La felicità del cappotto rubato. Un racconto di Natale

La felicità del cappotto rubato

“Nonostante tutto, anche quest’anno è Natale. Mi manca lei. A quest’ora la casa sarebbe già tutta addobbata a festa…”
Beatrice parla da sola, guardando fuori dalla finestra della cucina, mentre attende le sue fette a scaldare nel tostapane. Sorseggia il suo primo caffè della mattina, mentre pensieri sparsi si aggrovigliano nella sua testolina ancora arruffata dal sonno. Un tempo le sue parole erano rivolte alla madre, la signora Margherita, l’anima allegra e vivace di questa dimora. Ma ci ha lasciato soli da più di un anno, poco prima delle festività, per una malattia a lungo nascosta anche allo sguardo attento dei medici. Da allora Beatrice è triste, la sua voce un po’ spenta, anche quando è arrabbiata. Le sue emozioni sono diventate opache, come lo specchio qui in ingresso, nessuno lo lucida più.
Ricordo molto bene com’era il salotto nei giorni che precedevano la vigilia. Il caminetto acceso e profumato, perché la signora Margherita oltre ai ceppi buttava nella fiamma anche chiodi di garofano e scorza d’arancia, mi inebriavo a quel profumo. Luci scintillanti e candele accese in ogni angolo del pianoterra, intrecci di vischio e di rami di pino, con palline e nastri rosso acceso. L’albero di Natale troneggiava su tutta la stanza, una poltrona veniva spostata in garage per farvi spazio. Il forno in cucina lavorava a pieno ritmo tutti i giorni, sfornando biscotti alla cannella, omini di pan di zenzero, ciambelline glassate da distribuire agli amici giunti per un saluto e un abbraccio. Pure il signor Antonio tornava prima dal lavoro in officina per preparare i suoi mirabolanti arrosti, ed era un piacere osservarli muoversi tra il tavolo e i fornelli, un’orchestra affiatata, una sinfonia perfetta.
Il tostapane ci risveglia con il suo campanello e solleva le fette abbrustolite. Beatrice le afferra, le spalma di marmellata e comincia a mangiare. Al piano di sopra, un lento ciabattare per il corridoio rivela che il signor Antonio è finalmente in piedi. Si alza ancora presto al mattino, anche se le sue giornate vengono poi consumate sul divano, sonnecchiando tra i cuscini ricamati o scorrendo canali televisivi pieni di inutilità. Quando la figlia non può vederlo, piange. Lo vedo prendere uno dei suoi vecchi fazzoletti di cotone della tasca dei pantaloni e tamponarsi gli occhi, senza il minimo rumore. Negli ultimi tempi spesso durante il giorno qualche vicino suona alla porta, per una visita, una chiacchiera, una passeggiata. Le feste natalizie sono il momento peggiore da attraversare, quando le assenze sono così importanti.
Beatrice continua a mormorare, mentre mastica lenta la sua colazione e legge le ultime notifiche sul suo cellulare.
“E Viviana? Che fine ha fatto la mia cara amica per la pelle, BFF, Best Friend Forever, Viviana? Sparita. Diversi messaggi con promesse di sentirsi, però ora non posso, scusa sono tanto occupata, ti chiamo presto, e poi il silenzio. Mentre sui social pubblica foto di viaggi, aperitivi esclusivi, party in piscina, tramonti sul mare, brindisi al chiar di luna con chissà chi, oramai ho perso il conto…”
Mi spiace sentirla così sola e amareggiata. Dal mio angolino ho osservato i suoi primi batticuori, qualche bacio rubato sull’uscio di casa prima di rientrare entro la mezzanotte, l’ultimo fidanzato che prometteva un futuro radioso, ma è caduto nel terribile periodo di ospedali e assistenze notturne, quando solo un vero amore può resistere a tali tempeste.
Si alza e raccoglie le briciole dal tavolo, piatto e tazzina finiscono nella lavastoviglie, mette altre due fette a scaldare nel tostapane per suo padre che scenderà a momenti. Scruta il cielo grigio dalla finestra, per decidere se portare l’ombrello o solo il berretto.
“La vita va così, siamo solo di passaggio. Tanto su questa Terra quanto nelle esistenze altrui.”
Mentre il signor Antonio scende le scale ancora in vestaglia, Beatrice raggiunge velocemente il bagno di servizio del piano terra, dove cambiarsi e truccarsi per la giornata al lavoro. Per non dimenticarsi nulla, prepara sempre tutto la sera precedente, prima di coricarsi. La televisione della cucina si accende in automatico sulle notizie principali, mentre il signor Antonio apre diversi stipetti della cucina, in cerca della sua tazza, delle sue bustine di tè, dei suoi biscotti. Quelli solo alla fine, quando la figlia è uscita e non viene ripreso per la sua dieta troppo ricca. Uno spiffero leggero da sotto il portoncino dell’ingresso mi avverte che oggi potrebbe persino nevicare.
Beatrice mi passa accanto, afferra il suo cappottino rosso ciliegia e lo indossa rimirandosi allo specchio. Le sta davvero molto bene, quel colore le dona. Torna poi in cucina, saluta il padre con un bacio alla tempia e toglie un’altra tazzina dallo scolapiatti. Prende sempre un secondo caffè ristretto poco prima di uscire, ma stavolta qualcosa va storto. Dopo averla posizionata sotto la macchina espresso e atteso l’erogazione, la tazzina ancora bagnata scivola dalle mani della ragazza, quel tanto da rovesciare il liquido scuro proprio lì, in bella vista sul bavero del cappotto. Un disastro, di prima mattina poi. Lancia un grido soffocato.
“E adesso?! Ma che cavolo!” Cerca di passare la spugnetta, bagnata di sola acqua, ma così la macchia si allarga.
“Lascia stare, fai peggio. Prendi il mio, quello nero sull’attaccapanni. Ti è un po’ grande, ma non se ne accorgerà nessuno.”
Sbuffando e imprecando a denti stretti contro la sua sfortuna, Beatrice lascia il cappottino rosso sulla sedia e torna in ingresso.
Vieni qui ragazza mia, oggi ti scalderò io il cuore finché attraverseremo la città. Mi ricordo ancora quando da bambina infilavi la tua manina piccina nelle mie tasche, quando papà ti accompagnava all’asilo. Mi facevi il solletico con le tue dita minuscole, ma profumavi di biscotti al burro e gioia pura. Adoravo quel contatto, anche quando ti abbracciavi stretta stretta a me, per chiedere di salire in braccio.
Mi chiamo Martini, almeno così c’è scritto sull’etichetta appiccicata al mio collo, anche se un po’ rovinata. Pura lana vergine, fodera in seta, bottoni di madreperla, un capolavoro di sartoria. Sono in questa casa da molti anni, mezzo secolo quasi, e dimenticato da troppo tempo.
Ma sono un classico. E i classici non invecchiano mai.

