

Acc, peccato che non so leggere il russo! Però penso che questa ricerca potresti farla tu, in un prossimo post.
Lo so che tieni una copia di Guerra e pace sotto il cuscino, ammettilo! 😀 😀 😀

Maria Teresa Steri

Apr 22, 2020 at 1:05 PM Reply

Immagino che il mio commento precedente non ti sia arrivato… vabbè.
Allora, dicevo che quest’analisi mi è piaciuta molto! Intanto è di per sé interessante vedere come un autore ha gestito la questione delle attribuzioni, poi sottolineerei che molti autori “navigati” non si fanno troppe paranoie per i “disse”, come magari capita quando si inizia a scrivere. Molto illuminante è anche l’elenco finale che hai riportato, ci sono delle vere chicche.
Tra i libri letti (riletti) da poco c’è L’anno del contagio di cui ho parlato anche su un post, e lì Connie Willis è molto brava secondo me a gestire i dialoghi (ma anche negli altri suoi libri), che appaiono spontanei e vivaci. Mi piacerebbe fare la tua stessa analisi anche con lei…
Comunque, sui dialoghi c’è sempre tantissimo da imparare!

Barbara Businaro

Apr 22, 2020 at 8:26 PM Reply

In effetti no, non ho nessun commento precedente, nemmeno in spam, ho controllato. Caduta connessione o caduto webnauta (possibile, c’è un picco di accessi in corso nel periodo)?! 🙂
Non trovo L’anno del contagio disponibile in ebook, quindi non posso andare a spulciare l’estratto per reperire qualche dialogo. Aspetto allora il tuo post. Che sì, sui dialoghi non si finisce mai di imparare. 😉

Maria Teresa Steri

Apr 23, 2020 at 2:31 PM Reply

No, infatti non c’è ebook, io ho un vecchissimo cartaceo. Per fare un post dovrei scansionarlo, magari vedo di farlo più in là. Oppure scelgo un altro autore ^_^

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