Finalmente una passeggiata in centro, non ricordo nemmeno più quando è stata l’ultima volta. Beatrice cammina svelta per la sua strada, con gli stivaletti dalla suola gommata non rischia di scivolare sulla brina rilucente. Con un salto entra nel tram fermo al capolinea, pronto alla partenza, e si siede nel primo posto libero accanto al finestrino, l’elegante borsa in pelle poggiata sulle ginocchia.
Quando il tram inizia la sua corsa, oltre il vetro scorgo una città che si risveglia piano, ma ricca di luci e di colori per il Natale imminente. I negozi scintillano di luminarie, alberi addobbati di diversa foggia riempiono i marciapiedi, il rosso il colore predominante lungo le vie. Venti minuti dopo ci ritroviamo quasi dall’altra parte del territorio urbano, in una zona di edifici direzionali moderni. Beatrice scende con la maggior parte dei viaggiatori alla fermata principale, vicino a una fontana svuotata dell’acqua per l’inverno ma illuminata per le feste.
Dopo pochi minuti a piedi, entriamo in un grosso complesso, alla base di una torre tutta in vetro e ci dirigiamo in fondo all’atrio, davanti alle porte degli ascensori. Una di queste si apre e Beatrice ci si infila dentro. Clicca i pulsanti per salire, le porte si richiudono ma una mano veloce le blocca nel mezzo, costringendole a riaprirsi. “Buongiorno Beatrice.” Un uomo alto le sorride sornione. Cappelli biondo rossicci, indossa un cappotto nero di buona fattura, bello quasi quanto me. “Buongiorno Leonardo” gli risponde Beatrice a denti stretti. Lui si affianca, ma lo sorprendo osservarla con la coda dell’occhio. Gli ascensori sono luoghi sempre forieri di imbarazzo, le persone sono costrette in poco spazio e non sanno mai dove dirigere lo sguardo, per non risultare indiscreti. In questo momento però avverto dell’elettricità nell’aria, per le mie fibre di lana è palpabile quanto la pioggia. Sento il cuore di Beatrice poi alquanto agitato.
Quando le porte si riaprono al piano richiesto, lei scappa fuori in un lampo. Pochi metri e viene raggiunta da una collega affannata.
“Beatrice, non sono riuscita ad avvisarti! Hanno cambiato le tempistiche della ristrutturazione dei locali… vogliono partire con l’ufficio tutto rinnovato col nuovo anno… eh beh, hanno cominciato anzitempo con l’ala ovest, ti hanno spostato la scrivania in un’altra stanza, in condivisione…”
Beatrice si blocca e si volta verso l’altra ragazza. “E dove mi hanno messo?”
“Con… con… Leonardo…” risponde l’altra con voce flebile.
“No! No, no, no. Non ci credo!” Stringe il pugno come se dovesse picchiare qualcuno.
“Mi spiace… troverai là la scrivania, il computer e tutte le tue cose. Mi spiace, davvero. Ma è per una settimana, al massimo due.”
Beatrice sospira. “Benissimo, me la caverò.” Mentre torna sui suoi passi, diretta dall’altra parte del piano, continua a mormorare a bassa voce. “Accidenti, proprio lui! Solo un anno che è qui e già me lo ritrovo alle calcagna! Finirà per prendersi la mia promozione a direttore operativo. Il Presidente stravede per lui, come quando gli ha offerto i sigari… perché io non fumo sigari, ma Leonardo sì. E parlano di calcio, di auto sportive, di vini pregiati e di donne. Sicuramente anche di donne. Non posso proprio competere. E non è che lui lo faccia apposta, anzi. Le attenzioni del Presidente sembrano pure dargli fastidio…”
Girato l’angolo, Beatrice si affaccia in un ambiente spazioso con la porta di vetro aperta. Tossisce per annunciarsi, mentre l’uomo dell’ascensore è seduto a una scrivania in fondo, chino su una cartella di documenti. Lui alza lo sguardo e sorride. “Beatrice, prego. Questo da oggi è il tuo ufficio, cercherò di non fare confusione. Se alzo troppo la voce al telefono, fammi un cenno, a volte non me ne accorgo.”
“Certo, grazie.” Beatrice poggia la borsa al suo tavolo e mi appende all’attaccapanni alla parete, vicino all’altro cappotto nero di Leonardo.
Si siede e comincia a controllare le mail di lavoro. Prova a concentrarsi sulle pratiche da sbrigare, immaginandosi alla vecchia postazione. Quando però Leonardo si alza per andare al fotocopiatore nel corridoio, passandole davanti con passo lento, lei rivolge una strana occhiata al fondoschiena di lui, senza staccargli gli occhi fin sulla porta. Quasi le scappa un sospiro. Poi scuote risoluta la testa.
Più tardi nella mattinata, mentre Beatrice è affaccendata a completare una relazione, battendo veloce le dita sulla tastiera, non con rabbia, ma semplicemente concentrata su ciò che sta scrivendo, sorprendo Leonardo intento a fissarla incantato. Non c’è odio in quello sguardo, e nemmeno rivalità, direi tutt’altro. La faccenda mi sembra alquanto interessante, dopotutto.
Per la pausa pranzo, Beatrice viene salvata dalla collega del mattino, che scopro chiamarsi Sabrina. Un piatto veloce al bar del piano terra. “Come sta andando?” le chiede la ragazza, preoccupata perché le voci di corridoio di un’azienda hanno sempre un fondo di verità.
“Bene direi, ognuno fa il suo. Comunque in questo periodo non abbiamo progetti in comune.”
Anche il pomeriggio trascorre tranquillo, sebbene ho perso il conto delle occhiate fugaci e curiose che entrambi rivolgono all’altro. Al tramonto, Beatrice mi afferra con forza dall’attaccapanni e annuncia risoluta un “Ci vediamo domani” verso il nuovo coinquilino.
Leonardo ribatte prontamente, non saprei dire se con ironia o con gioiosa attesa. “Mi troverai qui… Buona serata!”
Lei si blocca per un secondo, senza voltarsi, ma poi prosegue dritta verso l’ascensore.
Ho sentito il suo cuore perdere un paio di battiti. “Ma che cavolo voleva dire?!” borbotta mentre preme i tasti con la mano tremante.

Quando è giù di morale, e l’arrivo del Natale è un’occasione propizia per esserlo, Beatrice all’uscita dal lavoro, prima di rincasare se non ha altri impegni, passa a trovare la signora Gelsomina. Per gli amici, che sono tantissimi, semplicemente zia Mina, un riferimento per tutti nel nostro quartiere. Ho avuto il piacere di conoscerla anch’io, perché una volta il tempo sbarazzino di marzo l’aveva sorpresa solo con un golfino leggero in mezzo alla pioggia battente e il signor Antonio mi aveva prestato a zia Mina. Sono stato poi restituito ben lavato, spazzolato e profumato, come appena uscito dall’atelier dove mi hanno cucito.
Per Beatrice però zia Mina è molto di più, proprio come una zia vera e propria, dal momento che era una carissima amica della sua povera mamma. Quando il signor Antonio lavorava in officina ed usava quel giaccone pesante con la scritta sulla schiena, rimanevo a lungo appeso alla balaustra dell’ingresso e quasi tutte le mattine la signora Gelsomina passava per un tè, portando una borsina colorata piena di biscotti o una torta appena sfornata. Le due amiche approfittavano di essere sole, Beatrice se ne stava china sul banco di scuola, per parlare un po’. Ho ascoltato confessioni talmente intime da arrossire talvolta ed altre così tragiche da rimanere attonito per giorni. Soprattutto quando la signora Margherita raccontò a zia Mina della sua malattia, la prima a scoprire l’immensità della tragedia. Diventa sempre più difficile assistere alle brutture del mondo senza poter fare nulla. Mi è concesso solo di scaldare le persone, è qualcosa, ma spesso non è sufficiente.
Beatrice scende dal tram con passo stanco. La piccola casetta a schiera di zia Mina è appena una fermata di tram prima della nostra, ma la pesantezza della giornata si fa sentire sull’umore. Non fa in tempo a suonare il campanello fuori dal cancelletto che all’uscio compare già zia Mina, le apre con uno schiocco meccanico e l’attende all’ingresso, oltre il piccolo giardino, avvolta in uno scialle rosso carminio luccicante di stelle. Non le si riesce dare un’età, il sorriso stampato sul suo volto è talmente radioso da annullare ogni ipotesi.
“Sai, stato proprio per scriverti, perché ho proprio bisogno del tuo aiuto, cara.”
Beatrice la bacia sulla guancia. “Ce l’hai qualcosa di caldo e buono per me?”
“Sempre! Vieni avanti!”
Ci accoglie una stanza ricca di lucine fioche, di candele profumate, di fiocchetti e palline brillanti, di pino intrecciato. In fondo un maestoso albero tocca il soffitto con il puntale, e sotto una distesa di pacchetti di ogni forma, colore e dimensione. Sembra di entrare nella casetta di Babbo Natale in persona. Non che io ci sia mai stato, ma diciamo che è proprio così che me l’immagino.
Beatrice resta un momento in estasi alla vista del salottino così addobbato. Ricorda molto casa nostra, quando la povera signora Margherita era ancora viva e già ai primi di dicembre svuotava gli scatoloni di decorazioni natalizie rinchiusi in soffitta l’anno precedente.
Zia Mina la abbraccia lievemente, perché intende bene i pensieri della ragazza. Non vi è mai bisogno di usare le parole con zia Mina, sembra sempre leggere nei cuori degli altri. Un lungo allenamento il suo, iniziato molti anni or sono, quando un dolore enorme la colpì da giovane, in un solo istante perdere l’amore della sua vita e il suo unico figlioletto. L’unico modo di reagire a una sventura di tale portata è stato allargare il suo concetto di famiglia ed estenderlo a chiunque attraversasse la sua strada.
“Come sta tuo padre? Non lo vedo da un po’, né a passeggio al parco né al mercato del sabato…”
Beatrice poggia la testa sulla spalla della zia. “Depresso, più del solito.”
“Posso passare per una visita domattina? Posso usare la mia copia di chiavi, se riposa, e vi lascio qualcosa in frigorifero, che dici?”
“Come fosse casa tua, perché di fatto, lo è.” Beatrice mi appoggia allo schienale della poltrona e si accomoda, con un sospiro.
Dopo che il tè ai lamponi è stato servito con una fetta di crostata alle more, zia Mina afferra una scatola aperta e la porge a Beatrice.
“Ho bisogno di un favore, mia cara. Melissa è costretta a letto con l’influenza, febbre alta e tanta tosse. La devi sostituire questo fine settimana. Mi serve assolutamente un elfo, in gonnellino e calze a strisce…” Zia Mina sorride alla faccia terrorizzata di Beatrice.
“No, assolutamente no! Lo sai che sono negata per queste cose!”
“Ma non dire fesserie! Guarda là, sopra il camino. Ci sono le foto di tutte le tue recite di Natale a scuola. Ero in prima fila, e te la cavavi benissimo! Potresti ancora fare l’attrice di teatro, se tu volessi…”
La ragazza volta la testa verso le cornici in argento allineate sulla mensola, sorridendo.
“Detto ciò, il costume ti starà un po’ largo, Melissa è un po’ più alta e in carne, ma puoi metterci una cinturina nera, te l’ho messa qui dentro. Le calze sono elasticizzate e belle calde, non avrai problemi. E ci vediamo sabato mattina alla Piazzetta, abbiamo preparato lì una piccola scenografia, con la seggiolona grande per Babbo Natale, una slitta, un albero decorato, per fare le foto con i bimbi.”
Conosco quel posto, ci sono stato una volta, col signor Antonio in passeggiata con la moglie. Un piccolo centro commerciale dietro casa, fulcro del quartiere che non ha poi molto altro, ma ricordo una libreria e un negozio di giocattoli molto belli, anche una caffetteria che è il ritrovo per tutti i residenti. Un luogo molto vivo e accogliente, a dispetto del suo fine prettamente economico.
“E così adesso pure l’elfo mi tocca…” borbotta Beatrice, mentre stiamo rientrando a casa, reggendo la piccola scatola sotto il braccio.
Il trillo del cellulare la distoglie dalle sue elucubrazioni funeste. Una suoneria particolare, associata ad una persona, che non sente da molto, molto tempo. “Viviana, ciao… come stai?!”
Dall’altra parte giungono rumori di una città frenetica, di festa e musica, quasi si fatica a distinguere le parole.
“Beatrice! Non puoi immaginare! Dovevo dirtelo subito, ed è… è appena successo… Sai che ti ho parlato di Arthur, quest’estate, no? Abbiamo continuato a frequentarci, beh… un mese fa abbiamo iniziato a convivere… non te l’ho detto? Ma sì che te l’ho detto… No, dici? Oh, forse mi sono dimenticata, troppo lavoro… beh insomma, ci siamo fidanzati!!! Sììììì, tra un mese ci sposiamo!! Presto dici? Beh, c’è un’altra cosa… sì, potevamo aspettare in fondo, ma è così bello… e io sono troppo feliceeee!! Sono incintaaaa!!”
Beatrice scivola sul marciapiede, ma all’ultimo recupera l’equilibrio, lasciando cadere a terra la scatola.
Temo che questa sarà proprio faticosa da digerire per la ragazza. E sempre sotto Natale.

Dopo quella notizia straordinaria, la serata ha preso una piega alquanto strana, direi più che altro alcolica.
Giunti a casa sono tornato al mio posto, appeso all’ingresso, al fianco del cappottino rosso ancora macchiato. Beatrice e suo padre hanno cenato in rigoroso silenzio, ognuno perso nei propri pensieri, mentre nella televisione della cucina scorrevano diverse immagini di shopping natalizio, tradizioni folcloristiche, mercatini spruzzati di neve, zampognari e cori a cappella. Al termine hanno sparecchiato la tavola, sempre taciturni, e poi il signor Antonio si è ritirato in camera sua, al piano di sopra, per vedere i suoi programmi preferiti già coricato a letto. Si addormenterà con la televisione della sua stanza ancora accesa. Per fortuna gli hanno programmato lo spegnimento automatico dell’apparecchio a mezzanotte, così da non essere ridestato all’improvviso dagli spari di un vecchio film western.
Beatrice ha provato a rilassarsi sul divano, cercando di leggere quel suo romanzo, che non si muove da quella stessa pagina da mesi. Dopo dieci minuti ferma a fissare la stessa riga, è poi passata alle riviste di moda, anche qui senza ottenere alcun beneficio per il suo umore. Alla fine si è alzata per accendere la televisione del salotto su uno spettacolo musicale e prendere qualcosa da bere dalla cucina.
Tre bottiglie di birra vuote, due calici di vino rosso indefinito, una lattina di mojito d’emergenza e un bicchierino stracolmo di rum, hanno finalmente risollevato l’animo di Beatrice, che sta biascicando allegra parole sconclusionate, o così mi pare.
“E brindiamo a Viviana! Vi-vi-vi-anna! Ssssé! Presto sposata. E incinta. Figli maschi!” Un altro sorso di rum trangugiato.
“Amicche amicche, come no. Non c’era al funerale di mia madre, la stronza. Vivivianna, intendo. Non mia madre…” Beatrice sospira mentre fatica a tenere gli occhi aperti. “L’ultima volta che l’ho vissssta?! Questa estate… per ssssbaglio pure. La sapevo in ferie ai tropici e mi ci scontro in centro… Ssssé! Volevo avvisarti…” Qui Beatrice simula la vocina stridula di Viviana, suppongo. “Stronzaaaa! Ecco cosa sccei! Una gran bella stronzaaaa!”
Resto in ascolto, ma per cinque minuti sento solo silenzio. Credo si sia oramai assopita, quando torna a mugugnare qualcosa, ridestandosi dal torpore dell’alcol. “E poi Leonardo. Leooo-naaar-do. Asscidenti a lui!” Beatrice bofonchia e sospira. “Quel suo stramaledetto fondoschiena perfetto… i muscoli che sci intravvedono sotto la camiscia… e quel suo sorriso, oddio… l’ho visto quel suo sorriso, coscì simpatico… coscì sessy… muoio dentro ogni volta che mi sorride…”
Ecco che cos’era quell’elettricità nell’aria in ascensore! Altro che odiarsi! Le mie fibre di lana non mentono mai!
“Ma sciamo a Natale no? E sai che faccio? Scrivo a Babbo Natale! Avrò diritto anch’io ai miei desideri, o no?!”
Beatrice barcolla fino al piccolo scrittoio di mogano addossato alla parete, lo utilizzava sua madre quando sistemava i conti di casa e preparava i biglietti di auguri da spedire ai parenti lontani. Apre qualche cassetto e trova dei vecchi fogli di carta da lettere rosa. Poi sceglie una biro scura dal portapenne di ceramica.
“Allora… Caro Babbo Natale, ti ho chiesto poche cose in passato… e tu me le hai sempre portate… beh, era la mamma, forse… se davvero esisti, adesso ho bisogno di te… Vivivianna… a dispetto della mia rabbia… che vada tutto bbbene… papà… ti prego, sono molto preoccupata… non posso, davvero non posso… senza di lui… e il mio lavoro… Leoooonaardo… non posso continuare così… distrassione continua… se non posso averlo, toglimelo di torno…”
Beatrice si alza di nuovo, rimira il risultato fissato sul foglio, sbatte gli occhi per focalizzarlo meglio. Ripiega la lettera in quattro e viene verso di me. Me la infila in tasca e ci sbatte sopra le sue mani bollenti. “Domani la spedisco al Polo Nord, ssscì!” Mentre biascica quest’ultima frase, la sua carica alcolica investe il mio colletto e quasi mi ubriaco anch’io. Mentre si muove lenta verso le scale, decisa ad abbandonarsi nel suo letto tra le braccia di Morfeo, incespica un paio di volte e quasi temo il peggio.
Alla fine si attacca alla balaustra e comincia a salire. La sento ancora borbottare. “Asscidenti a lui…”

L’indomani il risveglio è alquanto brusco pure per il sottoscritto. La prima sveglia sul comodino di Beatrice, con un suono bello squillante, una musichina da marcia trionfale, non ha sortito alcun effetto. Al terzo giro, perché dopo circa otto minuti ricomincia daccapo, dal piano di sopra si distinguono diversi tonfi sul pavimento, probabilmente un paio di parolacce, dei piedi pesanti che fuggono in corridoio e infine la porta del bagno sbatte. Il signor Antonio è il primo a scendere, ancora in vestaglia, e comincia a preparare la colazione per la figlia.
Beatrice compare ansimante subito dopo, i vestiti addosso scomposti, come la camicetta fuori dai pantaloni scuri, ma soprattutto con due macchie violacee sotto gli occhi terrorizzati. Era meglio se esagerava col makeup stamattina.
“Sono in ritardo ritardissimo!” Prende le fette di pane dal tostapane anche se non ha finito la cottura, le mangia senza marmellata e rinuncia al secondo caffè prima di uscire. “Spero che questo cerchio alla testa se ne vada presto… altrimenti oggi sarà impossibile lavorare.”
Compare all’ingresso con la sua borsa in pelle e si ferma di fronte all’attaccapanni.
“Accidenti, devo ricordarmi di portare l’altro cappotto in tintoria. Va beh, si va col nero anche stamattina, mi sta pure bene addosso.”
Usciamo in un’altra mattina ghiacciata, ma con un sole all’orizzonte che promette bene. Beatrice corre verso il capolinea per non perdere altro tempo. Il tram è alquanto vuoto, sia perché l’orario è ben più tardo del normale ma anche perché le scuole oggi sono chiuse e molti lavoratori già in ferie per il Natale. Mentre ci muoviamo verso il centro della città, Beatrice infila le mani in tasca, per scaldarsele avendo dimenticato i guanti sopra la mensola all’ingresso di casa. Trova così la letterina ripiegata, la missiva per Babbo Natale scritta ieri sera, al culmine dei festeggiamenti alcolici.
“Allora non era un sogno…” La legge velocemente, arrossendo ad ogni riga, e io con lei, perché c’è molto di più delle parole biascicate.
Giunti alla nostra fermata, la infila di nuovo nella mia tasca per muoversi lesta all’uscita del tram. “Questo mal di testa è feroce stamattina… sta aumentando invece di andarsene.” All’interno dell’ascensore osserva il suo viso smunto allo specchio e si massaggia la tempia destra ad occhi chiusi. Sento il suo cuore affannato per il mancato riposo.
Quando Leonardo vede entrare Beatrice con passo lento nel loro ufficio condiviso, il suo sorriso si smorza all’istante, lasciando spazio alla preoccupazione. “Stai bene? Non hai una bella cera.” Si alza per venirle incontro, visto che Beatrice barcolla fino alla scrivania.
“Una nottataccia. Il cervello potrebbe esplodermi oggi…” gli risponde lei, lasciandosi prendere il sottoscritto che viene appeso da Leonardo all’attaccapanni lì dietro, vicino al suo cappotto scuro. Beatrice si lascia andare sulla poltroncina girevole alla sua postazione.
“Vuoi una pastiglia? Me le porto sempre appresso, con l’inverno soffro di più di cefalee. Aspetta.” Leonardo torna al proprio tavolo, solleva la ventiquattrore poggiata a terra e cerca nei vari scomparti, finché non trova una scatolina di farmaci. “Ecco, tieni.”
Beatrice lo ringrazia e ne prende una, mandandola giù con un sorso della bottiglietta d’acqua lì accanto al suo schermo.
“Mi ci vorrebbe anche un altro caffè, bello caldo…” La ragazza poggia i gomiti al tavolo e trattiene la testa tra le mani.
Dietro di loro, compare Sabrina alla porta dell’ufficio. “Scusate, c’è il signor Klauffman che chiede di Beatrice. Avevate appuntamento?”
“Oh cavolo! Me n’ero proprio scordata!” Beatrice fa per alzarsi, ma Leonardo la trattiene per la spalla.
“Se non è importante, posso occuparmene io…” Il sorriso di lui è genuino di apprensione.
“Sono solo gli auguri di Natale, con il panettone aziendale da consegnargli. Che stiamo procedendo, va tutto bene, e solito bla bla bla.”
“Ok, allora ce la posso fare.” Leonardo ride divertito. “Magari lascio stare il bla bla bla… gli dico che non stavi bene e basta. Ti faccio anche portare un caffè da Alfredo, il barista della caffetteria qui sotto. Ci penso io.”
Mentre lui esce dall’ufficio con questa nuova missione, penso che è giunto il mio momento. Dopo quello che ho sentito ieri sera e poi letto questa mattina in quel foglio rosa nella mia tasca, devo fare assolutamente qualcosa.
Con un impercettibile colpo di spalla, mi butto per terra, il più possibile verso la mia destra. Come previsto, la signorina Sabrina si gira per riprendermi, temendo di essere stata lei a farmi cadere, e mi riappende, da un’altra parte però. Il gioco è fatto.
Basta così poco alle volte, giusto scambiare di posto due oggetti che si assomigliano. Voi siete sempre così incredibilmente distratti. Così qualche ora dopo, quando è ora di tornare a casa propria, sono diverse le mani che mi afferrano, più grandi, calde e sicure.
Leonardo mi strattona un poco, pensando che probabilmente il suo cappotto si è ristretto. Quando usciamo dalle pesanti porte a vetri dell’edificio penso che sto cominciando una nuova avventura, nemmeno fossi il cappotto di James Bond.
Spero solo di poter vedere il lieto fine di questa storia, prima che saltino le cuciture delle mie spalle.

Questo non me l’aspettavo proprio. Di finire con Leonardo davanti alla casetta di zia Mina proprio no.
Fuori dall’ufficio abbiamo raggiunto un parcheggio interrato e lì recuperato la sua auto, una bella Audi sportiva color notte. Devo ammettere che mi sono goduto la corsa con l’automobile per il centro, da molto tempo non provato più quell’ebbrezza, un sorso di gioventù. Non mi sono reso conto del tragitto e della nostra direzione, finché non ci siamo fermati davanti al cancello di zia Mina.
“Eccoti qua, che piacere vederti!” Lei lo saluta con la consueta affettuosità e un abbraccio, anche se Leonardo è molto alto e deve abbassarsi per darle un bacio sulla guancia. “Vieni, ti ho preparato un caffè, nero e bollente come piace a te.”
Entriamo nello stesso salottino dove sono stato in visita giusto ieri. Vengo appoggiato alla medesima poltrona, mentre Leonardo si accomoda sul divano centrale, dando uno sguardo alla stanza. “Avevo dimenticato tutte queste belle decorazioni natalizie.”
“Allora, come stai? Come va la nuova società di tuo fratello?” Zia Mina intanto porta un vassoio dalla cucina, con le tazzine fumanti e dei piattini carichi di biscotti al burro.
“Va tutto abbastanza bene, ma è alquanto indaffarato. Ecco perché quest’anno mi occupo io del Babbo Natale.”
“Certo, tuo fratello maggiore è molto più vecchio e più grosso di te, perfetto in quella parte. Non doveva nemmeno mettersi il cuscino al posto della pancia. Tu invece non li convincerai mica tanto i bambini, con quel tuo faccino ancora così giovane e angelico!”
Leonardo ride di gusto, rovesciando la testa all’indietro. “Non preoccuparti zia Mina. Ho una maschera prostetica per il viso, preparata da mio zio Ermanno, che lavora come truccatore professionista per il cinema. Me la sono fatta spedire da Los Angeles, quando mio fratello mi ha spiegato di questo incarico straordinario. L’ho già provata e ho suonato al campanello della mia vicina di casa, fingendomi uno di quei venditori porta a porta. Non mi ha proprio riconosciuto.”
“Che malandrino sei!” zia Mina gli porge la tazzina e mette la zuccheriera sul tavolino di fronte a loro. “Te ne sono davvero grata, sai. So che anche tu sei molto impegnato, ma non sono riuscita a trovare nessuno disponibile. Quelli che hanno bambini saranno lì in fila con i loro piccoli, e gli altri hanno magari un’attività aperta per tutto il fine settimana.”
“Non preoccuparti, penso sarà piuttosto divertente, per una volta essere dall’altra parte.” Leonardo sorseggia il suo caffè lentamente. “E chi sarà il mio elfo quest’anno? Mi hanno detto che Melissa è ammalata già da una settimana.”
“Una sorpresa, ragazzo mio, una sorpresa. Anche a Babbo Natale piacciono le sorprese, no?!”
“Così amabile e così pericolosa, zia!”
“Sono certa mi ringrazierai…” Zia Mina non riesce a nascondere un sorriso compiaciuto. “Comunque ti ho preparato il costume, è lì nello scatolone in ingresso. Ci vediamo domani mattina alla Piazzetta, d’accordo?”
In quel momento, beatamente adagiato sulla poltrona, mi ridesto all’improvviso e realizzo che io quell’elfo lo conosco già. E forse che zia Mina ha uno sguardo sul futuro molto più lungo del mio, perdinci!
Dopo altre chiacchiere su parenti e amici, Leonardo recupera lo scatolone e saluta zia Mina con un altro bacio sulla guancia. Dopo che siamo usciti dalla casetta a schiera, continua a tirare le maniche e scuotere le spalle.
“Perché diavolo questo cappotto mi è diventato così stretto?! Sto mangiando troppi dolci in questo periodo, troppo stress, troppi pensieri. Ma non ci penso proprio alla dieta sotto Natale, naaaaaa.”
Dimenticando di aver infilato le chiavi dell’auto nella tasca destra dei pantaloni, Leonardo infila le mani nelle mie tasche, trovando così la letterina rosa scritta da Beatrice. Oh oh, finalmente ci siamo!
Gira e rigira il foglio aperto, ma riconosce subito la calligrafia, come pure la firma in calce. “Ma questa è di Beatrice…”
Allora capisce che io non sono il suo cappotto, mi osserva meglio, soprattutto le maniche, non ha mai avuto dei bottoni in madreperla.
“Ecco perché…” Dopo lo stupore e l’ilarità per il caso fortuito, Leonardo torna alla letterina. Stavolta la legge per bene, riga per riga, lasciandosi scappare un sospiro. “Beh, questa sì che è una sorpresa.”
Il suo cuore forte, qui sotto, comincia a ruzzolare veloce dall’agitazione. Richiude il foglio e lo ripone di nuovo nella mia tasca.
“Vedremo cosa potrà fare Babbo Natale per questa richiesta…”

Se non avessi visto quella maschera in una scatola trasparente e non avessi assistito alla sua trasformazione, davvero non crederei che sotto quel costume rosso c’è Leonardo. Ha cominciato ieri sera leggendo sul suo computer storie e leggende sulla vita di Babbo Natale, i nomi delle renne che trainano la slitta, la fabbrica di giocattoli al Polo Nord e nel frattempo studiando un’impostazione più profonda per la sua voce. Poi stamattina si è vestito di tutto punto, iniziando dal trucco intorno alla protesi in silicone applicata al suo viso, per finire con i grossi stivali neri lucidi e brillanti come specchi. Meraviglioso, devo proprio dirlo.
“I bambini sono i clienti più difficili in assoluto. Sarà una bella sfida…” mormora mentre usciamo dal suo appartamento, un ambiente molto maschile, si nota la mancanza di una donna per quelle stanze, ma comunque più allegro e luminoso, addobbato per le feste, di casa nostra.
Mi porta sotto braccio, perché con la giubba rossa del costume, aumentata da un voluminoso cuscino sulla pancia, non potrebbe indossarmi. Credo abbia in mente di passare a restituirmi a Beatrice, nel pomeriggio. Però zia Mina ha orchestrato ben altri programmi per lui.
Quando arriviamo al centro commerciale, nello spazio antistante la libreria e il negozio di giocattoli è stato allestito una sorta di villaggio di Babbo Natale, con una grossa poltrona dorata al centro, sotto un maestoso albero illuminato, tutto intorno pacchi e pacchetti colorati, scatole vuote in realtà che i bambini si divertono a spostare senza alcuno sforzo, nonostante la dimensione.
“Babbo Natale! Babbo Natale!” gridano tutti in coro, qualcuno trascinando i genitori lontano dalle vetrine.
“Ma dov’è la slitta Babbo Natale?”
Con una voce profonda, Leonardo prontamente risponde: “E’ fuori sul tetto, è troppo grande per passare per le porte!”
“E le renne? Dove hai lasciato le renne?”
“Stanno riposando tra le nuvole, perché questa notte dovranno correre molto, ma molto veloci…”
Zia Mina si avvicina e saluta Leonardo con un abbraccio. “Benvenuto Babbo Natale. Sei proprio bellissimo quest’anno! Sono incantata!” Gli strizza l’occhiolino con complicità. “Vieni, ti presento il tuo aiutante per oggi, il nostro nuovo elfo Beatrice.”
Prima ancora che lei si giri verso di noi, Leonardo riconosce quei lunghi capelli scuri sotto il berretto a strisce, la sua fisionomia snella e le sue movenze sempre un po’ impacciate. Ancora al suo braccio, riesco a sentire il suo cuore battere più velocemente. Un’occhiata fugace all’espressione divertita di zia Mina gli fa intendere al volo che proprio questa era la sorpresa, lei sa che sono colleghi di lavoro.
Beatrice si volta e sorride, la trovo alquanto a suo agio vestita da elfo, sebbene non voleva partecipare all’impresa.
“Salve, mi chiamo Beatrice. Invece tu sei?”
“Babbo Natale?” Sotto la maschera, Leonardo si lascia andare a un risolino beffardo.
“Sì, certo, ma il tuo vero nome?” insiste Beatrice, mentre zia Mina si allontana richiamata da altri amici.
“Uhm… Nicola. Sì, San Nicola.” Leonardo mi poggia sulle seggioline lì vicino, dove ritrovo il suo vero cappotto, portato da Beatrice.
“Nicola… certo. Ho capito l’antifona. Rimaniamo nella parte. Allora io accompagnerò i bambini uno ad uno verso di te, per la foto di rito, la consegna delle loro letterine, se le hanno portate. A volte qualche genitore chiede di essere nella foto, a volte anche l’elfo.”
“Benissimo Beatrice, non potevo chiedere un’assistente migliore.” Leonardo la fissa con intensità, lei ovviamente non l’ha riconosciuto affatto, sia per la maschera, che per la voce profonda. Le rivolge un gran sorriso e poi va a sedersi sul suo trono dorato.
Beatrice mi si avvicina, prende un fazzolettino dalla borsa e se lo infila nella taschina del costume. Parla da sola come al solito, i pensieri ingarbugliati che scappano fuori dalla sua mente frenetica.
“Dove ho già visto quegli occhi? Così incredibilmente azzurri e limpidi… di una vivacità che stride con l’aspetto invecchiato di Babbo Natale. Così ben truccato, con la barba e la parrucca bianche… ma non finte, non credo, sembrano proprio vere. E le mani… Ho già visto quelle mani, l’osso del pollice pronunciato all’esterno, un particolare che non mi sfugge mai nelle mani di un uomo, perché indica sempre una persona straordinaria, almeno per me… Mio nonno aveva quella caratteristica, i suoi palmi enormi, da piccolina potevo a malapena stringere proprio quel pollice. Mio padre ha ereditato la stessa peculiarità, leggermente ingentilita dai tratti della madre. Anche un professore del suo liceo aveva quelle mani, ne ero innamorata perdutamente, in segreto… Perché ho la sensazione di conoscere quegli occhi?!”
Le due ore successive sono un bel po’ di lavoro per i due ragazzi, li osservo dal mio posticino laterale. Beatrice accompagna i bambini, qualcuno piange agitato e spaventato, così che lei li rassicura e resta al loro fianco, qualcun altro non riesce invece a trattenere l’entusiasmo, saltando senza sosta, come una molla impazzita. Zia Mina si aggira lì intorno, controllando che non ci siano problemi di sorta. Al termine della fila dei bambini, perché oramai si avvicina l’orario di chiusura del centro commerciale, zia Mina e il fotografo propongono uno scatto di Babbo Natale con in braccio proprio il suo aiutante elfo, una fotografia per ricordo, ma anche per la pubblicità sui social.
Con un certo imbarazzo, Beatrice si siede sopra il ginocchio sinistro di Babbo Natale.
“Peso un pochino di più degli altri bambini” si schermisce lei, arrossendo un poco.
“Non preoccuparti… pesi molto meno del ragazzino di prima che stava mangiando due ciambelle in una volta…”
Scoppiano a ridere entrambi.
Il fotografo chiede qualche minuto per adeguare le luci e l’inquadratura.
“E tu, cosa vorresti per Natale?” La voce di Leonardo è molto bassa, quasi si dimentica di camuffarla.
Beatrice non ci pensa nemmeno un secondo, la risposta è nelle sue preghiere da molti mesi oramai. “Vorrei risentire la risata di mia madre…”
Leonardo poggia la sua mano grande sopra le piccole mani di Beatrice, raccolte sulle ginocchia di lei. “Mi spiace molto…”
Beatrice scuote la testa. “So che è impossibile, anche per Babbo Natale… mi basterebbe vedere mio padre sorridere nuovamente, questo sì.”
Leonardo stringe ancora un po’ la sua mano su quelle di lei. “E per te? Non c’è davvero nulla che vorresti per te?”
“Io… non so…”
Per un istante, Beatrice e Leonardo si guardano negli occhi.
“Ragazzi, eccoci, sorridete!” Il fotografo accende tutte insieme le luci accecanti, puntate solo su loro due.
Leonardo le sussurra piano. “Ho ricevuto la tua letterina comunque…” Stavolta la voce è proprio la sua, senza inganni.
Beatrice arrossisce, riconoscendo finalmente il suo temibile collega. “La mia… cooosa?!”
Terminato il lavoro del fotografo, Beatrice si alza in piedi di scatto e corre verso di me. Infila le mani nelle mie tasche, stavolta senza sbagliare cappotto, ma quel foglio rosa ripiegato non c’è più. E’ rimasto sul comodino di Leonardo, dentro un cassetto dove lui custodisce le cose più care. Se solo sapesse che è tutto merito mio! Anche un po’ di zia Mina, glielo concedo.
Nel frattempo però Babbo Natale viene chiamato per altre fotografie nei vari negozi del centro commerciale, e viene portato via.
Beatrice riesce solo a scorgere un’ultima occhiata che lui le rivolge, uno sguardo pieno di promesse.
“Oh!”

“Era lui? Era davvero lui? No, è assurdo, non ha alcun senso… zia Mina saprà certamente chi indossa il costume di Babbo Natale, ma lei non conosce Leonardo, io non gliene ho mai parlato, credo… di sicuro non me ne ha mai fatto parola lei… oddio, è vero che zia Mina conosce praticamente mezza città… e quindi, magari…” Beatrice scuote la testa risoluta. Stiamo tornando a casa, sono tornato a riscaldare le sue spalle, penso non si sia nemmeno mai accorta dello scambio, visto che vesto comunque ampio sulla sua figura minuta. Cammina veloce, non saprei dire se arrabbiata per l’inganno o spaventata dalle sue conseguenze. Soprattutto a causa della letterina nelle mani di Babbo Natale. “Come l’avrà avuta? Leonardo, me l’ha presa dal cappotto in ufficio? No, non lo farebbe mai… Forse mi è caduta? Forse anche qui c’è l’intervento di zia Mina? Forse l’ho davvero imbucata e non me ne sono resa conto?!”
Quando giungiamo alla porta di casa, le sorprese non sono ancora finite. Al portoncino dell’ingresso è stata appesa una coroncina di vischio, ricca di palline rosse e fiocchi dorati, uno dei quali ha dei nastri così lunghi che quasi toccano terra. Entrata nel piccolo salotto, Beatrice resta scioccata da tanta meraviglia: un albero di Natale, non il vecchio albero ma uno nuovo di zecca, sovrasta la stanza e tutto intorno sono state distribuite altre decorazioni, un centrotavola con le candele sul tavolino basso, un paio di piante euforbie o stelle di Natale sono state sistemate vicino allo scrittoio di mogano, il camino è adornato di una lunga striscia di rami di pino, con luci intermittenti e palline colorate. Dalla televisione della cucina giungono canzoni di Natale e qualcuno canticchia sopra quelle melodie.
Sono sconvolto quanto Beatrice quando vi troviamo il signor Antonio che sta impacchettando regali. Il tavolo pieno di rotoli di carta colorata, con stampe in fantasia natalizia, fiocchi di diversa foggia e bobine di nastri luccicanti, mentre suo padre con le forbici sta arricciando la chiusura di un bel pacchetto appena terminato. Notando la faccia sconvolta di Beatrice, il signor Antonio si lascia andare ad un sorriso.
“E’ passata zia Mina, con un paio dei suoi ragazzi. E sai com’è fatta lei… Mi ha sgridato perché in questa casa non c’era niente di natalizio, si era portata dietro veramente di tutto, compreso l’albero! Poi mi ha lasciato questi, sono per i bambini dell’ospedale pediatrico, li devo finire per stasera…”
Beatrice si porta una mano alla guancia, per togliersi una lacrima dall’occhio, senza farsi notare. Il suo cuore qui sotto sta ruzzolando felice, e anch’io sono alquanto emozionato. Da quasi un anno non vedevamo il signor Antonio così allegro.
“Tra l’altro, domani siamo invitati a pranzo a casa sua…” prosegue lui, mentre deposita il pacchetto finito in un grosso sacco e raccoglie un’altra scatola da impacchettare. “Zia Mina mi ha detto che è da sola, e non si può stare da soli a Natale… Cosa dici? Ci andiamo?”
“Certamente. Devo… devo preparare qualcosa?” Beatrice a fatica riesce a parlare, l’emozione le ha bloccato la gola.
“Beh, dopo che lei se n’è andata, ho fatto un salto da Piero, mi aveva tenuto da parte il solito cappone. Potrei cucinarlo come facevo un tempo… era la mia specialità, no?”
Beatrice annuisce e in silenzio, trattenendo a fatica i lucciconi che le annebbiano la vista, si sposta all’ingresso.
“Sorride, mio padre sorride, appena appena ma sorride… Certo che quel Babbo Natale è stato proprio veloce!”
Mi appende all’attaccapanni, mi toglie un po’ di polvere con mano gentile.
“E se avesse letto davvero tutta la lettera?!”

La mattina di Natale ha un profumo tutto nuovo. Quello del cappone che ha cucinato lento per tutta la notte in forno e dei biscotti alla vaniglia che Beatrice ha preparato stamattina, dopo la colazione. Non sono eccezionali come quelli di zia Mina, ma è la ricetta segreta della signora Margherita, una preziosa eredità per Beatrice e questa è l’occasione giusta per tornare a prepararli.
Imbustate per bene tutte le vettovaglie, comprese un paio di bottiglie di vino che non si sa mai, giunge l’ora di uscire per il pranzo.
“Accidenti, non ho ancora portato il mio cappotto in lavanderia!” Beatrice sbotta all’ingresso, notando la macchia di caffè ancora presente.
“Tieni pure il mio Martini cara, io vado meglio col mio piumino, sono diventato un po’ freddoloso” le suggerisce il signor Antonio.
Così mi ritrovo a passeggio anch’io per una città appena appena spolverata di neve nella notte.
Quando arriviamo di fronte alla casetta di zia Mina, si sente una confusione di piatti e di risate all’interno. Suonano il campanello e zia Mina compare al portoncino. “Bene arrivati anche voi!”
“Ma non avevi detto che eri da sola, oggi?” Beatrice le rivolge uno sguardo truce.
“Mia cara, in effetti sì, sapevo di essere da sola oggi. L’ho detto a più di qualcuno, senza aspettarmi nulla. E beh, sono davvero felice che invece mi abbiate tenuto tutti in considerazione! Ma non preoccuparti, ci stiamo. I ragazzi qua stanno facendo un lavorone… hanno portato dei tavoli e delle sedie pieghevoli. E abbiamo cibo almeno fino all’Epifania!”
Non facciamo nemmeno in tempo ad entrare, che il campanello suona un’altra volta e alle nostre spalle compare proprio lui.
“Oh, ecco anche il nostro Babbo Natale!” Zia Mina strizza l’occhiolino in direzione di Beatrice, la quale avvampa all’istante.
“Buongiorno a tutti… Beatrice, Buon Natale!” Leonardo non nasconde né la sorpresa né il piacere di trovarla lì.
Ma vengono presto assorbiti dall’organizzazione della festa all’interno della casetta, dopo una tavolata lunga dal salotto fino alla cucina, piena di amici e leccornie li tengono allegri fino al tramonto, quando giunge finalmente il momento del dolce e di alcuni regali ancora da scartare. Zia Mina si alza per consegnare una grossa scatola rossa proprio a Beatrice, seduta poco lontano.
“Sai, in questi giorni ho aperto alcuni armadi in soffitta. Al tempo mi avevano detto di buttare via tutto, ma non ci sono riuscita, alcune cose conservano il profumo di chi le ha usate, e questo in fondo l’ho conservato solo per te.”
Beatrice apre la scatola e riconosce subito l’elegante intreccio di un maglioncino di lana rosa pallido. Era di sua madre, lo ricordo bene.
“Io… non ho…”
“Mettilo, forza! Dovrebbe stare bene con quella tua camicetta!” la esorta zia Mina.
Lenta nei movimenti, sopraffatta dall’emozione, Beatrice si toglie il cardigan rosso e indossa al suo posto il maglioncino.
“E’ bellissimo. Ti sta proprio bene, mia cara.”
Qualche sedia più in là, il signor Antonio sorride di malinconia, gli occhi lucidi.
“Scusate…” Beatrice si alza, mi afferra dallo schienale, mi infila sulle sue spalle e usciamo fuori quasi di corsa.
L’aria è fredda e pungente, la notte si appresta a prendere servizio oramai. Si ferma in giardino, vicino alla ringhiera, guardando lontano.
Pochi minuti dopo, la voce bassa di Leonardo ci raggiunge al fianco. “Tutto bene?”
“Sì. No. Ho… ho sentito la risata di mia madre, per un attimo, là dentro… è stato strano…” ammette lei in un sussurro.
“Era nelle tue richieste per Natale… in quella lettera…” Leonardo le si avvicina, fissandola negli occhi.
“Ero ubriaca quando l’ho scritta…”
“In vino veritas” ammicca lui, con un largo sorriso.
Beatrice arrossisce e distoglie lo sguardo altrove.
“Non importa…” continua Leonardo. “Non rimarrò per molto in quell’ufficio, stai tranquilla.”
“Te ne vai? Ti spostano di sede? All’estero!?” Beatrice non riesce a trattenere un tono acuto verso la fine.
Lui sorride, soddisfatto di quella reazione. “No, resto in città. Mio fratello ha aperto una società sua, si sta ingrandendo molto e mi ha chiesto di dargli un aiuto.”
“Capisco…” mormora Beatrice, mentre il suo cuore batte una corsa senza sosta.
“Resterò nella zona per altro. La sede legale è solo a due isolati dal tuo ufficio. Quindi…” Leonardo si avvicina ancora di più.
“Quindi…” Beatrice è quasi senza fiato.
In quel momento dei ragazzini passano veloci per il marciapiede, ridendo e lanciando in aria coriandoli colorati. “Buon Natale, Buon Natale!” gridano rivolti verso il mondo intero. Quei piccoli pezzetti di carta luccicante ci piovono addosso, su capelli e cappotti. Sono molto belli sulle mie spalle e penso potrei pure lanciare una nuova moda. Ma soprattutto, è in quell’istante che Leonardo abbraccia delicatamente Beatrice, avvicinando le loro labbra in un bacio da favola. Come in quei vecchi film in bianco e nero.

Ragazzi… ragazzi, su, dai, basta. Facciamo che rientrate in casa, mi lasciate sull’attaccapanni e questa cosa la proseguite da soli, senza di me?! Ragazzi… siamo in una strada pubblica, perdinci… non c’è nemmeno il vischio, suvvia…
Vabbè, fa niente. Sono troppo felice per voi. E guarda come brillano quelle stelle lassù!

 

(C) 2023 Barbara Businaro

 

Note:
Questo racconto parte da lontano, da un’intervista all’attore Antonio Albanese a Che Tempo Che Fa, in cui racconta la provenienza del cappotto in lana pied de poule del suo personaggio Epifanio. Stava frequentando l’accademia dell’arte drammatica Paolo Grassi, si recò in sartoria e trovò questo cappotto, aggiungendo poi una sciarpa e degli occhiali creò questo suo personaggio. Era proibito lavorare fuori dall’accademia, ma lui di nascosto fece una serata di cabaret, con questo cappotto, per raccimolare dei soldi. Il cappotto era praticamente rubato, anche se l’intenzione era di riportarlo. Il direttore dell’accademia però era tra il pubblico a quella serata, e quel cappotto era proprio suo, della madre. “Il cappotto rubato è già un titolo…” dice Fabio Fazio. E quella frase ha continuato a girarmi in testa per un po’, quel tanto da convincermi che dovevo scrivere un racconto su un cappotto rubato. “Ma il prossimo racconto da scrivere è quello di Natale… cosa fa un cappotto rubato a Natale?!” La risposta è arrivata altrettanto per caso, mentre dormivo e sognavo. Ma si potrebbe anche dire: mentre la parte migliore del mio cervello scrive sul serio e mi mostra per immagini quel che scrive. Il cappotto rubato, non si sa bene ancora da chi e come, porta con sè una letterina importante, una letterina per Babbo Natale. Poco dopo ho scoperto che il cappotto rubato viene in realtà scambiato tra la protagonista e un collega antipatico, e su quella letterina lei ha confessato proprio qualcosa che lo riguarda. Mentre scrivevo però la storia, quanto meno la bozza, qualcosa si incastrava. Non era Beatrice a raccontarmela, nossignore. Era il cappotto stesso, che si è presentato da solo. Un cappotto nero, taglio classico, distinto. Un cappotto che ha vissuto tante giornate, in un angolino di quella casa, momenti buoni e momenti brutti. Un cappotto che decide anche di passare all’azione.
Nel frattempo ero anche alla ricerca di una canzone che mi ispirasse, e quest’anno sembrava davvero complicato. La musica mi arriva da sola, tanto quanto la storia, attraversa la mia strada e riconosco che è lei la melodia giusta. Finché continuavo ad elaborare le scene di questo racconto, continuavo a canticchiare una canzone ascoltata alla radio in auto la mattina. “Solo tu mi fai, come il mare, se mi tocchi, la mia pelle brilla. Solo tu lo sai, tu sai fare, Un incendio con una scintilla. Solo tu mi fai brillare, brillare, brillare, brillare…” Non so perché il titolo sia Tokyo, né in quale momento l’autrice l’abbia scritta. Ma il bello delle canzoni, quanto dei racconti, è che diventano personali di chi le ascolta, e chi li legge. Quindi ho fatto mia quelle melodia e ho visto Martini, il cappotto della storia, brillare in quel gran finale da favola. Che io me lo vedo così, e spero di essere riuscita a rendere con le parole ciò che vedo nella mia testa. Di riflesso, loro hanno fatto brillare anche me, perché quest’anno sono riuscita a zittire il mio Grinch interno e ho riempito casa, terrazzo e scrivania di luci intermittenti colorate. E mi sono regalata un nuovo cappello da Elfo! 🙂
Non mi resta che augurarvi – e sono certa si aggiunga anche il cappotto Martini in questo augurio – un felice Natale!
Che sia in compagnia di amici, siano essi persone, animali, cappotti o libri poco importa, l’importante è che voi possiate brillare di felicità!

 

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Comments (10)

Grazia Gironella

Dic 25, 2023 at 5:33 PM Reply

Tanti auguri anche a te, Barbara, di giorni di festa sereni e di un nuovo anno scintillante, proprio come il cappotto… come te, del resto. 🙂

Barbara Businaro

Dic 26, 2023 at 5:39 PM Reply

Tanti auguri di Buone Feste anche a te Grazia! Che siano giorni di serenità, hai ragione, che di questi tempi non è affatto scontata.
In quanto al 2024… mi sono accorta che è pure bisestile! Che di solito significa tanta fatica, ma anche molte opportunità! 🙂

Daniela Bino

Dic 26, 2023 at 1:40 AM Reply

Un racconto molto originale. Non m’aspettavo che un cappotto, silente testimone, avesse così tanto da riferire. Assiste a gioie, dolori, frenesie quotidiane, amori e rotture,… devo stare attenta a cosa indosserò! Buon Natale, Barbara, e grazie per questo racconto di Natale che mi ha tenuto compagnia.

Barbara Businaro

Dic 26, 2023 at 5:46 PM Reply

Buone Feste anche a te Daniela! 🙂
La Disney in Toy Story ha dato voce ed emozioni ai giocattoli dei bambini. In Harry Potter la Rowling ha creato il cappello parlante, che smista gli studenti nella varie case di Hogwarts. Perché non dovrebbero avere un’anima anche i nostri cappotti, specie i classici senza tempo come Martini?! 😉
Attenta a non lasciarci niente nelle tasche però!

Giulia Mancini

Dic 27, 2023 at 5:06 PM Reply

Molto originale il tuo racconto natalizio, è bello immaginare che anche i cappotti hanno un’anima, in effetti ci riparano dal freddo e vivono molti momenti della nostra vita assieme a noi.
Mi piacciono le storie a lieto fine, soprattutto a Natale
Auguri Barbara, scusa il ritardo ma nelle feste resto distante dal mio iPad perché a pranzo in casa di mia sorella e ho potuto leggere il tuo bel racconto solo stasera. Buon proseguimento delle festività natalizie e soprattutto buon anno nuovo.

Barbara Businaro

Dic 29, 2023 at 3:56 PM Reply

E io arrivo invece solo ora a risponderti perché sono stati giorni di lavoro questi, dopo le festività a calendario.
Il cappotto Martini è diventato protagonista nel momento in cui gli è stata affidata quella letterina, è stata una sorpresa anche per me, ma mi sono divertita a mettermi nei suoi “panni”. 😀
Auguri anche a te Giulia, corriamo veloci verso il nuovo anno oramai!

Brunilde

Dic 28, 2023 at 8:17 PM Reply

Arrivo lunga, ma il tuo racconto l’ho letto proprio la mattina del 25: è il primo regalo che ho aperto.
E’ fresco e scorrevole, e l’idea di rendere protagonista un cappotto è veramente originale, bravissima!
Perdonami se fra fornelli, parenti e amici solo oggi ho trovato il tempo per ringraziarti per questa tua storia di Natale.
Ancora auguri, che l’anno nuovo ti porti tutto quello che desideri, incluso un po’ di riposo, dato che in questo 2023 che sta per finire ne hai fatte di tutti i colori !!!

Barbara Businaro

Dic 29, 2023 at 4:16 PM Reply

Ti ringrazio tantissimo Brunilde che, fra fornelli, parenti e amici, sei pure riuscita a ricordarti di tornare qui a scrivermi! 🙂
Addirittura il primo regalo scartato la mattina di Natale! Ma grazie!!
Non è la prima volta che faccio protagonista un oggetto. Molto tempo fa, come esercizio di scrittura creativa, ho fatto raccontare tutte le sue peripezie ad un sedile d’auto, di una vecchia Fiat Panda, puoi leggerne qui: Vita da sedile
All’epoca mi capitavano molte ore nel traffico e lunghi tragitti in autostrada, dopo un po’ anche la radio ti annoia, e così mentalmente iniziai a scrivere quel raccontino.
Auguri anche a te per questo nuovo anno che bussa alla porta. Pure il 2023 doveva essere di relax, e invece qualche sorpresa bella è capitata. Vedremo questo 2024… è pure bisestile!!

paola sposito

Gen 06, 2024 at 11:59 AM Reply

Bellissimo e molto originale il racconto, mi è piaciuto tantissimo. L’idea di fare raccontare la storia ad un oggetto è azzeccata: il cappotto a me ha dato l’idea di un sostituto dell’affetto materno con i suoi abbracci caldi e protettivi. E come una madre, il cappotto Martini dà una mano al destino, in questo caso Babbo Natale o la zia Mina, per riportare speranza e colore nelle vite di Beatrice e del papà. Buona Epifania e auguri per il nuovo anno appena iniziato!

Barbara Businaro

Gen 06, 2024 at 7:04 PM Reply

Grazie Paola! Buona Epifania anche a te (qui si festeggia anche domani, visto che è domenica) e Buon 2024, che sia ricco di belle storie! 🙂
Sono contenta ti sia piaciuto il racconto. Senza l’arrivo di Martini dentro la trama non sarei riuscita a finirlo, è il motore di tutto.

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